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Autore: Aout    11/01/2013    2 recensioni
Daniel è un ragazzo come tanti.
Ha diciannove anni e frequenta il secondo anno di college, lavora per mantenersi e ama lamentarsi di qualunque cosa gli capiti sotto tiro. Vive una vita normale, anonima e noiosa e, anche se a tratti la trova seccante, diciamo che l’accetta così com’è.
Ecco… peccato che il mondo così tanto "normale" proprio non sia, peccato che di mostri inquietanti ce ne siano a bizzeffe, peccato che perfino lo stesso Daniel nasconda qualche piccolo e trascurabile segretuccio...
Ci siete?
Prendete tutti i personaggi che conoscete, tutte quelle creature soprannaturali che di vivere in pace proprio non ne vogliono sapere, prendete la sete di vendetta e pure una buona dose di calcolo strategico ed ecco che avrete la storia.
Che altro dire?
Vi aspetto ;)
(STORIA SOSPESA almeno fino a quest'estate, quando avrò il tempo di rivedere la trama, la piega che sta prendendo mi piace poco. Chiedo venia a chi mi stava seguendo, ma ritengo di non poter fare altrimenti)
Genere: Avventura, Commedia, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Sorpresa, Un po' tutti, Volturi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga
Capitoli:
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Capitolo 1
Perché era destino

 
 


- Dan, puoi prendermi “Deep Purple”, per favore – Brian era al bancone, mentre io, ultimo arrivato e quindi ufficialmente facchino tuttofare, ero nel retrobottega, a sistemare alcuni degli ultimi scatoloni appena arrivati.
- Scusa, ma non ho capito, cos'è che vuoi? -
- "Deep Purple", per favore, non facciamo aspettare i clienti – disse sorridente rivolto a un uomo calvo davanti a lui che mostrava già evidenti i segni di un probabile attacco isterico.
- Ehm... -
Perché, perché proprio un negozio di musica mi ero andato a scegliere? Un conto era saper fare un caffè in un bar, un conto era conoscere a memoria tutta la discografia dell’ultimo cantante country texano che fa musica dagli anni ’20 e solo quattro persone comprano i suoi CD, giusto quei quattro che l’anima, la vengono a rompere a me.
- “Deep Purple” Dan, il terzo album dei, indovina?, Deep Purple. Corridoio a sinistra, ultimo scaffale a destra, in alto. – disse Brian rivolto verso di me, che intanto ero arrivato al bancone, alzando elegantemente un sopracciglio.
Cavoli, a questa avrei potuto arrivarci persino io.
-Sì, arrivo subito. – esalai, già stanco di una giornata di lavoro che era appena cominciata.
Mi avviai velocemente, mentre sentivo Brian ululare un "intanto vuole altro, signore?" al cliente, come dire che ci avrei messo minimo vent'anni a compiere la rischiosa missione.
Che odio.
Ero appena arrivato allo scaffale e stavo tentando di recuperare il CD, ovviamente al di fuori della mia portata.
Ero arrivato e, giuro, ero a tanto così dal prenderlo, quando accadde.
 
Una donna blu, una casa in mattoni e un paio di occhi.
 
Li vidi davanti al mio sguardo, come flash di una macchina fotografica, in rapida successione: una donna blu, una casa in mattoni, un paio di occhi.
Occhi rossi.
A quel punto ero già caduto per terra, con la schiena appoggiata allo scaffale dietro di me e le mani nei capelli.
- Oh, caspita! Si sente bene, signore? - una ragazzina mi si era avvicinata e mi guardava allarmata.
Avrei tanto voluto rispondere di sì, che era tutto ok e non c'era da preoccuparsi, ma in quel momento non riuscivo nemmeno a trovarle, le mie corde vocali. Ero lì, seduto molto poco elegantemente per terra, impegnato a ritrovare il respiro e con la testa che girava e girava.
- Dan, Dan che hai? - a posto, era arrivato anche lui, Brian "sottuttoio".
- Niente, tutto ok, un piccolo mancamento. - fortuna che almeno la parola l'avevo ritrovata.
Come un animale azzoppato, mi alzai piano, da solo ovviamente, dato che sembravano tutti troppo occupati a fissarmi ad occhi sbarrati.
- Ma cosa...-
- Senti Brian, posso prendermi il resto del pomeriggio libero?- non lo lasciai nemmeno finire di parlare, avevo fretta.
Lui mi guardò, perplesso e ancora con quello stramaledettissimo sopracciglio alzato.
Non c'erano pomeriggi liberi per i nuovi assunti, e questo lo sapevo perfettamente, l'avevo accettato come condizione per quel nuovo lavoro, più una paga misera ed un collega scostante. Ma, che cavolo, ero quasi svenuto sul pavimento, me la meritavo pure qualche ora di riposo, no?
- Io... sì, sì vai e riposati, ci vediamo domani. -
Crudelio Demon che mi concedeva una cosa del genere?
Meglio filarsela, e in fretta, prima che cambiasse idea.
Annuii, quasi commosso dalla sua gentilezza, e, dopo aver deposto sull'appendiabiti nel retrobottega la mia divisa, o meglio la mia squallida giacca gialla e nera che pretendeva di essere una divisa, presi il cappotto e uscii in strada.
 
La prima cosa che feci fu fermarmi alla gelateria di fronte: "Bunny's Time".
Sembra strano che, dopo una cosa del genere, uno si fermi in gelateria, ma era quello che facevo sempre da piccolo, quando qualcosa mi preoccupava, e purtroppo l'abitudine è rimasta.
Forse non era troppo salutare, come abitudine, ma costituiva comunque un buon sedativo per l'ansia. E considerando che i ragazzi della mia età raggiungevano lo stesso effetto friggendosi il cervello con droga o alcool, mi consideravo piuttosto fortunato.
Entrai e comprai un cono piccolo al cioccolato e alla menta, i miei gusti preferiti da quando avevo capito per la prima volta cosa fosse un gelato.
Uscii pochi secondi dopo, lasciando una mancia piuttosto alta dato che non avevo avuto il tempo di calcolare le percentuali, come ero solito fare. Sperai vagamente che il negoziante non si aspettasse un trattamento del genere ogni volta, dato che, vista la piega che stavano prendendo le cose, sarei andato lì molto spesso.
Con in una mano il gelato, ormai quasi finito, e nell'altra le chiavi, mi avviai verso il mio scooter, parcheggiato pochi metri più in là.
Il mio scooter, e di scooter parlo, non di moto, non credo meriti questo nome, era fermo tra una bicicletta rosa con un cestino della stessa tonalità e una motocicletta argentata,
probabilmente dello stesso modello di quella di Ghost Rider.
Quando misi le chiavi nel quadro, stavo silenziosamente pregando perché partisse senza fare troppo rumore.
Dopo i primi sei tentativi andati a vuoto gli stavo energicamente inveendo contro nella vana speranza che almeno almeno mi concedesse la grazia di partire.
Solo al dodicesimo, e dico dodicesimo, tentativo, fui accontentato.
Con una bella zaffata di fumo, qualcosa che mio padre, ecologista fino al midollo, non mi avrebbe mai perdonato, finalmente partii verso l’alloggio.
 
Erano passati quindici minuti esatti e solo allora, sdraiato sul mio durissimo letto a doghe, cercando di ignorare la musica assordante della camera fianco che mi stava martellando il cervello, potevo concedermi di pensare a quello che era successo.
Calmati, Dan, respira...
Calmarmi? Col cavolo che potevo calmarmi! Le allucinazioni erano tornate ed io, io ero più che giustificato a disperarmi!
Ma non è detto…
Ah no, stupida piccola vocina interiore? Che avesse almeno la grazia di spiegarmelo lei allora cosa stesse succedendo!
Ma no, no era vero, dovevo calmarmi e ragionare un secondo.
Quando era successo l’ultima volta? Erano passati almeno almeno otto o nove anni, di sicuro.
Ecco, otto o nove anni di illusioni, evaporati così, in un secondo.
Fra l'altro, manco avessi visto qualcosa di particolarmente chiaro: una donna blu, e già qui c’era da preoccuparsi, una casa in mattoni, chissà dove e chissà quando soprattutto, e poi, dulcis in fundo, un bel paio di occhi, rossi giusto per non farsi mancare niente.
Presi la bottiglietta d'acqua al mio fianco e bevvi un sorso, cercando ancora una volta di ritrovare quella calma che sembrava avermi definitivamente abbandonato.
Da piccolo vedevo cose piuttosto stupide: sapevo che quel giorno avrebbe piovuto, che l’anta dell’armadio si sarebbe rotta, che il regalo per natale sarebbe stato il tanto desiderato aeroplanino telecomandato. Erano cose semplici, facilmente ignorabili, che mi avevano solo fatto eleggere a piccolo genietto di casa, nulla più.
Il guaio, quello vero, c'era stato il giorno prima del mio decimo compleanno.
Quella mattina, e me lo ricordo perfettamente, certe cose sono difficili da dimenticare, chiesi a mio zio se, per favore, evitava di andare alla stadio quel giorno che, io lo sapevo, ci sarebbe stato un piccolo incendio e nella calca qualcuno si sarebbe pure fatto male.
Ecco, a quel punto il mondo era crollato.
Perché l’incendio c’era stato, io l’avevo previsto, e mio zio, credendo le mie semplici e sciocche fantasie di un bambino semplice e sciocco, era pure tornato a casa con qualche contusione e un occhio nero.
Capite da soli cosa accadde dopo o devo anche stare a spiegarvelo?
Seguirono tante domande a cui io, ragazzino ingenuo, non sapevo rispondere e pure una bella strigliata che di certo non meritavo. Sapete una cosa? Fui persino costretto a seguire una terapia con uno psicologo infantile che passò le prime sei ore a convincermi che avevo semplicemente una fervida fantasia e che quella era stata una coincidenza, le altre sei a darmi le caramelle perché mi ero lasciato convincere.
Ma quelle non erano mai state fantasie e forse in fondo lo avevo sempre saputo. Anche in quel momento, seduto sul letto con la bottiglietta d’acqua in mano, io sapevo che quella non era stata un’allucinazione, ma una visione del futuro. Il problema era che ammetterlo significava anche mettere in discussione tutte le paturnie mentali che mi avevano perseguitato negli anni, e pure un discutibile numero di leggi fisiche, quelle che tanto mi piaceva studiare.
Perché proprio adesso, poi? Quando avevo deciso che no, una cosa del genere non sarebbe mai più dovuta succedere, allora erano semplicemente scomparse, senza tornare più a infastidire quella che già mi si prospettava come un'adolescenza difficile.
O almeno fino a quel punto. Ma adesso, eccole di nuovo: una donna blu, una casa in mattoni e un paio di occhi rossi.
Ecco cosa mi spaventava tanto, gli occhi rossi, rossi come le fiamme dell’inferno, che mi fissavano, che mi volevano. Quel particolare, che improvvisamente mi tornò in mente, mi fece rabbrividire.
Che cosa volevano da me?
La prima cosa che feci, e per favore non giudicatemi, allora vivevo ancora nella mia felice ignoranza, fu chiedermi quando mai avessi potuto fare del male ad un coniglio bianco, l’unica cosa con gli occhi rossi che al momento mi veniva in mente…
  
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