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Autore: deuxexmycroft    27/01/2013    6 recensioni
Cinque anni dopo aver fatto rinchiudere l'omicida Sherlock Holmes dietro le sbarre, emerge un feroce emulatore. Un riluttante John Watson è costretto a lasciare il suo pensionamento alla ricerca della consulenza dell'unico uomo che possa aiutarlo, un uomo che ha sviluppato per lui un'inquietante ossessione .
Genere: Drammatico, Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Jim Moriarty , John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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loss 3

Questa volta ho avuto un bel daffare con le forme del ‘tu’ e del ‘lei’, che complicano moltissimo la vita a noi traduttori (o almeno a me). Quindi perdonatemi se vi capiterà di trovarli fuori luogo, ma c’era poco altro da fare. Per questa fanfiction ho deciso di far relazionare i personaggi in modo non troppo formale. E poi la stazione. Stazione di polizia o stazione dei treni? Credo di essere riuscita a gestire i termini in questo capitolo, ma ora mi rendo conto che avrei potuto avere frainteso qualcosa in quelli precedenti. Ahimé. E ancora non ho capito se la ginnasta si arrampica su tubature o stucchi decorativi. Un inglese l’avrebbe capito, ma per me sono la stessa cosa.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Jim Moriarty ricordava il loro fatale incontro, più di cinque anni prima. Era impresso nella sua memoria come una ferita.

Gli avevano raccomandato di fissare un appuntamento di sera, l’ultima visita; in quel modo il dottor Sherlock Holmes gli avrebbe consesso delle ore extra, se necessario, e Jim avrebbe potuto finire di sistemare tutto in una notte. Aveva fermamente sperato che sarebbe stato quello il caso, che il dottor Sherlock Holmes fosse davvero così bravo come decantavano. Solo nell’eventualità che non lo fosse, Jim aveva fissato l’appuntamento all’abitazione privata del dottor Holmes così da poter conoscere l’ambiente in cui l’uomo viveva. Sarebbe stato meglio se non avesse richiesto una retribuzione, ma nessuno prendeva il denaro di Jim senza dare qualcosa in cambio. Non senza pentirsi amaramente della trasgressione.

Le giornate si erano accorciate, per questo era già buio fuori quando Jim arrivò per la sessione, i lampioni splendevano debolmente più in alto, tutto attorno a lui aveva un intenso colore grigio-blu. La notte rimuoveva i colori dal mondo. Jim dovette strizzare gli occhi mentre controllava dietro di sé, ruotando lo sterzo della sua BMW in una manovra pulita di parcheggio parallelo. Aveva guidato fin lì da solo. Non c’era bisogno che qualcuno sapesse di questa sua particolare debolezza, specialmente se si fosse scoperto che il dottor Holmes non aveva una cura.

Jim poté udire il suono smorzato di un violino mentre saliva le scale che portavano a casa del dottor Holmes, una melodia costante e profonda attutita dalle finestre da cui fuoriusciva una luce gialla che contornava gli orli delle tende. La musica si interruppe bruscamente quando Jim suonò il campanello e il dottor Holmes apparve alla porta un istante più tardi, un’espressione cortesemente neutrale. Indossava una camicia scura e dei pantaloni da completo dal taglio stretto, la sua alta, magra figura contornata dalle luci del corridoio. Jim aveva parlato al dottor Holmes soltanto al telefono. Non si aspettava qualcuno così… appariscente.

“Buona sera,” disse Sherlock, le ciglia si abbassarono mentre faceva scorrere i suoi occhi blu ghiaccio sopra a Jim, catalogandolo. “Lei dev’essere Jim Moriarty.”

“’Sera,” disse Jim vivacemente, sperando caldamente che quel Sherlock potesse aiutarlo. Sarebbe stato un tale spreco uccidere qualcuno di così grazioso.

Sherlock indietreggiò per fare spazio a Jim nell’atrio, l’espressione neutra non aveva lasciato il suo volto. Una persona normale non l’avrebbe notato, ma Jim si accorse che si stava sforzando a mantenere quello sguardo.

Sospettava che la naturale espressione di Sherlock fosse più acuta e meno educata.

“Prego,” disse Sherlock graziosamente. “È un po’ in anticipo.”

Jim lo sapeva. “Oh, mi dispiace,” si scusò con un ghigno, passando di lato a Sherlock ed entrando nel corridoio, pulendosi i piedi sullo zerbino. “L’orologio della mia auto dev’essere rotto.”

Gli occhi di Sherlock si strinsero leggermente. “È tutto a posto,” disse, stirando lievemente gli angoli della bocca. “Ho preparato tutto.”

Era uno psichiatra inusuale, rifletté Jim, mentre seguiva la snella schiena di Sherlock nel salotto. Non appariva particolarmente confortante, ma Jim non era alla ricerca di un orecchio comprensivo. Gli occhi di Sherlock erano luminosi e molto intelligenti, e aveva, attorno a lui, questa tenue aura di onniscienza che Jim trovava eccitante. Era al di sopra e al di là delle aspettative di Jim. Era sicuro che quello fosse l’uomo di cui aveva bisogno.

C’era un violino appoggiato a un piedistallo di fianco a una poltrona grigioverde, la poltrona di Sherlock. Un po’ più in là si trovava un apparentemente confortevole divano su cui Jim avrebbe potuto sdraiarsi, molto freudiano. Sherlock glielo indicò ma Jim rise e scosse la testa.

“Sto bene su una poltrona normale,” disse.

Sherlock non si mosse. “Si fidi, quello è meglio.”

Jim si appollaiò sul bordo, eretto, e sorrise verso Sherlock.

“Si sdrai,” disse Sherlock paziente, e Jim capì che non sarebbe successo niente finché non avesse fatto ciò che gli era stato detto. Emise un sospiro irritato per dimostrare a Sherlock quanto stesse diventando fastidioso e si lasciò cadere di schiena sul divano. Se quel trattamento, qualunque cosa fosse, non avesse funzionato, Jim avrebbe fatto del male a Sherlock per tutte quelle piccole umiliazioni. Non gli piaceva arrendersi a nessuno. Non gli piaceva la vulnerabilità che derivava dall’essere disteso sulla schiena, incapace di fuggire facilmente.

Udì Sherlock sedersi, lo vide incrociare le gambe con la coda dell’occhio. “Lei mi è stato raccomandato, lo sa?” disse Jim, con un cenno d’intesa. “Ha curato la claustrofobia di uno dei miei dipendenti in una sessione. Molto impressionante.”

Sherlock scosse le spalle. “È stata una lunga sessione.”

Solitamente Jim riusciva a leggere le persone, ma Sherlock era impenetrabile. “Non ha voluto dire come ci è riuscito, però.”

Sherlock si schiarì la voce. “Al telefono ha accennato di avere una preoccupante paura dei ragni.”

Jim rise. “Già, sin da quando ero piccolo. Sono cresciuto in una casa che… beh,” girò la testa per guardare Sherlock. “C’erano un sacco di modi di entrare, per un ragno.” Sherlock ricambiò lo sguardo impassibile. Non avrebbe dovuto avere un quaderno per appunti o qualcosa di simile? Agitò una mano e proseguì. “È arrivata al punto di essere imbarazzante. Ho 33 anni e sono ancora spaventato dai ragni.”

“Fotografie di ragni la spaventano?”

“Non spaventano chiunque?” Jim rise, ma Sherlock non batté ciglio. Si accigliò. “Beh, sento una certa repulsione, ma credo che sia normale. Credo che sia il loro modo di muoversi a terrorizzarmi, più che il loro aspetto. Specialmente quando sono grossi e veloci. Cazzo, griderei a squarciagola se potessi,” ridacchiò a disagio. Era imbarazzante.

Sherlock rimase in silenzio per un momento. Jim finse che stesse prendendo appunti su un quaderno immaginario come succedeva nei film. Poi Sherlock parlò. “Anch’io ero spaventato dai ragni.”

“Davvero?” esclamò Jim. Non se lo aspettava. Sherlock sembrava così imperturbabile.

Sherlock inclinò la testa. “Oh sì,” mormorò e suonò leggermente amareggiato.

“Ma non lo è più.” Jim si dimenò verso l’alto e si appoggiò ai gomiti. “Ha razionalizzato la paura?” lo accusò. “Perché io ci ho già provato ma odio ancora quei piccoli stronzi.”

“Non c’è nulla di razionale nelle fobie,” disse Sherlock gentilmente. “La paura dei ragni è comune per una serie di solide ragioni evolutive, e per quanto quelli in Inghilterra siano innocui avvertiamo ancora le tracce di quella paura quando ne vediamo uno. Non che siano pericolosi. Lo sappiamo, lo sappiamo. In questo caso, razionalizzarlo al di fuori di un preconcetto mentale avrebbe solo una piccola possibilità di funzionare.” Piegò la testa, stringendo insieme le mani. “Se mi permette, non mi sorprende il fatto che abbia fallito.”

“Come si è curato?” chiese Jim, interessato.

Sherlock lo scrutò pensieroso, poi abbasso lo sguardo sulle mani intrecciate. “Non l’ho fatto,” disse. “Ho avuto bisogno di un aiuto esterno, come lei.”

Era molto vago, questo dottore. “Può aiutarmi?” domandò Jim, ricacciando indietro la propria irritazione.

“Oh sì,” disse Sherlock, con un ghigno che rasentava la furbizia. “Probabilmente potrei curarla stanotte.” Si chinò leggermente in avanti, il tono serio. “Non sarà semplice, però, non sarà piacevole. Vuole ancora provare?”

Certo, pensò Jim, e annuì con forza. Sherlock si alzò in piedi e in incamminò a grandi passi verso la libreria, allungandosi per estrarre una cartella dalla cima. Jim poté scorgere un accenno delle sue scapole flessuose muoversi sotto la camicia scura. Non gli sarebbe dispiaciuto incontrare più spesso questo dottore. Pagarlo molto, tenerselo attorno…

Sherlock tirò fuori un foglio di carta dalla cartella. “Ho un contratto da farle firmare,” disse in tono mellifluo, facendo segno a Jim di alzarsi. “È abbastanza semplice. Le darò una mano, se le fa piacere.”

Jim si sedette sul divano, scorrendo il contratto con gli occhi stretti. Gli saltarono agli occhi vari termini di cui non si curò troppo, ma quello che lo colpì di più era la richiesta di silenzio.

Paura che qualcuno gli rubasse i metodi? “È un obbligo di silenzio, questo?” chiese a Sherlock, il quale stava accordando discretamente il violino mentre Jim rimuginava su ogni cosa.

“Sì,” disse semplicemente.

Jim rise. “Ecco perché Seb non ha potuto parlarmi della sessione,” rise, sollevando la mano e mimando uno scarabocchio in aria. Sherlock si alzò di nuovo, offrendogli una penna, e appena Jim ebbe firmato il foglio gli fu tolto di mano. Jim osservò il dottore controllare tutto con un lieve restringimento dei suoi pallidi occhi glaciali, quindi il foglio fu messo da parte. Si sedette sul divano di fianco a Jim, e Jim avvertì il calore del suo corpo vicinissimo quando Sherlock piegò la testa, i ricci scuri ondeggiarono da parte.

“Questa sarà una…” Sherlock fece una pausa delicata, “cura un po’ fisica. Non ho messo in chiaro la situazione quando ho detto che sarebbe stata spiacevole.”

Jim si strinse nelle spalle.

“Dico sul serio,” disse Sherlock, guardando intensamente negli occhi di Jim. Jim rise.

“Si fidi di me,” disse con un ghigno. “Mi sono trovato in mezzo a un sacco di situazioni spiacevoli, prima d’ora.” Molto più quanto avesse fatto un dottore di classe medio-alta in una gradevole parte di Londra, ne era certo.

“Sì,” mormorò Sherlock, abbassando le ciglia, e Jim ebbe la sensazione che lo stesse soppesando mentalmente. Affascinante. “Riesco a vederlo.” Con sorpresa di Jim, si alzò e ricadde con le ginocchia sul tappeto, armeggiando sotto al divano per estrarne delle cinghie spesse, nere, le estremità erano attaccate ai lati del divano sul quale Jim stava seduto. “Adesso la immobilizzerò,” disse in tono professionale. “Per cui trovi una posizione confortevole.”

Stava diventando interessante. “Okay,” disse Jim, divertito, e si stese permettendo a Sherlock di lavorare su di lui. Le cinghie gli passarono attorno al petto, gli legarono le braccia ai lati, e le gambe. Vennero allacciate insieme, spingendolo sul divano e, con una forza sorprendente, Sherlock le tirò così strette che, quando ebbe finito, Jim non poté fare a meno di dimenarsi.

“Quando ero un bambino,” disse Sherlock, testando la forza delle cinghie e allontanandosi con soddisfazione, “mio fratello collezionava ragni.”

“Davvero?” disse Jim e fece forza contro quelle costrizioni, saggiandole. Non c’era niente da fare, era bloccato. Notandolo, gli occhi di Sherlock guizzarono su di lui, poi si raddrizzò e camminò fino all’angolo della stanza, abbastanza lontano perché Jim dovesse allungare la testa per non perderlo d’occhio.

“Non sono sicuro del perché lo attirassero così tanto.” Sherlock si piegò dietro un tavolo da scacchi e riemerse con una scatola avvolta da una larga coperta bianca che trasportò con cautela. “Era un hobby che è andato dal collezionare quelli che avevamo in casa allo spendere soldi per le razze più costose provenienti da tutto il mondo. Forse gli piaceva la loro natura.”

Sherlock posò gentilmente la scatola sul tavolino da caffè, sollevando la coperta con una sorta di reverenza.

“Per lui erano i predatori perfetti, pazienti e scaltri. Non avevano bisogno di correre o inseguire. Loro aspettavano e basta.” Sherlock sembrò rabbrividire facendo scorrere un dito sul coperchio della scatola. “Non aveva paura di tenerli in mano, ma io,” soffocò una risata, “io ero terrorizzato da loro. Ho cercato di nasconderlo, ma lui lo scoprì in fretta. Le mie paure lo infastidivano. Mi stavo comportando in modo irrazionale.”

Sollevò il coperchio dalla scatola con due mani, posizionandolo da parte. Qualcosa, nella sua espressione, si era incupito, e vi era un che di intenzionalmente predatorio nei suoi movimenti che Jim prima non aveva colto. Deglutì a vuoto quando Sherlock allungò una mano dalle dita lunghe nella scatola, lentamente, cautamente. Ascoltando attentamente, Jim poté udire un fruscio. Il suono di qualcosa che grattava.

Il volume della voce di Sherlock precipitò. “Una notte entrò nella mia stanza, mentre dormivo.” Inalò l’aria con un respiro profondo, poi si girò improvvisamente a fissare Jim direttamente negli occhi. “Rovesciò una scatola di ragni nel mio letto.”

L’immagine di un giovane ragazzo intrappolato nelle coperte, gridando di paura, sentendo i ragni strisciargli sulla pelle, colpì la mente di Jim e si ritrovò senza fiato. Distolse lo sguardo da Sherlock per trovarsi a osservare la scatola con orrore crescente mentre il fruscio sembrava ingigantire. All’improvviso, una lunga zampa nera affiorò dalla scatola, allacciandosi attorno al braccio di Sherlock che si trovava ancora al suo interno. La mente di Jim si dissolse in puro panico quando un ragno enorme apparve dalla manica di Sherlock, pesante e nero con gli arti grassi. Le sue zampe dovevano essere lunghe parecchi centimetri.

Sherlock non degnò di uno sguardo quella creatura orripilante che era aggrappata al suo gomito, al contrario osservò Jim con calma, con l’espressione con la quale lo aveva accolto alla porta. “Il miglior trattamento per questa sorta di fobia è l’esposizione allo stimolo fobico in un ambiente controllato,” disse Sherlock con voce gentile. “Ha mai sentito parlare di flooding?”

Jim scosse soltanto la testa, delirante per la paura, con gli occhi spalancati. Non riuscì a rispondere. Il primo ragno si posizionò sul cuore di Sherlock, penzolante, e un altro gigantesco ragno si stava arrampicando sul braccio di Sherlock. La scatola frusciava ancora. Quanti ragni c’erano là dentro?

Sherlock sorrise quando Jim iniziò a forzare le cinghie e non attese una risposta. “Il flooding è il più estremo tra i trattamenti di esposizione. Il paziente viene immerso nel riflesso della paura finché questa non svanisce da sola.” Abbassò lo sguardo quando un terzo ragno gli raggiunse la spalla, raspando sulla seta della camicia. “Si realizza che non c’è nulla di cui aver paura.” Sfregò un dito pallido sul ragno sul suo petto, facendo balzare le sue grasse zampe. “Mio fratello mi tenne giù e mi coprì di ragni finché non lo trovai più spaventoso. Ho chiuso il suo amico claustrofobico in una bara e l’ho tenuto lì tutta la notte. Alcune reazioni fobiche sono così intense che il flooding va fatto tramite l’immaginazione.” Il suo sguardo ricadde sul corpo sussultante di Jim. “Ma credo che lei sia forte abbastanza da sopportarlo.”

Aveva quattro ragni attaccati addosso, il più grande si trovava sul suo collo con le sue zampe nere affondate tra i ricci, e quando sollevò la scatola e iniziò a camminare, i balbettii frenetici di Jim si tramutarono in urla supplicanti.

Sherlock rimase indifferente. “Le suggerirei di tenere la bocca chiusa, per ovvie ragioni,” disse brevemente. “E cerchi di non agitarsi troppo. Potrebbero mordere.”

Poi svuotò la scatola sul corpo di Jim.

 

***

 

John non inciampò fuori dall’ospedale. Si fece forza e marciò con andatura veloce, guardando avanti, tutta la tensione del suo corpo era pesantemente raccolta nei suoi pugni chiusi. Solo una volta che fu fuori, nell’aria mattutina, rilassò la postura. Quando fu fuori da ogni raggio visivo, quasi collassò appoggiandosi a un ruvido muro di mattoni, le ginocchia deboli, e si premette il pugno stretto contro la bocca per soffocare quello che minacciava di essere un singhiozzo. Se si fosse incamminato all’interno del parco, il taxi, che lui stesso aveva chiamato, che stava ora compiendo lenti giri, l’avrebbe visto e l’avrebbe portato alla stazione, ma John non era ancora pronto per questo. Aveva bisogno di un momento in privato, aveva bisogno di elaborare quanto rapidamente ogni cosa stava sfuggendo al suo controllo.

Gli occhi freddi di Sherlock indugiavano nella parte anteriore della sua mente, uno sguardo che aveva scavato così in profondità che John sapeva che avrebbe ricordato quella particolare gradazione di blu ghiaccio per tutto il resto della sua vita.

Erano anni che non parlava di Rachael, a nessuno. Coloro che erano a conoscenza di ciò che era accaduto non gli facevano domande in proposito, così John aveva potuto relegare con successo quelle memorie in qualche angolo oscuro del suo cervello e andare avanti come se la cosa fosse soltanto un vivido incubo del quale non doveva curarsi troppo. Era una confortante, anche se malsanamente evitata, illusione.

E poi Sherlock Holmes aveva –

John si strinse il ponte del naso tra le dita e bevve l’aria fredda del mattino. I polmoni gli dolevano. Aveva bisogno di una sciarpa, o una giacca più pesante. Il cemento ondeggiava sotto i suoi piedi, ghiaia e sporco.

Una vibrazione contro il suo petto lo spaventò; era solo il suo telefono. Ronzava rumorosamente nella sua tasca e armeggiò per raggiungerlo con le mani intirizzite. “Pronto?”

“John,” la voce familiare di Greg risuonò nel suo orecchio, sembrava scosso. “È da un po’ che ti chiamo. Abbiamo bisogno di te a Londra immediatamente.”

John respirò pesantemente contro il muro per qualche momento con gli occhi serrati. Sollevò la testa. “Scusa, non c’era campo. La cella di Sherlock è sottoterra,” spiegò, scusandosi, prorompendo in una camminata svelta verso il taxi. La sua voce uscì leggermente fievole, ma Greg sembrò non notarlo. “Cos’è successo?”

“Abbiamo trovato quattro corpi nel Tamigi, questa mattina,” disse Greg rapidamente. John sentiva il vento sibilare come una scarica elettrica attraverso l’altoparlante, ed ebbe l’immagine di un Greg infreddolito in piedi vicino all’acqua grigia del fiume leggermente scostato dagli altri, il cappotto che sbatteva attorno alle gambe. “Sono stati legati a qualche conduttura e uno di loro è venuto in superficie. Abbiamo delimitato la scena e li porteremo su presto.”

John fece un cenno al tassista e saltò sul sedile posteriore. “Stazione, per favore,” richiese, poi tornò a parlare al telefono, incapace di nascondere la confusione. “Sono ritornato soltanto su questo caso, Greg. Perché hai bisogno di me per questo?”

“È lo stesso assassino, John,” disse Greg e deglutì rumorosamente. “Sono tutte donne e hanno…” il suo tono di voce precipitò, cauto, “…parti del corpo mancanti.”

John si appoggiò al sedile con un sibilo di pelle schiacciata. La sua gola si serrò. “Quindi non sono più solo due vittime.”

“Non lo so, ma così sembra,” ammise Greg. “Toby si è praticamente ammutolito. Sta ritornando sopra a tutto.”

Cinque corpi, non due. Quante persone aveva ucciso Sherlock? Erano riusciti ad attribuirgliene nove, anche se John aveva sempre creduto che dovevano esserci delle vittime di prova nascoste da qualche parte, o alcune che semplicemente non erano stati abbastanza bravi da trovare. “Dobbiamo dirlo alla gente. Indici una conferenza stampa o qualcosa del genere. Non possiamo nascondere la connessione a nessuno, ormai. Le persone devono sapere così da potersi difendere.”

Greg sbuffò nel telefono. “Già, stavo pensando la stessa cosa. Ne parleremo con Toby. Mandami un messaggio quando il tuo treno arriva a Londra e farò venire degli agenti a prenderti.”

“Bene,” disse John, annuendo anche se Greg non poteva vederlo. “Okay.”

Ci fu una pausa, poi John credette che Greg stesse per riagganciare. “Stai bene?” chiese invece. “Tutto… bene?”

John chiuse gli occhi e una brusca sterzata del taxi dietro a una curva nascose un suo brivido. “Sto bene.”

“Bene.” Greg fece un’altra pausa.

“Inoltre, ho trovato qualcosa su cui devo metterti al corrente subito.” John abbassò la voce. “Riguarda i computer…”

 

***

 

Dopo tanto tempo trascorso in acqua, i corpi non sembrano più umani.

Greg stava in piedi con gli altri agenti come se si trovasse a un funerale, le mani raccolte davanti a sé e la testa lievemente piegata. Accanto a lui, il detective ispettore capo Toby Gregson stava abbaiando ordini alle povere anime  che dovevano portare i corpi viola e gonfi fuori dall’acqua, ad alta voce come se fosse arrabbiato. Non era davvero arrabbiato, Greg aveva lavorato con il detective ispettore capo abbastanza per sapere che stava mascherando la sua paura con la spavalderia. Questi tre corpi avevano alzato il ritmo. Adesso la polizia si trovava con cinque omicidi inspiegabili, un sesto in programma, e nessun sospettato, con una connessione a un caso con qui la stampa, in passato, li aveva eviscerati.

Il sole candido balenava occasionalmente dalle nuvole nel cielo del mattino, troppo luminoso, come una torcia che colpisce gli occhi. I cordoni della polizia sbatacchiavano incerti al vento, e i teli che coprivano i corpi alla vista dei passanti si increspavano come vele. Vi era una sorta di terribile umiliazione nei corpi trovati all’esterno. Greg le aveva viste tutte; cadaveri ricoperti di fango nei fossati, corpi decomposti nascosti nel legno, e quelli sepolti in bare sottacqua, come quelli che stava vedendo proprio ora nella forma di tre donne in vari stadi di decomposizione, i capelli che iniziavano a cadere e la pelle fradicia che si staccava come pasta sfoglia in eccesso. Era stato un puro caso che il loro luogo finale di sepoltura non fosse stato il fondo del Tamigi, nel fango, tra la spazzatura che non galleggiava.

Sentì la rabbia risalire lungo la gola e la scacciò con difficoltà. Dall’altro lato della strada, vide John fare la sua apparizione al centro della scena, passando sotto a un cordone e guardandosi attorno. Il suo sguardo atterrò su Greg, e si avviò verso di lui, strizzando gli occhi contro il vento. Sembrava più vigoroso del solito.

“Cosa ne deduci?” domandò Greg quietamente quando John fu vicino a lui. Eccetto il detective ispettore capo, avevano tutti preso a parlare a bassa voce.

John fletté le dita e lanciò un’occhiata all’intera scena che si era lasciato alle spalle. Sembrava che stesse facendo dei calcoli a mente. “A giudicare dal loro stato, credo che siano state uccise prima di quelle che abbiamo trovato negli appartamenti.”

Greg annuì. “Sarà fatta loro un’autopsia il prima possibile, ma sì, questo è ciò che mi è stato detto, finora.”

“Quindi ha ucciso queste tre, poi ha deciso di cambiare il suo metodo.”

Greg sbatté le palpebre lentamente. “Giusto,” disse.

“Sherlock ha detto,” John si interruppe bruscamente e strinse le labbra, la fronte aggrottata. “Voglio dire, la prima volta che sono andato a trovarlo, ha detto che il messaggio era la parte importante.”

“Non erano importanti le vittime, ma i loro corpi,” disse Greg, annuendo in fretta.

“Credo che abbia modificato il suo metodo per essere sicuro che le vittime fossero ritrovate.”

Era deplorevole, ma raramente le persone scomparse facevano notizia, e la polizia aveva poche possibilità di ritrovarle quando c’erano crimini più eclatanti da qualche altra parte. L’omicida non aveva motivo di continuare se nessuno gli prestava attenzione. Ai serial killer piaceva fare notizia.

Accanto a lui, John infilò le mani in tasca e guardò in direzione del luogo dove i corpi erano stati caricati. L’acqua doveva aver distrutto la maggior parte delle prove, ma erano stati comunque portati all’obitorio dove qualche sfortunato patologo avrebbe documentato ogni cosa. Con un po’ di fortuna le donne sarebbero state identificate. “Dobbiamo parlare con Gregson a proposito della conferenza stampa,” disse piano, ma fu interrotto dalla suoneria stridula del telefono di Greg.

Greg gli mise mano con sguardo di scusa e rispose. “Ispettore Lestrade.” La sua espressione era fissa e arcigna, ma quando la voce dall’altra parte del telefono parlò i suoi occhi si illuminarono e scandagliarono i paraggi per poi fermarsi su John. Premette una mano sull’altoparlante e disse a John in un frenetico sussurro ‘hanno trovato il virus!’

 

***

 

“Una conferenza stampa.” Toby Gregson si appoggiò al comodo schienale della sua sedia d’ufficio producendo un cigolio, scrutando John. L’espressione di Greg era quella di un castigato, ma di fianco a lui John proseguì imperturbabile.

“Se la tua teoria del killer che segue le date del caso di Holmes è corretta, allora dobbiamo aspettarci un omicidio per domani,” disse, incontrando lo sguardo d’acciaio di Toby, suggerendo che avrebbe retto quell’occhiata finché non avesse ottenuto ciò che voleva. Toby si ricordò di un giovane John Watson al poligono di tiro, il quale faceva fuoco una serie dopo l’altra con spaventosa accuratezza, ed ebbe il presentimento che questa volta avrebbe potuto non spuntarla.

“John,” disse con voce magnanima puntando le dita contro la solida scrivania. “Capisco che questo caso sia importante per te –”

“Credevo fosse importante per tutti,” lo interruppe John e si intravide qualcosa di tagliente nei suoi occhi, diversa dal solito colore grigio-blu.

Toby gli concesse un sorriso da dietro i denti serrati. “Tu non eri… tu non eri con noi,” disse con delicatezza, “l’ultima volta in cui abbiamo dovuto avere a che fare con la stampa. Ci daranno la caccia, correranno dietro a persone innocenti credendo che siano sospettati, pedineranno le famiglie delle vittime…”

“Se sta parlando di Sherlock Holmes, io sono stato lì per tutta la durata del caso, signore,” disse John alzando il mento. “Tranne che nell’ultima parte.”

Toby strinse le labbra e considerò l’uomo che aveva di fronte. Conosceva John, sapeva che era quel genere di persona che segue facilmente l’autorità di qualcun altro senza lamentarsi, ma che talvolta si presenta con un’idea in testa e la porta avanti con una tenacia che qualcuno chiamerebbe volontariamente testarda. E ogni tentativo di persuaderlo a lasciarla perdere lo porterebbero unicamente a voler andare più a fondo.

Girò la sedia per rivolgersi a Greg.

“In casi come questo, dobbiamo tenerli all’oscuro.”

Greg sembrò dubbioso e John si protese in avanti. “Non si tratta di due corpi trovati a miglia di distanza,” puntualizzò, lo sguardo che dardeggiava tra le espressioni silenziose di Toby e Greg. “Si tratta di un assassino che potrebbe aver ucciso cinque persone, e se Sherlock avesse ragione a proposito del virus –”

Fece una pausa e Greg parlò. “La scientifica informatica ha appena trovato un virus che controlla videocamera e microfono in entrambi i computer delle vittime, signore,” disse, con un colpo di tosse, “e Holmes pensa che potrebbe averle scelte in questo modo.”

Toby considerò ciò che gli era stato detto e tornò a girarsi verso John, che stava ancora seduto composto sulla sua sedia. Sembrava molto più difficile da ignorare da quando era tornato dal Berkshire, era quasi tornato ad essere il vecchio se stesso, come se l’incontro con Holmes avesse acceso qualcosa nella sua testa che era rimasta dormiente fino a quel momento. Era stato fragile all’inizio, vicino alla linea di rottura, così tanto che Toby si era sentito in colpa ad approfittarsi di lui. Ora non più.

“Se trova le vittime spiandole, dobbiamo dirlo alla gente,” continuò John. “Capisci, impedire a coloro che corrispondono al suo profilo dall’usare i loro computer, potremmo almeno capirci qualcosa di più.” Fece ricadere lo sguardo sul suo grembo. “So che siete preoccupati per l’intrusione della stampa nell’indagine –”

“Dannatamente preoccupati,” disse Toby.

“Ma credo che, in questo caso, il bene che possiamo fare superi ogni conseguenza negativa.”

Toby strinse gli occhi e trasse un sospiro addolorato. “Ricordo quando facevi tutto il possibile per uscire dal mio ufficio, Watson,” osservò. “Cos’è successo?”

John si strinse nelle spalle. “Non voglio vedere nessun altro venire ucciso.”

Si udì bussare alla porta di vetro e tutti e tre gli uomini si voltarono per vedere Sally Donovan entrare, un luccichio negli occhi. “Abbiamo identificato uno dei corpi trovati nel fiume.”

Le sopracciglia di Toby scattarono in alto. “Sì?”

“Beth Davenport.” Il tono di voce di Sally si abbassò. “La figlia scomparsa del politico.”

“… Oh merda,” disse Toby piano. Dannazione.

“Ma abbiamo un collegamento con gli altri due corpi. La scientifica ha trovato il virus nei loro computer.” Sally guardò le sue carte. “Il patologo ha tirato giù qualche dato su quando l’omicidio è avvenuto, e cadono tutti negli stessi giorni del caso di Holmes.” Alzò lo sguardo. “Credo che si tratti definitivamente di un emulatore.”

“Un emulatore con fin troppe informazioni sul caso di Holmes,” grugnì Toby.

Di fronte a lui, Greg sembrò vendicato ora che la sua teoria si dimostrava corretta. John guardò Toby per caso, le sopracciglia che si univano in un cipiglio. Piccolo bastardo.

“Va bene,” sbuffò Toby. “Okay. Indirò una conferenza stampa per questo pomeriggio.” Agitò le mani. “Lestrade, Donovan, presenzierete con me. Donovan, voglio che inizi a organizzare i nostri dati.”

Sally annuì, la sua figura snella era ancora ferma alla porta. “Vuole parlare della connessione col caso Holmes?”

“Sì,” confermò Toby. “Menzioneremo le parti col corpo come un’ulteriore connessione, poi mi collegherò alle altre due ragazze che abbiamo identificato.”

“Okay,” disse Sally con un cenno. “Ci penso io.”

“Ma, uh… non accenneremo a quali organi sono stati esportati,” aggiunse Toby. “Evitiamo false confessioni.”

Sally parve perplessa. “Chi confesserebbe qualcosa del genere?”

Toby rise. “Saresti sorpresa dal vedere quanti strambi hanno confessato durante casi del genere. E se questo si avvicinerà a quello di Holmes…”

Sia Greg che John rotearono gli occhi al ricordo, e Sally ghignò leggermente. Uscì dalla stanza, la porta di vetro si chiuse dietro di lei.

“Posso venire?” chiese John, dopo una pausa rispettosa. Ovviamente, non voleva tentare oltre la fortuna.

“Puoi prenderti un posto, se vuoi,” gli assicurò Toby, “ma non sarai con noi nel gruppo. Non credo che tu sia pronto per le domande del Mail a proposito della natura della tua relazione con Holmes, ora, no?”

John sorrise forzatamente. “Abbiamo lavorato insieme e poi ha cercato di uccidermi. È abbastanza semplice.”

Toby ridacchiò. “Niente è semplice per i giornali scandalistici quando ha a che fare con la polizia. Sono tutti scandali e cospirazioni e insabbiamenti…” Agitò la mano in aria.

John inspirò profondamente e distolse lo sguardo, sorridendo. “Dio, mi mancava questo lavoro.”

“Già, beh, bentornato a casa. Ora vattene fuori dal mio ufficio, ho un discorso da scrivere.” Toby tossì e si avvicinò la tastiera, poi puntò un dito su Greg. “Lestrade, mettiti un abito che ti faccia sembrare meno avvilito e qualcosa un po’ più adatto alla telecamera. Vogliamo apparire sicuri di noi.”

Greg si tirò distrattamente i polsini mentre lui e John si alzavano per andarsene, Toby stava già digitando inespertamente su Mycrosoft Word.

 

***

 

La conferenza stampa si tenne in un’ampia e tuttavia soffocante stanza alla stazione di polizia. C’erano delle serrande poste alle finestre che bloccavano la brillante luce del pomeriggio e dietro al tavolo a un capo della stanza un poster grande abbastanza per entrare in ogni fotografia, con i ritratti delle tre vittime identificate e un numero da chiamare per avere informazioni. I giornalisti riuniti erano già seduti, leggermente stretti, ma traboccanti di entusiasmo pensando a come poterne trarre un’esclusiva. Le telecamere erano piazzate in fondo alla stanza, le luci dei flash lampeggiarono quando gli agenti entrarono e i giornalisti scattarono attenti per non perdersi nulla, premendo i tasti sui loro registratori e scarabocchiando annotazioni sulla scena.

Toby si sedette nel centro, esibendo i suoi appunti freschi di stampa e appoggiandosi all’indietro con una grazia che smentiva la sua mole. Greg sedette alla sua destra nel suo bel completo grigio e Sally alla sua sinistra, slanciata con la sua liscia pelle scura. Un più discreto John Watson si trovava già seduto assieme ai giornalisti, slacciandosi i primi bottoni della camicia a combattere il caldo artificiale, per niente invadente e inosservato dal lato della stanza dove stava la sicurezza. Guardò gli agenti entrare assieme agli altri, teso. Doveva ammettere che sembravano, come aveva richiesto Toby, avere la situazione sotto controllo.

Toby picchiettò i suoi fogli sul tavolo e il trambusto si placò immediatamente. Si schiarì la voce, facendo scorrere il suo sguardo tagliente sul pubblico prima di iniziare a parlare. “Sono il detective ispettore capo Toby Gregson del Servizio di Polizia Metropolitana,” annunciò, poi guardò i suoi colleghi. “Questi sono il detective ispettore Greg Lestrade e il detective sergente Sally Donovan. Leggerò un discorso preparato e poi i miei colleghi ed io risponderemo alle domande.”

Le macchine fotografiche lampeggiarono, distraendo l’attenzione, ma Toby continuò imperturbato. L’aveva già fatto, prima d’allora.

“Questa mattina presto, i corpi di tre donne sono stati trovati nel fiume Tamigi nella Zona Maggiore di Londra. Abbiamo già identificato una delle vittime come la scomparsa Beth Davenport e stiamo attualmente lavorando per identificare le altre due. Le prove finora raccolte sono più che sufficienti a suggerire che questi fossero omicidi collegati a quelli di Tilda Hills qui a Londra e di Victoria Grey a Guildford.” Si interruppe e alzò lo sguardo dai suoi appunti. “Per questo motivo crediamo che vi sia un serial killer nel cui obiettivo ci sono giovani donne del sud-est dell’Inghilterra.”

Un giovane giornalista si piegò in avanti, la mano alzata come uno scolaretto. “Come si collegano tra loro gli omicidi?”

Toby guardò Greg.

“È un collegamento piuttosto chiaro,” ammise Greg. Sembrava calmo e controllato alla gente comune, ma John conosceva Greg a sufficienza e poté vedere l’apprensione dietro al suo sguardo. “Tutte e cinque le vittime presentano parti del corpo rimosse e presumibilmente conservate dal killer.”

I giornalisti iniziarono a borbottare attorno a John, quello di fianco a lui gli allungò involontariamente una gomitata mentre scribacchiava frettolosamente. Tuti sapevano cosa significasse parti del corpo mancanti.

Greg proseguì, la sua voce divenne più poderosa. “Crediamo che questi omicidi siano compiuti da un emulatore, ispirato dal caso Holmes che si è concluso cinque anni fa. Oltre alle parti del corpo sottratte, Hills e Grey sono state uccise lo stesso giorno in cui Holmes ha ucciso le sue vittime, e sebbene stiamo ancora cercando di ricavare prove dai corpo di Beth Davenport e le altre due donne trovate nel fiume, sappiamo che le date corrispondono approssimativamente.”

Toby aveva una scintilla negli occhi. “Questo ci fornisce una sequenza temporale di quando l’assassino potrebbe colpire di nuovo.”

Con la coda dell’occhio John vide una donna agitare la sua penna in aria. Non si voltò, non voleva che i reporter dietro di lui si focalizzassero troppo sulla sua faccia, ma anche da quella distanza riconobbe immediatamente Kitty Riley, una ora famigerata giornalista che si era fatta notare per essere stata una delle maggiori fonti d’informazione del caso Holmes. Non era mai stato provato che avesse pagato il fotografo, ma era stato il suo giornale a far circolare la foto di John mezzo morto nel letto d’ospedale.

“Holmes non ha ucciso il fagottista il giorno 28?” gridò. “Domani?”

I giornalisti attorno a lei si misero a controllare gli appunti allarmati e l’espressione di Toby s’incupì mentre giungeva alla stessa conclusione di John. “Sì, è possibile che il killer colpisca domani.”

Kitty tornò seduta, facendo i suoi calcoli. Dietro di lei, un altro giornalista parlò. “Come possono proteggersi, le persone?”

Ansiosa di procedere, Sally parlò. “Crediamo che l’assassino trovi  vittime vulnerabili spiandole utilizzando la telecamera e il microfono sui loro portatili. Siamo stati in grado di trovarne traccia sui computer delle vittime.” Controllò i suoi appunti, le labbra arricciate per un momento. “Finora il killer si è focalizzato solo su giovani donne che vivono da sole, ma potrebbe decidere di estendere le sue opzioni se gli venisse negata la possibilità di trovare il suo obiettivo preferito. Per questa ragione, consigliamo a tutti coloro che vivono soli di non usare internet a casa, se possibile, e utilizzare invece biblioteche o internet caffè, o magari trasferirsi temporaneamente dalla famiglia.” Alzò di nuovo lo sguardo, indicando i poster. “Fate attenzione ad ogni funzionamento sospetto del vostro computer e per favore chiamateci se pensate che abbia un virus. Colpisce microfoni e telecamere.”

Kitty Riley intervenne nuovamente. “Perché la polizia sta consultando Sherlock Holmes, un omicida condannato, per questo caso?”

Lo stomaco di John si strinse in una morsa e i suoi occhi si mossero velocemente a incontrare quelli di Greg. Di fianco, Toby si protese sui gomiti, sorridendo. “Non sono sicuro di come si sia fatta questa idea,” disse quasi in un ringhio. “La polizia non sta consultando Sherlock Holmes, né ci consulteremo mai con un criminale per aiutare le indagini, specialmente non con uno che ha già ingannato la polizia per il suo divertimento. Non provochi il panico.”

“Allora perché John Watson, un agente di polizia che lavorava al caso Holmes –”

“Ex agente di polizia,” la interruppe Toby.

Kitty continuò semplicemente. “Perché è stato all’ospedale psichiatrico, dove Holmes è rinchiuso, due volte questa settimana?”

“Dove ha ottenuto queste informazioni?” domandò Toby mentre i giornalisti iniziavano a confabulare gli uni con gli altri. “Watson non è più un agente di polizia. Quello che fa nel suo tempo libero non ha rilevanza per quest’indagine.”

“Si trova qui a questa conferenza stampa,” sottolineò Kitty, gesticolando in direzione di John. “Strano per qualcuno che ‘non ha rilevanza’ per la polizia, non crede?”

Toby si incollerì, come un cane arrabbiato, e Kitty cercava a malapena di nascondere il suo ghigno.

“Ed è stato fotografato mentre entrava ed usciva dalla stazione proprio questa mattina,” continuò, le sopracciglia sollevate. “Delle persone mi hanno anche riferito che si trovava sulla scena quando Beth Davenport è stata trovata. Cosa sta nascondendo questa volta, Ispettore Capo?”

“Non inizi ad architettare uno scandalo anche su questa indagine –” scattò Toby, ma la sua voce veniva coperta dai giornalisti che stavano adesso inondando John di domande. John si alzò in piedi quando i registratori gli furono spinti contro il viso e provò ad allontanarsi quando le domande iniziarono.

“Fa spesso visita a Sherlock Holmes?” sbraitò uno, la sua mano svolazzava troppo vicino per metterlo a suo agio.

“Questa del virus è una delle sue teorie?”

John sollevò le mani, scuotendo la testa, e udì il grattare della sedia di Toby sopra al frastuono.

“Portatelo fuori di qui!” ruggì Toby alle guardie di sicurezza, gesticolando animatamente in aria. “E voi tutti! Seduti!”

Delle mani calarono sulle spalle di John e le guardie con le loro facce impassibili gli fecero per metà da scudo. Una voce gridò da sopra le sue spalle, facendolo sussultare.

“Vista la sua storia di inganno da parte di Holmes, come può essere certo che gli stia dicendo la verità, questa volta?”

“Cosa succederebbe se Holmes la stesse portando sulla pista sbagliata per aiutare l’emulatore?”

“Coraggio, signore,” disse una delle guardie con un tono di voce più basso, nel tentativo di aiutarlo. “Da questa parte.”

John fece del suo meglio per non reagire e rimanere senza espressione mentre le macchine fotografiche mandavano lampi sul suo viso. Domani, tutto questo sarebbe stato sui giornali, non c’era dubbio a riguardo. Toby aveva ragione, John si era perso il peggio della frenesia dei media durante il caso Holmes. Sembrava che adesso si stesse finalmente prendendo la parte che gli spettava.

 

***

 

Tutto era silenzioso quando John tornò a casa. Si sentiva ancora leggermente sotto shock ripensando alle voci rumorose che improvvisamente l’avevano circondato e fu grato di aver avuto almeno l’autocontrollo sufficiente a tenere la bocca chiusa di fronte alle domande. L’appartamento era gelato, quindi tenne il capotto, calciando via le scarpe sull’entrata e camminando lentamente in cucina per farsi una tazza di tè. Afferrò le cartoline di compleanno e le fece scivolare giù dalla mensola nel corridoio mentre passava, osservandole con un sospiro nostalgico. Il suo compleanno era stato solo due giorni prima, ma sembrava che fosse passata una vita intera.

Era stato noioso al pub, comunque. A John non piaceva invecchiare. Aveva quarant’anni e cosa ne aveva fatto della sua vita? Una carriera fallita, niente moglie, né figli, e l’unica persona che si ricordava costantemente del suo compleanno da quando aveva lasciato le forze armate era un serial killer che voleva mangiarsi il suo cuore.

In cucina, John guardò il bollitore e chiuse gli occhi. Anni prima, la sua vita era stata meno complicata. Ricordava la maggior parte del tempo con Sherlock Holmes, era difficile dimenticare quell’uomo. Ma ricordava il loro primo incontro con particolare e sorprendente nitidezza.

Era una sera fredda e umida con quella sorta di pioggerella che sembra nebbia, ma finisce comunque per infradiciarti. Greg gli aveva scritto per chiedergli un favore. John era stato promosso ispettore molto di recente e anche se ora lui e Greg erano dello stesso grado, sentiva ancora l’impellenza di obbedirgli. Avrebbe aiutato Greg in ogni caso, pensava, e con quella rassicurazione che gli ronzava in testa era salito in macchina e aveva guidato fino alla scena. Sapeva già qualcosa; un uomo ucciso nel suo appartamento, nella sua camera da letto chiusa a chiave, la chiave ancora all’interno non girata quando la polizia era stata chiamata. Greg otteneva sempre i casi strani.

Il detective poliziotto Donovan si trovava fuori dall’appartamento, aspettandolo sotto al balcone dov’era più asciutto, ma i suoi capelli erano comunque gonfiati dall’umidità. Aveva in mano una tazza di caffè in via di raffreddamento e un’espressione imbronciata sul volto. Sally non sorrideva mai molto, ma raramente sembrava così stizzita.

John chiuse la macchina e le andò incontro. “Hey,” disse lui e azzardò un sorriso che non fu ricambiato.

“Stai andando a vedere la scena?” chiese Sally, prendendo un sorso di caffè e sogghignando. “Guarderei da fuori se fossi in te.”

John annuì vagamente. “È uno di quelli sgradevoli?”

“Ricordi quello psichiatra del detective ispettore Lestrade di cui ti parlavo?” Sally roteò gli occhi. “È qui per aiutare gratis, per mostrare quello che sa fare.”

Non sembrava troppo felice dell’aiuto extra, il che sembrava sbagliato. John le si avvicinò per evitare la pioggia e si corrucciò. “È una buona cosa, no?”

Sally non trattenne una risata e un sorriso stanco fece una fugace apparizione. Si fece da parte e aprì la porta di fronte a lui, invitandolo ad entrare con un braccio come un maggiordomo. “Avanti,” disse misteriosamente. “Vedrai di cosa parlo.”

John si precipitò all’interno sorpassando gli agenti di polizia che stavano girovagando in fondo alle scale piuttosto che andare a dare un’occhiata alla scena, il che era strano. Salì le scale passando di fianco a un agente della scientifica visibilmente annoiato che gli indicò la camera da letto principale. La maniglia era rigida sotto alla sua presa e si abbassò con un cigolio.

Sentì le voci provenire dalla stanza ancora prima di aprire completamente la porta, l’urlo pieno di panico di Greg.

“Che stai… non puoi andare lì!”

John entrò, chiudendo bene la porta dietro di sé. L’istinto di poliziotto si manifestò e i suoi occhi indagarono velocemente la stanza, soffermandosi sul mobilio costoso e le scarse decorazioni, e il corpo allargato di un uomo grosso, il sangue raggrumato a formare un’aureola attorno alla sua testa, fuoriuscito da un buco su un lato del collo. Ai lati della scena, Greg stava guardando fuori da una finestra aperta, le dita serrate attorno all’intelaiatura. John tossì educatamente e Greg si voltò.

“Oh, John!” disse, sembrando un po’ sorpreso.

“Ho ricevuto il tuo messaggio…” spiegò John, ma si sentì leggermente fuori posto. Abbassò le sopracciglia. “Cosa stai facendo?”

Greg aprì la bocca per dare spiegazioni, ma fu interrotto da un grido d’eccitazione fuori dalla finestra. “È così che l’assassino è entrato.”

Si udì un frastuono provenire dall’esterno e un John confuso sì unì a Greg per vedere un alto uomo dai capelli scuri arrampicarsi come una scimmia agli stucchi e alla pietra, fermandosi ogni tanto per osservare il muro con una lente d’ingrandimento. Sprizzava energia e aveva una sorta di sorriso gioioso sul volto che sembrava del tutto incongruo con la sanguinosa scena del crimine dietro di lui.  I suoi occhi erano pallidi e concentrati e i suoi movimenti aveva una grazia casuale che fece sentire John impacciato solo a guardarlo.

Se avesse perso la presa a quell’altezza, si sarebbe rotto qualcosa nella caduta.

Greg sembrava preoccupato tanto quanto John, ma l’uomo riuscì a concludere la scalata senza scivolare. Si appollaiò sul davanzale, il retro del suo lungo cappotto sventolava nella brezza, e indicò una macchia nera sull’angolo della pittura bianca. “Segno di sfregamento di una scarpa,” disse serenamente, le sue guance arrossate risaltavano sulla pelle pallida. “Su per gli stucchi decorativi. Immagino una donna, a giudicare dalla distanza tra loro e dalla loro capacità di reggere il peso di un corpo. Spostatevi.” Agitò la mano verso di loro.

John e Greg fecero un passo indietro ubbidienti senza pensarci e l’uomo scivolò all’interno della stanza dietro di loro.

“Una donna atletica, certamente,” continuò l’uomo, togliendosi i guanti e sondando la stanza. “Abituata a trovare metodi inusuali per entrare negli edifici. Il fatto che l’abbia ucciso col tagliacarte e non abbia portato con sé un’arma mi dice che non era venuta per ucciderlo. Forse si è trattato di una ladra sfortunata, che ha deciso saggiamente di non prendere nient’altro che il contante una volta che aveva reso questa stanza una scena del crimine. Difficile da rintracciare, quindi. Sfortuna, Lestrade. Sei sulle tracce di qualcuno di intelligente.” Sorrise. “È un bene che tu abbia me.”

Greg sollevò le sopracciglia per un istante, ma poi incrociò le braccia e piegò la testa verso l’uomo, disposto ad ascoltare. “Bene,” disse. “Che cosa sto cercando?”

I lineamenti raffinati dell’uomo sembrarono affilarsi. “Stai cercando una donna alta circa un metro e mezzo, possibilmente con un passato da ginnasta. È una scalata pericolosa per chiunque, specialmente di notte e da soli. Non era la sua prima rapina e credo che corrisponda a una grande quantità di effrazioni commesse negli ultimi cinque anni. Se potessi dare un’occhiata ai tuoi casi di rapina irrisolti potrei trovare quelli commessi in circostanze simili e procurarti più prove con le quali catturarla.”

Trasformò l’ultima frase in domanda, l’arroganza scivolò via dal suo volto, come se non ci fosse mai stata. Greg rimase in silenzio. Di certo non avrebbe voluto dare l’accesso ai rapporti confidenziali della polizia a un civile.

John interruppe il silenzio. “Ha capito tutto questo da una traccia di scarpa?” chiese incredulo.

La mano dell’uomo si mosse velocemente nella sua direzione, gli occhi stretti, e se prima John si era sentito invisibile, ora era del tutto presente poiché era diventato il centro di quello sguardo simile a un laser. “Che cosa?” domandò l’uomo, a voce bassa.

“È solo…” John agitò la mano mentre tentava di tradurre i suoi pensieri in parola e avere quegli occhi che seguivano ogni suo movimento era alquanto scoraggiante. “È fantastico! Non ho mai…. Lei deve trovarsi su questa scena da almeno mezzora!”

Gli occhi dell’uomo si spalancarono leggermente, ma soppresse velocemente lo shock. “Dieci minuti sarebbero stati più che sufficienti,” disse freddo, ma sembrava compiaciuto. “La prova era proprio qui nella stanza.”

Si raddrizzò rendendosi più alto, il cappotto danzò attorno alle sue caviglie mentre indicava il pover’uomo sul pavimento. Quando Greg guardò, dubbioso, l’uomo alto si pavoneggiò di fronte ai complimenti di John. John si sentì un po’ dispiaciuto per lui. Sembrava un tantino eccentrico; forse non aveva avuto nessuno a lodarlo durante la sua infanzia.

“Lestrade,” disse improvvisamente l’uomo. “Ho bisogno di informazioni riguardo agli altri furti. È essenziale. Sai già tutto su di me e hai le mie referenze. Sono affidabile.

Greg roteò gli occhi e sospirò, sconfitto. “Oh, okay, bene.

Gli occhi dell’uomo brillarono di piacere. “Questo sergente può portarmi alla stazione di polizia,” disse, indicando direttamente John.

Fu il turno di John di sorridere. “Sono un ispettore, in realtà.”

“Mh.” Lo sguardo dell’uomo scorse di nuovo su di lui, ricalcolando le variabili. “Certo. Promosso molto di recente.” E uscì a grandi passi dalla stanza con il cappotto che svolazzava drammaticamente dietro di lui.

John guardò Greg e udì il trambusto distante dell’uomo che scendeva velocemente le scale superando i poliziotti. “Hai intenzione di dirmi chi era?” chiese con delicatezza.

“Dottor Sherlock Holmes,” disse Greg. Si strinse nelle spalle, a disagio. “È uno psichiatra.”

“Giusto,” disse John.

“Non devi accompagnarlo alla stazione se non vuoi,” disse Greg. “È solo che gli piace impartire ordini alle persone. È uno stronzetto arrogante. Cerco di non fargli calcare troppo la mano con me.”

“No, lo riporterò  indietro io.” John si sorprese desideroso di saperne di più. “Stavo comunque andando alla stazione quando mi hai scritto.”

Greg annuì riconoscente. “Ci vediamo presto.”

Fuori, la pioggia era cessata. John si strinse un po’ di più nel cappotto e uscì al freddo, gettando occhiate alle strade alla ricerca di Sherlock. Individuò l’alta figura che aspettava alla sua macchina, guardando semplicemente John senza espressione. Non si mosse né lo salutò, ma non guardò nemmeno da un’altra parte.

“Ben fatto,” disse John con un sorriso, mentre passava di fianco alle altre macchine parcheggiate fin dove Sherlock aveva infallibilmente identificato l’auto di John. Tirò fuori le chiavi, rigirandosele nervosamente tra le mani mentre Sherlock lo osservava senza battere ciglio. “Come l’ha capito?”

Sherlock non rispose per un lungo momento, poi si voltò verso la macchina. “Sei venuto per conto tuo, se ciò che ha detto Greg è vero, quindi non avresti usato un’auto della polizia. Questo, e se si confrontano la tua altezza e la lunghezza delle gambe con il modo in cui il sedile del guidatore è regolato, credo che la risposta sia alquanto ovvia, no?”

Lo disse con nonchalance. John poté solo sorridere. “Dottor Holmes, giusto?” chiese, stendendo la mano. Sherlock lo fissò per una frazione di secondo come se John gli stesse porgendo qualche sorta di esplosivo, ma alla fine gli strinse la mano con una salda, fredda presa.

“Sherlock,” propose invece, con un debole sorriso di risposta. “Per favore.”

Sherlock gli trattenne la mano un po’ troppo per essere educato.

“Qual è il tuo nome?” chiese Sherlock, e c’era qualcosa nel modo in cui lo disse che suonava sbagliato in una maniera che John non riuscì a identificare, come una macchina che raccogliesse informazioni per un usarle in seguito.

“John,” disse educatamente. “John Watson.”

“Mh…” mormorò Sherlock, le sue palpebre si abbassarono come l’obiettivo di una macchina fotografica.

John aprì la macchina ed entrambi salirono via dal freddo. Sherlock si lasciò cadere sul sedile di fianco e iniziò immediatamente a sbirciare in giro, controllando la tappezzeria, aprendo persino il cruscotto per setacciare i bolli scaduti di John, il suo London A to Z, e una confezione mezza mangiata di caramelle. Appena John ingranò la marcia e si introdusse nella strada, Sherlock si mise a proprio agio e si infilò in bocca un lecca-lecca al limone, richiudendo pigramente lo scomparto con il piede.

“Cosa ti ha fatto dire che sono stato promosso di recente?” chiese John.

“Il modo in cui ti sei comportato con Lestrade,” disse Sherlock da dietro il lecca-lecca. “Inconsciamente, pensi ancora che ti sia superiore. Influenza il tuo comportamento; ti chiede un favore e tu rispondi come se fosse un ordine.” Lanciò a John un’occhiata sprezzante, e John si accigliò.

“Non lo faccio apposta.”

“Ovviamente no,” dichiarò Sherlock. “È ciò che significa inconsciamente. Posso anche dirti che sei un secondogenito.”

“Come?” chiese John, incredulo.

“Per lo stesso motivo,” disse Sherlock con un ghigno. “E lei vuole che tu ti tenga in contatto più di quanto fai. Acconsenti a malincuore, ma ti poni dei limiti nel contattare i tuoi genitori.” Guardò nuovamente John, gli occhi semi chiusi. “Mi domando perché…”

“Come diavolo lo sai?” domandò John.”

“Foto,” disse Sherlock, indicando la piccola fotografia ritagliata di John e Harry dietro al volante. “Te l’ha mandato tua sorella, ha premuto abbastanza forte quando ha scritto sul retro. Era ovviamente un ritratto di famiglia,  ma l’hai strappato. Quanti anni hai in quella foto?”

John ammiccò velocemente. “Diciotto,” rispose, inumidendosi le labbra. “È stata fatta prima che partissi per l’università. Come sai che l’ho strappata? Potrebbe averlo fatto lei.”

“Quello che ha scritto prosegue sulla parte strappata,” disse Sherlock, facendo ciondolare la testa da un lato per guardare fuori dal finestrino. “Davvero ovvio.”

John gli lanciò una breve occhiata e notò la finta indifferenza alla reazione di John. “È fantastico, come fai a mettere insieme tutto questo?”

“Osservo,” disse Sherlock, stringendosi nelle spalle. “Non è un superpotere.” Ma di nuovo, stava allungando la schiena in orgoglio sorpreso, gli angoli delle labbra tirati in un sorriso. John sorrise con lui.

Andarono alla stazione di polizia insieme, Sherlock scansionava il luogo come se gli appartenesse. Ma fu assolutamente gentile con tutti i membri del personale notturno, forse consapevole che avrebbero potuto sbatterlo fuori se avesse infastidito qualcuno, e sfoderava il proprio fascino ogni volta che qualcuno gli faceva domande a proposito della loro attività.

John lo fece sedere a un computer e gli portò una tazza di tè con molto zucchero. Sherlock lo sorseggiò distrattamente, già focalizzato sui rapporti delle rapine. John sedette accanto a lui, guardandolo scrutare lo schermo e borbottare sottovoce.

“Non hai cose più importanti da fare che guardare me?” chiese Sherlock, senza staccare gli occhi dallo schermo.

“In realtà no,” ammise John, alzandosi per metà dalla sua sedia. “Vuoi che ti lasci da solo?”

“No,” disse Sherlock velocemente, premendo la mano sull’avambraccio di John. “Rimani. Mi aiuti a pensare.”

Raccolse abbastanza prove da fare arrestare la giovane ginnasta dal passato colorito in meno di un’ora. Greg e gli altri agenti che stavano lavorando al caso rimasero senza parole quando Sherlock espose la sua presentazione. La stazione di polizia si mise in azione, e Sherlock si sedette comodo abbastanza compiaciuto quando il tumulto si raccolse attorno a lui.

“Beh, ora sapete ciò che sono in grado fare,” disse con un sorriso. “Spero di poter essere d’aiuto. Vi chiederei di considerare di consultarmi sui vostri casi più interessanti.”

Porse un biglietto da visita con il suo numero e indirizzo, e Greg si allungò automaticamente per prenderlo, invece Sherlock lo diede a John. Le sue dita sottili accarezzarono il polso di John.

“Arrivederci,” disse, girò sui talloni e uscì dalla stanza.

John si massaggiò il polso con un pollice, fissando la stampa precisa sul biglietto color avorio.

“Io lo scaricherei,” disse Sally, le braccia conserte in posizione di difesa.

“Beh…” Greg era leggermente più indeciso. “Potrebbe tornarci utile e non ci richiede nessun compenso. Potremmo dargli i vecchi casi irrisolti, persone scomparse, sai.”

John finì per fissare il biglietto da visita alla bacheca perché chiunque potesse usarlo. Nei mesi successivi, si ritrovò ad affidare i suoi casi più difficili a Sherlock solo per poterne parlare, e sapeva di non essere l’unico agente a farlo. Alla fine, Sherlock divenne una presenza abituale a Scotland Yard e non era raro vederlo ciondolare davanti a una scrivania a chiacchierare con un sergente, o scandagliare i rapporti al laboratorio informatico, o parlare con gli agenti quando si trovavano in un vicolo cieco.

“Di cosa si tratta, ora?” chiese Sherlock, temporeggiando sulla porta dell’ufficio di John.

“È un nuovo caso a cui sono stato assegnato,” spiegò John, sfogliando il documento. “Ricordi quello strozzino di cui continuavamo a ricevere denunce di aggressione da parte dei suoi clienti?”

“Sì,” disse Sherlock in tono piatto. “E non c’era una vera e propria prova per una condanna.”

“Il suo corpo è stato trovato sepolto in una discarica.” John aggrottò le sopracciglia e strizzò gli occhi verso il rapporto. “Sembra che sia stato soffocato. Il killer gli ha spinto spazzatura giù per la gola finché non è più riuscito a respirare.”

“Un uomo come quello potrebbe avere un sacco di nemici,” disse Sherlock, guardando altrove.

“Non è questa la parte strana,” disse John. “Il fegato è stato estratto dopo la morte e i patologi dicono che si tratta di un lavoro perfetto. Potrebbe essere stato compiuto solo da qualcuno che sappia davvero come si dissezionano i corpi. E questo,” annunciò John, raggiungendo l’armadietto con i fascicoli ed estraendone un’altra cartellina, “combacia con l’omicidio del proprietario del ristorante, quello che abusava dei dipendenti. Rimozione esperta del rene.”

Gli occhi di Sherlock sembrarono brillare nella luce fioca dell’ufficio di John. “Interessante,” mormorò, avvicinandosi per esaminare da sé i documenti. “Davvero molto interessante…”

  
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