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Autore: CaskaLangley    20/08/2007    16 recensioni
"E’ vero, io vi ho scelti in due, ma vi ho scelti fra milioni di milioni in ogni mondo. E questo deve pur valere qualcosa." [RikuSoraKairi]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kairi, Riku, Sora
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Kingdom Hearts, Kingdom Hearts II
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Attenzione: la storia che state per leggere parla in termini chiari di una relazione amorosa e sessuale fra tre persone. Se la cosa vi crea dei problemi…è un problema vostro, appunto XD
Il rischio di soffocare nelle smelensate è altissimo, attenzione ;_;!
Inoltre è stata meno riletta persino delle altre, quindi ignorate felicemente i molteplici errori, la correggerò poi XD

HONEY
# 8, Mimosa - Libertà

Il candore dei sentimenti non dovrebbe pagare tributi.
- The Powerbook, Jeanette Winterson-

Era cominciato con una promessa: “Dovunque andrà uno, gli altri lo seguiranno.”

Eravamo in giugno.
Il sole batteva costantemente attraverso le vetrate colorate, e i corridoi bianchi e luminosi ne assumevano i riflessi che rimbalzavano contro i muri e i pavimenti come frammenti di un caleidoscopio.
Avevamo sempre in bocca il sapore delle fragole. Quell’anno la natura era stata generosa; i suoi frutti erano grossi, la polpa cedeva con facilità ai denti ed il succo colava come se non avesse fatto altro che attenderli, mentre i tulipani sembravano così duri, dritti sui loro steli. Ce ne erano di colori che non avevo mai immaginato. Le stagioni, come i doni che portano con sé, sono strane in questo mondo.
Mi stavo annoiando a morte. Era una giornata uggiosa, con tanto di uccellini che cantavano sul davanzale, prima che il precettore decidesse che erano un fastidio e andasse a chiudere la finestra. Il canto tacque per un attimo, poi si allontanò, ma non cessò. L’estate era già florida fuori da palazzo. Guardavo oltre i vetri come in una sfera di cristallo pregando che quello che ci vedevo fosse vero.
Finalmente fui libero e venni a cercarvi, sapevo sempre dove trovarvi.
Entrai nella stanza reale e voi non mi sentiste. Il Keyblade non faceva rumore, né la porta chiudendosi ne fece più dei vostri sospiri.
Stavate facendo l’amore.
La tua schiena flessuosa come una trota nel letto del fiume, imperlata di sudore nel movimento e nell’afa, guidava lo sguardo ai glutei marmorei, incastrati tra i suoi fianchi. Il tempo è stato indeciso con Kairi, ha conservato il suo corpo agile e slanciato come un giunco, ma ha i fianchi di una donna, adesso, sui cui le gonne drappeggiano in quel modo un po’ ipnotico che di sicuro ti ricordi.
Mi appoggiai contro la porta e rimasi a guardarvi.
Se qualcuno mi avesse chiesto come potessi non provare gelosia, avrei risposto che l’unico sentimento negativo possa evocarmi la vostra immagine è il dolore per la sua assenza.
Kairi si accorse di me e mi sorrise da sopra le tue spalle. Mi avvicinai e cominciai a spogliarmi.
“Com’è andata?” mi chiedesti.
“Ho sognato per tutto il tempo di fare l’amore con voi in un campo di fiori circondato da un orto e c’era anche un fiume, ma non si vedeva, si sentiva e basta, però ogni tanto si vedevano le carpe saltare sullo sfondo e non so se fosse perché in realtà il fiume era vicino o per coreografia, a non voglio saperlo, era bello così perché sembrava che il fiume fosse tutto intorno.”
“E che tempo c’era?” domandò Kairi allungando le braccia per accogliermi mentre mi univo a voi, finalmente nudo, libero, e risposi sorridendo contro il suo collo “C’è sempre il sole, lo sai.”
E tu domandasti “…carpe?”
Io risi di gusto, e ti baciai.


Non c’è niente di più definitivo dell’amore, e niente è più mutevole e incostante.
Una volta stavo aiutando un bracciante a rivoltare la terra di un campo e gli chiesi perché lo facesse. Mi rispose che il terreno che aveva dato i suoi frutti andava lasciato a maggese, affinché potesse riposarsi per un anno e tornare a darne di altrettanto buoni quello successivo.
Tu vuoi che anche l’amore sia così: un tempo infecondo prima e dopo l’abbondanza.
Quell’anno ci eravamo abbuffati e avrei dovuto sapere che sarebbe stato saggio tenerne un po’ da parte per i tempi più duri, ma è forse colpa mia se l’amore ha un sapore così dolce?
In lei bevevo l’acqua fresca ed in te coglievo i frutti della terra. La leccavamo insieme e altrettanto spesso voi leccavate me, tu facevi il ritroso ma alla fine cedevi, e ti facevi leccare anche tu.
Non esiste volgarità nel sesso, non sono le parole cazzo o figa ad essere volgari, non è dicendo che quando mi spingevi le dita nel culo tubavo come una colomba che divento volgare.
La volgarità è assistere matrimoni già morti come se ancora potessero essere salvati, toccare i loro corpi freddi e decomposti e continuare a trascinarli avanti sistemandoli in posizioni plausibili affinché ancora qualcuno ne possa essere ingannato. La volgarità è il pudore, l’ipocrisia, la guerra, non il piacere, non l’amore.
L’amore è bellezza.
Eravamo belli quando scopavamo per ore dimenticandoci di una corte che là fuori diceva di avere bisogno di noi, quando facevamo cigolare le molle di un letto che sarebbe dovuto essere mio e di Kairi e che invece avevamo ribattezzato nostro, quando ci cavalcavamo impenitenti e felici come puledri in un prato e l’eco della nostra passione poteva far vibrare le mura fredde di questo immenso palazzo bianco.
Adesso questo posto è fermo, e tetro.
Le fragole non sono cresciute quest’anno, il terreno che doveva sostituire quello fruttuoso ci ha traditi e siamo costretti a frutta cresciuta in chissà quale modo, ma che dal sapore sintetico non può aver visto sinceramente un albero oppure il cielo nella sua triste vita.
Ci nutriamo di compromessi, proprio noi che eravamo così sani e così belli.

Una volta mi hai detto che questa storia ci avrebbe distrutti, e io non ti ho voluto credere.

Ci piace recitare un ruolo, ma sappiamo chi siamo.
-Jeanette Winterson, Il mondo e altri luoghi-

Quando ho salutato Kairi era inverno.
Aveva appena nevicato, non molto e non molto a lungo, e la neve non era compatta al suolo. Sembrava di camminare nel cotone sporco. Donald e Goofy mi guardavano dalla soglia del portone e dai loro modi capii che se fossimo stati tutti quanti più giovani non avrebbero esitato ad unirsi a me lasciando solo un biglietto. E’ stato allora, credo, che ho compreso la reale profondità della spaccature nel tempo.
Dissi a Kairi di fermarsi per non sporcare la vestaglia nel fango ma lei non mi diede retta. Ha smesso di darci retta da parecchio tempo, credi che lo faccia per punirci di qualcosa?
Non ci dà retta per le cose stupide, non per quelle importati. Sapeva che non avrei potuto portarla con me. Kairi è una regina migliore di quanto io non sarò mai re.
Mise l’Oathkeeper nella mia mano e la richiuse. Mi chiese: “Tutto questo finirà mai?”
Guardai la sua pancia dove stava crescendo la nostra bambina e all’improvviso non mi sentii degno di toccarla. La abbracciai e le dissi che non lo sapevo, perché non avevo il coraggio di dirle di no.


L’ultima volta in cui ricordo di averti potuto amare senza il brusio incessante delle voci di palazzo era settembre. Eravamo ad una riunione informale con alti capi degli altri mondi, e tu seduto su una poltrona lontano da me stavi mangiando ciliegie. Le tenevi ferme tra i denti, e quando tiravi il picciolo staccandosi il suo toc mi stringeva lo stomaco come se stessi mangiando me.
Non ricordo di che cosa stavamo parlando, non ricordo mai niente di queste cose. Quella al castello Disney è una monarchia del cuore che non chiede al suo re nient’altro che buona fede, e non avevo idea di quanto fosse difficile mantenerla. Mi scusai con tutti. Dissi che mi dovevo consultare con te su una cosa. Prendesti un ultima ciliegia e con quella in bocca uscisti. Soli, strappai il picciolo e lo misi in tasca.
Fottesti il tuo re così forte che per il resto della riunione non si sedette più.


Le voci cominciarono subito dopo.
Kairi era infedele. Kairi tradiva.
Ricordavano di soppiatto, quasi ne provassero nostalgia i tempi in cui simili peccati venivano espiati dalle fiamme. Quando la guardavano, era cenere quello che vedevano.


Siamo stati noi?
Quelle ciliegie, le tue labbra, i miei occhi che ti cercavano come se in quella stanza ci fossi stato solo tu?
La brama di saltarci addosso che trapelava dal nervosismo con cui i miei spiedi scalciavano sul pavimento così lucido da stridere? I tuoi capelli sembravano fatti apposta per appiccicarsi al sudore delle mie spalle. Il tuo cuore chiamava il mio. Il mio sangue affluiva al tuo cazzo come il tuo induriva il mio. I pori della nostra pelle dilatati nel desiderio.
E’ la vita nei nostri corpi che ci ha traditi?
Avevamo vent’anni e non potevamo essere ingordi perché dovevamo essere come loro, impettiti nei panciotti, orologio da taschino, mano al portafoglio, accento moderato, tazza di te, il bene dei mondi in bocca e il culo stretto. Ci volevano morti, mummificati, ma noi eravamo vivi, ed era la nostra vita che li offendeva.
Siamo stati condannati dalla nostra giovinezza?
Oppure dalla loro, rancorosa, avvelenata dal candore di un mondo che regala tanto e rivuole troppo indietro?


Non ci volle molto perché anche il mio nome perdesse il beneficio dell’immunità.
Naturalmente, la colpa era tua.
Kairi era una principessa di cuori, io il giovane prescelto del Keyblade a cui Re Mickey aveva affidato il suo regno come per legittima successione. Non è nemmeno la verità. Per come la vedeva lui, il suo castello era tuo di diritto, ma la parola di un sovrano in punto di morte è la parola di qualsiasi altro uomo in punto di morte.
Noi eravamo tutto quello in cui quel paese credeva. Alle bambine raccontavano la nostra storia, pettinando loro i capelli, narrando le avventure di tappeti volanti e Bau Bau malvagi a bambini che già a quattro anni sognano più di ogni altra cosa di portare il Keyblade e condannare le loro donne ad una massacrante attesa che le loro madri avranno loro insegnato ad ammantare di insipida dolcezza.
La tua era un’altra storia. Non era niente che per loro fosse sacro.
Tu eri qualcosa che potevano distruggere.
Tu potevi essere il colpevole.


Ci siamo sposati una notte di giugno, sotto il cielo di casa nostra e nell’abbraccio del mare che ci aveva cullati.
Non sto parlando della scena a cui hanno assistito le persone a palazzo, di cui salvo per amore una splendida Kairi avvolta in un abito bianco che le donava, ma non faceva in effetti onore alla sua onestà. Di quel momento ricordo poche altre cose oltre alla sensazione di stare prendendo in giro amici cari, coi quali avremmo voluto condividere una gioia sincera e a cui abbiamo invece propinato una mezza dissapita verità.
Ricordo che Goofy si stupì quando gli chiesi di essere il mio testimone.
Ricordo il tuo volto fiero in fondo alla navata in cui leggevo un amore tradito che mi spezzava il cuore.
Non voglio parlare di questo, è di noi tre che voglio parlare.
Di quando ci hai detto “questa è la vostra luna di miele, ragazzi, non deve comprendere me” e Kairi ha deciso che avevi ragione, ma si poteva porre facilmente rimedio.
Il viaggio fu lungo e quando arrivammo era quasi l’alba.
Il bouquet di Kairi furono la foglia malconcia di una palma che l’aveva lasciata cadere e i fiori che crescevano intorno alla cascata, dove la terra era più fresca, ne mise uno in testa e diventò il suo velo. Delle conchiglie si sono improvvisate ad anelli e pur non potendoli infilare al dito e ce li siamo scambiati davanti a un paguro perplesso che ci ha fatto da testimone. I pesci sono buoni invitati, silenziosi, non bisbigliano e non applaudono; quando Kairi ha lanciato in acqua il bouquet sono scappati anziché buttarcisi contro.
Saremmo stati retrò ed avremmo diviso del Paopu, ma l’albero era già stato razziato; era il principio dell’estate, ed è un momento in cui sono molti gli adolescenti convinti di voler amare per sempre.
Camminammo mano nella mano fin dall’alba, io in mezzo a voi come vostro figlio, visitando i luoghi della nostra infanzia come bare scoperchiate con morti dentro ai quali dare l’estremo saluto.
C’era un pescatore e il suo riflesso nell’acqua azzurrissima del mattino sembrava lo specchio del tempo.
Mi appoggiai alla tua spalla ed un’anziana signora con una rete di pesci vivi in spalla ci guardò, evidentemente disgustata dall’amore. M’intristii per lei e sperai che avesse solo dimenticato com’era.
Era ancora lì quando risalimmo sulla Gummiship. Tu mi fermasti sulle scale e mi baciasti. La vecchia se ne andò di gran fretta borbottando.
Kairi rise: “Quello che il Signore ha unito, l’uomo non può separare.”
“Rimaniamo” dicesti “Abbiamo ancora tempo.”
Non ne avevamo veramente, non più, ma fu per questo motivo che restammo.


Le voci divennero sempre più insistenti e cominciarono a scavalcare anche il limite prima invalicabile del nostro potere. Alcune dicevano che con il tuo potere oscuro tenevi i sovrani nel palmo della tua mano, altre che non eri niente di più della nostra puttana. Secondo alcuni non avevi potere, secondo altri ne avevi troppo. I tuoi soldati avevano smesso di rispettarti come da tempo la corte aveva smesso di rispettare Kairi. Si diceva che il tuo vero dovere a palazzo fosse tenerle compagnia tra le lenzuola mentre io ero indaffarato. Si diceva che io non avessi sufficiente tempo o capacità per soddisfarla. Si diceva che lei non fosse mai sazia, che tu la sodomizzassi –le dame si coprivano la bocca, stringevano le cosce umide quando passavi. Suppongo dobbiamo tutti ringraziare la loro ingenuità: sodomizzavi molto più spesso me.



Dicesti: “Questa cosa ci distruggerà.”
Sia io che Kairi continuammo a spogliarti. Tu sapevi che avrebbe distrutto prima te.



Non sentii mai nessuno dire che eravamo giovani e innamorati.
Non credo che abbiano cominciato a farlo di recente.

L’amore pretende l’espressione.
Non starà fermo, zitto, non sarà buono, schivo, visibile, non rimarrà muto, no.
Irromperà in canti di lode, la nota acuta che spezza il bicchiere e ne fa versare il liquido.

- Jeanette Winterson, Scritto sul corpo-

Mulan ha detto: “Sono già centinaia i ricordi nel mio cuore di forestiero,
È ancora lunga migliaia di li la strada del mio viaggio solitario.
Il fiume si oscura: sta per piovere;
Le onde si fanno bianche: comincia a tirare vento.


Speravo che avrei scorto la tua ombra tra la neve sulla Terra dei Dragoni come tanti anni fa, ma questa volta tu sei stato attento, sei scomparso tra le nostre dita come una bolla di sapone, come un pensiero compiuto appena prima di svegliarsi e di andare a dormire. Non speravo di essere io a trovarti: speravo invece, ingenuamente, fossi tu a volerti mostrare.
Quando torno a valle i miei piedi sono così freddi che sembrano caldi.
Mulan mi versa una tazza di thé verde che non le dirò di aver sempre trovato cattivo. Ci sono tre rondini ricamate sopra una manica del suo qipao.

Dice: “Siamo entrati in primavera già da sette giorni,
E io ho lasciato la mia casa oramai da due anni.
Ma gli uomini tornano dopo che sono passate le oche selvatiche:
Spero soltanto di partire prima che ci siano i fiori.


Ingoio il thé cercando di non sentirne il sapore. Non è difficile quando il tuo corpo è diventato un guscio ed il tuo stomaco un contenitore. La bocca non assaggia più da un pezzo la dolcezza dell’amore sulla pelle, né il suo profumo nell’aria come quello dei fiori in primavera.
Un pomeriggio di maggio ci nascondevamo trai tulipani ed io cercavo di far tacere Kairi che non smetteva di ridere. Ne stavi usando uno per scoparla.

L'animo passa, il corpo è già andato;
Le forcine sono cadute, mentre si appoggia ancora al cuscino.
Vorrebbe andare, senza più lacrime agli angoli degli occhi;
Ma non vede, e la tristezza è ancora tanta.

In segreto, nel luogo dove ricama,
Sotto la finestra, verso il luogo dove si trucca...
Vorrebbe non ricordare quando il suo animo fu ferito,
Ma scordare, e non andarsene triste.


Dico: “Non capisco la poesia. Che cosa vuol dire?”
Risponde: “Che dovresti ritornare da lei.”

Mi giro all’improvviso, di nuovo convinto di poter cogliere il lembo della tua ombra dietro di me come accadeva allora, ma non è più così. Non segui più in silenzio i miei passi, e nemmeno l’eco del tuo nome quando risuona nella mia gola ha lo stesso sapore di cose possibili. E’ quasi un anno che manco, ma gli uomini ritornano dopo che sono passate le oche selvatiche.
Vorrei rivedere i fiori insieme a voi.




Ottobre. Kairi mi disse di aspettare un bambino nelle nostre stanze, una sera dopo cena a base di pesce. Siccome venivamo da un’isola era credenza comune mangiassimo solamente pesce, e non ho mai avuto il coraggio di sconvolgerli informandoli del contrario.
Io cominciai immediatamente ad oscillare tra la gioia ed il terrore come un pendolo, me nel dubbio la strinsi e le baciai la fronte perché sapevo di esserle grato. Lei non sembrava felice quanto me. Mi aveva dato la notizia come si annuncia l’avanzare di una guerra.
“Che cosa c’è?”
“Non dobbiamo dirlo a nessuno, Sora.”
“Perché?”
“Non ti immagini che cosa direbbero?”
“Che cosa dovrebbero dire? Non essere sciocca, un bambino è una bella notizia!”
“…non lo so.”
“I pettegolezzi sono un fuoco di paglia, Kairi.”
“Non è solo questo.” Si posò una mano in grembo e all’improvviso mi sentii distante, come se lei condividesse un segreto con qualcuno che per la prima volta non eravamo noi. Ovviamente sono convinto che sia un’idiozia sentirsi gelosi del proprio figlio, ma la teoria spesso non vuol dire molto una volta messa in pratica.
“Allora che cos’è?”
“…dobbiamo aspettare di essere sicuri.”
“Di che cosa?”
“Che sia tuo.”
“E di chi dovrebbe essere, altrimenti?”
“Di Riku.”
“C’è differenza?”
Facevamo l’amore insieme da quando avevamo noi sedici anni e tu diciassette. Per me non ce n’era davvero nessuna. Per Kairi, che era più saggia, sì, e si limitò a guardarmi con sufficienza.
“Lo so che c’è differenza, ma è solo una questione di seme. Insomma, chi se ne frega. E comunque non può essere di Riku, siamo sempre stati attenti perché non succedesse. Però, mettendo il caso…beh, pazienza, anche se fosse. Va bene. Un bambino è sempre carino.”
Kairi mi guardò come se non capissi la situazione. Peggio ancora: mi guardò come se non capissi lei.
Cominciò a spogliarsi e ad indossare la camicia da notte. Il rimprovero silenzioso: dovrebbe essere una caratteristica femminile, ma credo che l’abbia imparato da te.
Alla fine dissi: “Va bene, ho capito. Non lo diremo a nessuno finché non saremo sicuri.”
Lei annuì. Aggiunsi: “A Riku sì, però.”
Lei annuì di nuovo: “A Riku sì.”



A volte in quei giorni ci stendevamo insieme, e la pietra nuda del terrazzo diventava sabbia sotto le nostre schiene. Sotto il cielo terso, insieme a voi, persino il calore del sole sembrava lo stesso.
Noi due parlavamo con la pancia di Kairi come se ci aspettassimo da un momento all’altro una risposta. Era una strana sensazione quella di allargare il triangolo ad un quadrato, ma si poteva fare. Volevamo farlo. Ci litigavamo le attenzioni di quella che speravamo fosse una bambina scommettendo anzitempo su quale dei due avrebbe voluto sposare.
Kairi sbottò: “Non ditelo neanche per scherzo, questo bambino sarà sufficientemente confuso anche così.”
Tu le baciasti la fronte ed io posai la testa sul suo grembo cercando di non pesarle troppo.
Il suo respiro. Le tue dita trai capelli.
Con gli occhi chiusi, in quel momento mi sembrava di sentire ancora il mare.




Le feste cominciarono a susseguirsi l’un l’altra come cavallini di una giostra.
I motivi per festeggiare diventarono pretesti; dovevamo dimostrare che non avevamo niente da nascondere.
Non ce l’avevamo, ma non nel senso che credevano loro. E quelle non erano le persone a cui sentissi di dover dimostrare qualcosa, ma stavamo gettando sufficiente scompiglio e mi limitai ad annuire ad ogni nuova proposta sperando che fosse l’ultima. In cambio mi veniva concesso di invitare qualcuno che conoscessi. A volte era facile; erano nobili. Vidi Alladin e Jasmine molte volte, e anche Ariel ed Eric. Loro erano il prodotto perfetto di quest’industria di favole e giovava alla nostra immagine in caduta mostrare che fossero nostri amici. E’ ironico: diventi re a vent’anni per ritrovarti a chiedere il permesso su chi invitare alle tue feste come a otto.
Minnie aveva girato a lungo intorno al concetto prima che fosse Donald a spiegarci riluttante che la speranza di tutti era ti mostrassi in pubblico corteggiare una dama. Avrebbe appianato le cose, dicevano.
Era evidente che non erano al corrente di quali i tuoi supposti metodi di corteggiamento fossero; riuscivano sempre ad includere un’arma ed il sottoscritto che venivo fatto nero.
Divenne un rituale. In un primo momento era divertente. Dall’alto della scalinata studiavamo insieme le presenti in così detta età da marito, ne sceglievamo insieme una, e tu planavi implacabile come un falco meraviglioso sulla tua preda.
Mai prima di allora avevamo avuto modo di osservare il modo in cui le ragazze si offrivano mute e prospere alle tue mani, come alberi insopportabilmente carichi di frutti. Ognuna di loro sotto l’abito sfarzoso ed il tulle frusciante della sottoveste aveva qualcosa che bramava fossi tu il primo a scoprire, ed era vedendo mutare con chiarezza oscena l’espressione dei pudichi visi in una di puro appetito che Kairi diventava silenziosa e cercava la mia mano.
In quei giorni abbiamo imparato a sorridere anche quando gli occhi gelosi vagavano incuranti da un interlocutore almeno teoricamente importante fino a trovare te, anche quando scordando all’improvviso il galateo loro accostavano le labbra desiderose al tuo orecchio ed un fuoco che non si poteva vedere imprimeva la forma dei miei passi sotto ai miei piedi.
Quante volte rivolgendo a noi un ultimo sguardo ti sei allontanato lungo le scale con una di loro, e quante volte dopo atroci minuti di tormenti e labbra morsicate anch’io e Kairi correvamo all’impazzata nei corridoi, cercavamo la tua porta e la battevamo con tutte le nostre forze, non importava quanto distinti fossero i gemiti che la attraversavano, e quante volte tu ci hai aperto accaldato e scomposto e ci hai sorriso, e con una scusa qualunque sei scappato con noi, tu ridendo di noi e noi ridendo di te, e nascosti nell’ultimo quadratino di libertà ci fosse rimasto abbiamo fatto l’amore in fretta e furia, per levarti di dosso le impronte di un’altra donna, per ricordarci che nonostante tutto quello che gli altri ci potevano dire noi eravamo ancora noi, eravamo ancora nostri.
E quante volte ci abbiamo ritentato, davvero, Dio sa se ci abbiamo provato, noi che cercavamo di non guardare, e tu che ti nascondevi in stanze sempre più inaspettate, sempre più lontane, ma noi in realtà guardavamo e tu in realtà volevi farti trovare, ed in certe circostanze l’amore può lasciare briciole di pane grosse come mattoni lungo la strada, ed altrettanto pesanti affinché nessun uccello le possa andare a beccare.
A lungo andare peggiorammo drasticamente la nostra situazione, ma in fin dei conti era bello sapere che non c’erano compromessi che i nostri cuori e la nostra carne fossero disposti ad ascoltare, se non erano i nostri stessi cuori e la nostra stessa carne ad averli dettati.
Anche i momenti in cui venivamo sgridati, e Donald rideva in un angolo mentre Minnie scuoteva imbarazzata la testa, erano dolci come il miele.
Adesso anche il ricordo è diventato doloroso, ma non c’è né tempo che possa offuscarlo, né pena che possa renderlo amaro.
Quando ci aprivi la porta ci hai sempre sorriso ed è ancora questa, solo questa, l’unica cosa che ha mai contato e continua a contare.




Giacete accanto a me, tenetemi le mani.
Siete mio fratello e mia sorella, mia moglie e mio marito, il lato destro ed il sinistro delle cose.
Non sono nato da voi ma mi avete ugualmente generato, devo a voi quello che sono, la vostra forma ha modellato la mia. La mia storia è la vostra storia, la mia vita è la vostra vita.
I miei gemelli sono la variante sul mio tema, il che cosa sarebbe successo se di me stesso, siamo il riflesso del medesimo oggetto e contemporaneamente il mistero indecifrabile a qualsiasi codice. Un giorno abbiamo confrontato le nostre mani ed avevano la stessa forma, la linea della vita tracciava la stessa identica curva. Le impronte digitali sono l’unica cosa che il corpo non può cambiare. Voi avete impresso le vostre su di me e da allora in qualsiasi tempo rimarrò il vostro delitto e da me non vi potrete nascondere.
Siamo legati dal rispetto, legati nell’onore, siamo opportunità inscritte nello stesso bisogno.
Tu e Kairi vi pettinate nello stesso modo, io e lei abbiamo la stessa r, noi due abbiamo lo stesso numero di piede anche se neghi perché sei più alto e non si nota. Ci piace la stessa musica anche se tutti e tre non ascoltiamo quasi musica, e quando Kairi starnutisce due giorni dopo noi abbiamo la febbre.
Io sono il cielo ma sarei trasparente senza che la mia luna e il mio sole a cambiare il mio colore.
Riempitemi, riempitevi di me.
Mangiatemi come acini d’uva senza staccarli dal grappolo, voglio sentire il mio sangue colare lungo i vostri polsi e le gole. Prendetevi tutto, lasciatemi solo voi e sarà come se non mi aveste preso niente perché voi siete tutto.
Non temo la morte perché morirò una sola volta e sarò morto per l’eternità, ma vi ho amato per molto più di mille giorni e per l’eternità continuerò a farlo, ed è quindi chiaro in modo quasi scientifico che la morte non potrà avere su di me il potere che avete avuto voi. Il mio cuore, non il mio corpo, in vita è stato la mia forza. Il mio potere siete voi. La morte non può niente contro di noi come io non posso niente senza di voi.
Non so combattere se non posso combattere per voi.
Non sono coraggioso se il mio coraggio non siete voi.
Se cederete, cederò anch’io. Se vi spezzerete, allora mi sto già spezzando anch’io.



Il vecchio cane mi fa le feste da quando sono arrivato, agitando la cosa stanca come se avesse conservato le forze solo per quello. Sono sempre piaciuto ai cani, anche Zero è stato estremamente caloroso per essere morto. Solo Pluto mi snobba quando sei nei paraggi. Ricordo che dopo la morte del Re per lungo tempo ha accettato il cibo soltanto da te. E’ una fortuna che gli animali sappiano adattarsi molto più velocemente ed efficacemente di noi a molte cose, altrimenti adesso avrei anche la morte di quella povera bestia da rinfacciarti per quanto ti troverò e ti darò un cazzotto in faccia così forte che Kairi avrà problemi a riconoscere il lato destro della tua faccia.
Il cane sfugge alle mie dita, seguendo un sussurro oltre la porta della biblioteca. Il libro che Belle appoggia sul tavolo quando fa ritorno pesa quanto gli anni trascorsi da quando è stato scritto. Mi sembra di vedere il tempo intessuto nelle pagine friabili insieme alle filigrane d’oro, pagine leggere che stanno per spezzarsi. Non è un bel pensiero, ma è consolante che invece siano ancora tutte insieme.
“Conosci la storia di Re Artù?”
La conosco. La regina Minnie me ne ha parlato tanto. Belle fa scivolare l’illustrazione di un uomo inginocchiato sotto le fronde che prega una donna in lutto. Lei lo sta respingendo e c’è un corpo bianco tra loro. Minnie me ne ha parlato tanto, come detto. Abbastanza da cominciare già a capire, ma affascinato dall’immagine non ruoto gli occhi.
“La passione tra Lancillotto e Ginevra è stata la causa della caduta del regno di Artù.”
“E’ stato il pretesto.”
Minnie me ne ha parlato tanto, ho detto.
“La Regina Ginevra ha amato il suo Re in principio, ma non le è bastato. Lei voleva un guerriero, ed ha avuto la guerra.”
“Si può gestire una guerra. Io l’ho fatto almeno cinque volte.”
“Una guerra per l’amore di una sola persona è ingiusta.”
“Quale guerra è giusta?”
“Le persone patiscono in guerra. Devi pensare a chi non può portare l’armatura dell’eroe.”
“Ma una guerra è gestibile, l’amore no.”
Belle sospira e mi sorride. Credo di avere quasi vinto ma mi sento ammaccato. Deve essere la mia armatura. Il libro mi viene tolto da sotto gli occhi.
“Lancillotto era il cavaliere più grande del mondo sulla carta, ma l’impossibilità a rinunciare all’amore per Ginevra non gli ha consentito di ricevere il Graal.”
“Perché dovrei volere la vita eterna senza Riku?”
Avrei dovuto dirle che non sono bravo a perpetrare le metafore. Minnie già lo sa.

Quando sto per andarmene Chip insieme al cane sul tappeto mi saluta. Mi sento così triste che potrei annegare la stanza nelle lacrime, ed arrugginire la mia armatura finche non resterà altro che polvere rossa dissolta sui fondali che una volta erano tappeti. Penso al nostro bambino e lo penso simile a tutti e tre.
Belle mi dice: “Spero che tu riesca a trovarlo.”
In qualche modo so che non sta mentendo, ma questo non mi rincuora più.


Smettila di andartene. Voglio che rimani.


Novembre. Pioveva ed io a cavalcioni su di te mi stavo spogliando.
Mi domandasti quale fosse il tuo ruolo a corte.
Leccandoti la gola nuda ti risposi che eri un buon comandante, ma che soprattutto il tuo corpo meraviglioso alleviava la stanchezza dei tuoi sovrani. Mi disarcionasti. Cominciasti a litigare da solo, a dirmi che non ero la vostra puttana. Lo sapevo benissimo, stavo solo flirtando. Stavo solo flirtando. Te lo ripetei all’infinito ma avevi smesso di ascoltare. Dicesti che forse sarebbe stato meglio se te ne fossi andato. Se fossi sparito per sempre, in un posto lontano, dove nessuno sarebbe potuto arrivare. Sembrava una minaccia e mi arrabbiai. Litigammo per un’ora intera e alla fine mi domandasti “Che cosa vuoi da me?”
“Che tu la smetta di ferirci.”
Tu te ne andasti ed io non ti seguii. Era la prima volta.


Rimani.

Rimani rimani rimani rimani…


In qualche modo persino la giungla mi fa pensare a voi. Deve essere il verde. Il nostro mondo era caratterizzato dal blu, ma è il verde a ricordarmi veramente di voi. Nati dall’erba come fiori, fecondi come la terra, soffici, freschi. Il mare può essere pericoloso, ma anche la terra può, è solo più difficile accorgersene finché si è in tempo per rimediare. Trattala male una volta di troppo e si richiuderà in se stessa per non darti più niente.
Eri selvaggio nell’amore, ma lo ero anch’io. Nemmeno le bestie che sfilano diffidenti davanti ai miei occhi potrebbero annusarsi come ci annusavamo noi. A volte sentivo il tuo odore quando eri in un’altra stanza, a volte quando ci parlavamo era così forte che volevo morderti fino a farti sanguinare. Mi piacevano il tuo sudore ed i tuoi denti digrignati nella lotta.
Una volta che Kairi era arrabbiata con noi ci disse che eravamo come tori, capivamo soltanto la fame, la carica e la monta. Non posso fare a meno di pensare che se fossimo stati cani avremmo avuto meno forza ma il privilegio di metterci il guinzaglio. La stagione degli accoppiamenti avanza ed il mio compagno non la annuserà sulla mia pelle. Lui non è nemmeno qui, ed ho paura che il suo odore sarà la prima cosa di lui che comincerò a dimenticare.



Ancora novembre. Stavamo giocando a carte sdraiati sul letto quando Kairi spalancò la porta e buttandosi tra di noi annunciò che aspettavamo una bambina.
“…vuoi dire che…?”
Lei annuì. Il suo viso, che per tutto quel tempo era rimasto teso come se invece di amarci avesse cominciato appena a tollerarci, brillava di nuovo come la superficie del fiume in un mattino di agosto. Per quasi due mesi un po’ l’avevo odiata, segretamente, perché credevo che lei odiasse noi, che odiasse il nostro essere uomini e diversi da lei, che ci odiasse perché avevamo il potere di ficcarle nella pancia una cosa che lei non voleva e che l’aveva invasa.
Una volta mi aveva detto con molta leggerezza che lei avrebbe voluto tenere il bambino anche se fosse stato tuo, ma “pazienza”. Aveva detto così: pazienza. Ci ero rimasto malissimo.
Ma in quel momento, sul nostro letto disseminato di carte sbalzate via, mi resi conto che lei voleva quel bambino più di chiunque altro al mondo, ed era normale che fosse così, ma non aveva potuto permettersi il lusso di sognare: ogni giorno in meno che la separava dai risultati dell’esame la preparava all’addio.
Mi sentii orribilmente in colpa, ma ridevo mentre la baciavo.
“Riku?” ti chiamò, allungando una mano per accarezzarti il viso “Non sei contento?”
Tu sorridesti ed incominciasti a raccogliere le carte.



Dicembre. Continuavamo a litigare. Il pretesto era un altro, il motivo sempre lo stesso.
La gente dubitava della mia paternità sulla bambina. Dubitavano anche della tua; per quanto li riguardava, una donna che poteva andare con due uomini era una donna che poteva andare con un numero infinito di uomini. Avevamo paura che Kairi stesse male più di ogni altra cosa, ma lei era forte. Diceva che mostrare pubblicamente i risultati del test starebbe stato come ammettere che le accuse erano legittime e anche Minnie fu d’accordo. Era soltanto questione di aspettare otto mesi. “Ho aspettato per tempi anche molto più lunghi”, aveva sorriso, spostandosi i capelli dietro un orecchio con le dita.
Io rigiravo continuamente queste parole a te, mentre cercavo di attizzare nei tuoi occhi una seppur minima fiammella per me. Avevamo smesso quasi del tutto di fare l’amore, sia tra di noi che con Kairi.
Il sesso fra tre persone non può essere fatto in modo occasionale, per abitudine, per un attimo di voglia finalizzato all’orgasmo.
Il sesso fra tre persone deve essere o la prodezza di una sera o una funzione religiosa, tutto oppure niente, le vie di mezzo non funzionano, sono annichilenti, un disastro. Un rapporto a tre è devozione. E’ la capacità di pensare in termini di composizione anziché di incastro. Significa essere disposti a dare esattamente quanto si è intenzionati a prendere, non di meno perché non sarebbe giusto, non di più perché rovinerebbe l’equilibrio – e l’equilibrio è la cosa più importante nel sesso a tre. Non è una questione di quantità o di ruoli. Tu sai bene che puoi giocare ad essere il padrone della notte anche senza toccarci per ore. E’ una questione di mente. Paradossalmente la passione cede il passo ad un processo elettronico: non posso sincronizzarmi se la tua mente è da un’altra parte. Finirò per andare da un’altra parte anch’io, e ci ritroveremmo ad essere tre biglie sconosciute che cozzano sul pavimento dopo aver rimbalzato contro il muro.
Nel sesso a due c’è spazio per l’egoismo, in quello a tre no.
Nel sesso a due c’è spazio per l’abitudinarietà e la fretta, in quello a tre no.
Il sesso a due è come divorare un dolce già pronto, quello a tre è come prepararlo affondandoci in pieno le mani, mangiando a tradimento la pasta dalla scodella, inventarlo per farlo vivere e seguire nella giusta misura le istruzioni per non che si afflosci durante la cottura.
Il sesso a due è un’ondata, quello a tre è la marea che avanza.
Il sesso a due era qualcosa che potevamo fare nei ritagli di tempo, quando ci sembrava che fosse giusto o logico oppure interessante farlo, era qualcosa che o bene o male funzionava anche quando eravamo arrabbiati o quando non ci dicevamo le cose per paura di diventarlo, qualcosa che o bene o male funzionava quando la sera mi infilavo nel letto con Kairi e la sua vicinanza che lasciava un posto vuoto per te al suo fianco pesava come una perdita imminente.
Eravamo sempre stati complementari, io il bianco e tu il nero, Kairi ogni volta un colore primario diverso che poteva cambiare completamente natura a seconda di come ci diluivamo e stemperavamo insieme.
All’inizio di dicembre eravamo tre tubetti chiusi.
Io mi sentivo sempre peggio.
Non bastava dover vivere come vivevano loro.
Ci stavano anche costringendo a scopare nello stesso modo in cui scopavano loro.


Nevicava da due giorni. Ti avevamo visto dal terrazzo, sdraiato a braccia nude nella neve. Il chiarore latteo della tua pelle che sfumava in rosso per il freddo, i capelli che si confondevano nel bianco al punto che l’intero spazio circostante sembrava provenire da te, ad avvolgerti, proteggerti…mi piace ricordarti così, cristallizzato. Una pennellata ad olio quasi trasparente, che muta lievemente i suoi colori per sovrapporsi alla piega eterna delle stagioni.
Raccomandai a Kairi di non uscire; lei aveva un bambino da tenere al caldo, io un altro, ma era sempre capriccioso, non mi ascoltava mai. Andai da lui con una coperta. Lui rimase in ascolto dei miei passi resi soffici dalla neve e non si mosse. Le sue labbra erano di un pallore quasi viola ed il vento le aveva screpolate. Il mio bambino che aveva sempre le labbra morbide come i baci stessi. Lo amavo, e in quel momento lo pensai come se fosse una sorpresa. Credo che l’amore debba essere così: il rinnovamento continuo di un voto.
Ti dissi di alzarti ma ovviamente non mi volesti ascoltare. Ti dissi che ti si sarebbe congelata la testa e rispondesti che sarebbe stato meglio, con una pietra si sarebbe rotta subito. Mi stupivo che riuscissi a parlare così immerso nel gelo, tu che sei nato in un utero di sabbia scaldata dal sole. Mi sedetti, rischiando il congelamento della parte inferiore del corpo. Sarebbe stato un problema: quando fai l’amore con due persone contemporaneamente, già tutto intero ti senti come se non avessi abbastanza pezzi.
Sollevai la tua testa gelida e bagnata e me la misi sulle ginocchia. Il freddo penetrò anche il mio cappotto. Con la coperta ti avvolsi le spalle e ne usai un lembo per asciugarti i capelli, rimproverandoti come una mamma per la tua stupidità. Sarebbe difficile cercare di spiegare a qualcuno che non abbia amato così tanto e per così tanto tempo, il modo in cui stare con una persona così a lungo la renda tuo parente esattamente nello stesso modo in cui l’ha resa prima il tuo amico e il tuo amante. Noi due ci siamo formati nello stesso utero e ci siamo cresciuti a vicenda. Quando moriremo avremo una sola tomba, una sola lapide, ed i nostri nomi saranno un unico nome con lo stesso suono.
“Stavo pensando alla prima volta che ci siamo incontrati. Avevo tre anni.”
“E come faresti a ricordartelo?”
“Non me lo ricordo, cretino, mi ricordo quello che mi ha raccontato mia madre.”
“Oh. E che cosa ti ha raccontato?”
“Che stavo giocando per gli affari miei quando sei venuto e senza motivo mi hai afferrato per la collottola come un gatto.”
“…afferrato?”
“Diceva così. Non so se fosse in senso figurato o cosa. Diceva che mi hai afferrato per la collottola come un gatto randagio, e che io mi sono lasciato prendere anche se miagolavo contrariato.”
Ti sfregai le guance con le mani guantate e tu me le fermasti, tenendole tra le tue. Le presi, per scaldarle. “Penso sempre di essere stato io ad adottarti, ma non è vero. Sei stato tu a trovare me, e a tenermi con te. Mi hai addomesticato e sei sempre venuto a riprendermi quando scappavo.”
Ti guardai. Tu apristi gli occhi e guardasti me, e allungasti una mano per accarezzarmi. Era gelida ed io la presi e la portai alla bocca. Cominciai a soffiare. Tu ridesti.
“La mamma” dissi “Mi ha sempre detto che tu te ne stavi tranquillo in pace e io sono venuto a romperti l’anima. E che mi sono appiccicato come una cozza allo scoglio. E che avresti avuto un fulgido futuro da avvocato o dottore o qualcosa del genere, se non ti avessi tarpato standoti addosso a peso morto.” mi crucciai “Donna odiosa.”
Ti sentii ridere, e ti girasti su un fianco, abbracciandomi la vita. I capelli umidi e arruffati ti si appiccicavano alla faccia anche se cercavo di spostarli.
Mi chiedesti: “Noi tre siamo stati felici, non è vero?”
Trattenni la tua mano che tremava. “Riku, andiamo dentro…”
“Siamo stati felici, è così?”
“Sì, molto. Siamo ancora molto felici. Adesso torniamo dentro? Ci beviamo una cioccolata.”
“Se tutto finisse adesso noi potremmo ritenerci soddisfatti. Siamo stati più felici di quanto non spetti a molti altri.”
Chiudesti gli occhi, accoccolandoti più stretto contro di me. Io riuscii solo ad avvolgerti forte tra le braccia.
“Riku, no.” ti dissi. Tu sorridesti e ti sedesti lentamente.
“Torniamo dentro?” - Io stavo tremando.


Ti aspettammo, quella notte, ma tu non arrivasti.


Ricevemmo la notizia al mattino molto presto. Quando vennero a svegliarmi dormivo stretto a Kairi nello spazio che avevamo lasciato per te – la forma della tua assenza disegnata dai nostri corpi, come tessere di un puzzle incompleto.
Heartless ad Agrabah, molti. Non era insolito comparissero in quelle terre dove ricchezza e povertà si sovrapponevano come le ombre dei palazzi sulle strade scaldate dal sole. Erano una specie di fenomeno sociale. Tu ne ridevi sempre: dicevi che le aspettative poetiche del nostro mondo si stavano ridimensionando ed io temevo fosse vero.
Dicesti che saresti partito tu solo con pochi uomini. Premesti affinché neppure Goofy venisse con te. Mi sentii come se avessi deliberatamente lasciato sul tavolo le tue chiavi di casa prima di uscire.
Seduta su una poltrona in un angolo, accantonata come una vecchia madre dai discorsi degli uomini, Kairi si alzò di colpo per dirti di non andare. Lo stesso feci io. Mi offrii di seguirti, avremmo fatto prima, dicevo, ma non ti servivo ed era evidente anche agli occhi degli altri. E’ il privilegio di avere tre Keyblade Master: il castello deve rimanere protetto. Kairi era incinta, e non era né forte né preparata come noi. Lo sapevano tutti, e sapevano che non li avrei lasciati. Non li avrei lasciati. Non li avrei…lasciati.
Uscisti dalla sala delle riunioni. Se avesse voluto avrei potuto fermarti. Sono il re, avrei potuto far valere il mio grado sul tuo, ordinarti di non partire, scegliere che davanti a tutti tu fossi mio suddito e non il mio amico, il mio amante, e tu non avresti avuto il potere di sottrarti. Potevo farlo.
Potevo. Non l’ho fatto.


Partiste che era ancora mattina. Il sole era di quel giallo pallido e freddo come il riflesso stesso del sole sul ghiaccio. La neve rallentava i nostri passi ma non i tuoi. Gli uomini erano allineati in lontananza e avevano già salutato le famiglie, sorridendo, perché avevi promesso loro che sarebbero tornati prima di Natale. Feci segno alla corte di fermarsi sul portone ed io e Kairi avanzammo fino a te nella neve. Uno scialle copriva le sue spalle nude; era ancora in vestaglia.
Chinasti la testa: “Miei sovrani.”
“Baciami” ti ordinai. Tu ridesti. Ripetei: “Baciami.” Ogni singolo occhio dietro di noi guardava, e tu guardasti loro per un momento, uno solo, e ti allontanasti di un passo come se ti fossi accorto che eri troppo vicino. Eravamo più lontani di quanto non fossimo mai stati, e lo eravamo stati immensamente tanto.
“Mia Regina. Partoriteci un erede sano.”
“Perché Riku, quanto a lungo pensi di stare via?” –la sua voce frastagliata dalle lacrime come un sentiero ghiaioso. Le sorridesti e guardasti di nuovo me.
“Vostra Maestà.” dicesti.
“Baciami” supplicai ad un passo dalle lacrime.
Avrebbe potuto finire lì, per me. Non m’importava che ci vedessero, che venissero oltraggiati in modo imperdonabile dall’indecenza dei nostri sentimenti. Mi sarei tolto lì la corona e l’avrei lasciata a sprofondare nella neve. Non mi serviva un regno, non ero fatto per averne uno. Ero lì per sbaglio. Lancillotto ha rinunciato all’immortalità per Ginevra: rinunciare ad un solo mondo per te era persino meschino.
Ma tu mi sorridesti e ti inchinasti a noi.
Poi sentii per l’ultima volta la tua voce che radunava gli uomini, ed i tuoi passi che si allontanavano nella neve così profondamente da segnare la terra.
Kairi prese il mio braccio e pianse contro la mia spalla. Io rimasi annichilito, immobile, perché il Re, che ha il potere supremo, non può nemmeno correre dietro al suo compagno.


Vi amo. Devo a voi tutta la felicità della mia vita, ma la mia felicità non deve rovinare quella del regno di Mickey né tanto meno la vostra. Se si trattasse solo della mia non esiterei a sacrificarla.
Me ne vado, ma lo faccio con la consapevolezza assoluta e indubitabile del vostro amore.
Il vostro lieto fine non doveva includere me, ma voi mi avete accolto, ed è stato abbastanza. Adesso non voglio più prendere niente da voi. Mi avete dato già tutto.
Abbiamo avuto tutta la felicità possibile. E’ sufficiente per il resto della vita, non chiedo altro.
Non cercatemi se potete. Naturalmente so che lo farete, ma non mi farò trovare.

Riku


Tre giorni dopo la loro partenza i nostri uomini erano già di ritorno. Uno venne mandato da noi e ci annunciò con pentimento, quasi gli dispiacesse l’idea di arrecarci dolore, che avevi disertato.
Ammise a bassa voce che ti avevano cercato.
Io avevo una reattività paragonabile a quella di un vaso appoggiato di traverso sul pavimento. Almeno, pensai -ed il pensiero fece eco nel vuoto freddo della testa- i tuoi uomini ti amavano.
Qualcuno venne a chiedermi se dovevamo diffondere un mandato. Risposi di no.
“Neppure in via ufficiosa?” domandò Goofy sottovoce. “No.”
La gente, che non aveva mai smesso di parlare, continuò a farlo.
C’era da aspettarselo. Che cosa credeva il Re? Certa gente non cambia.
Certa gente non cambia. Tu non sei mai cambiato, Riku, è vero, ma loro non possono sapere come e io non glielo dirò, perché non sono affari loro e perché a volte voglio essere in collera con te.
Pluto ti aveva seguito. Fece ritorno un mese dopo con una lettera che ancora porta il segno dei suoi denti, come sigilli di fedeltà, ed io l’ho picchiato perché mi portasse da te. So che sa dove sei, che viene a trovarti. Sparisce per giorni; non c’è modo di seguirlo, è scaltro come l’avarizia. Ho gridato tante di quelle volte, e gli ho tirato sul muso una scarpa, ma ne ho avuto in cambio solo un morso.
Spero che Re Mickey non ce l’abbia con me. Di Pluto può essere orgoglioso; lui, di sicuro, non si è mai tradito.



La notte, mentre mi rigiro nello stesso letto in cui mi sono rigirato durante i miei viaggi, come allora allungo le braccia e tasto il vuoto accanto a me. Se mi lascio andare le mani toccano il pavimento, le dita raccolgono il fresco nelle notti afose. Allora non sapevo che cosa cercavo, ma adesso lo so: sto cercando voi.
Voglio che siate vicini a me, toccare la vostra pelle, tirare la coperta sopra le vostre spalle quando s’inspessiscono per il freddo e scostarvi i capelli dal collo quando si appiccicano per il caldo.
Con gli occhi chiusi sento le sciabole gemelle delle tue scapole contro il viso, la lunga cicatrice sulla gamba che la battaglia contro Xemnas ti ha lasciato e che accarezzavo con il piede nell’attesa di addormentarmi.
Anche da solo, il mio corpo assume la forma per incastrarsi al vostro.
Posso sentirvi sempre. Quando vi muovete l’aria torna a soffiare sulla mia schiena, e quando mettete le braccia sotto il nostro cuscino è anche la mia testa che si rialza.
Un sacco di volte mi hai preso a gomitate perché dormendo mi sono sdraiato sui tuoi capelli e te li ho tirati. Discutevamo assonnati su di chi dei due fosse la colpa finché come una mamma gatta Kairi non si sdraiava di traverso sopra di noi per farci stare fermi. Siamo prolungamenti di un unico pensiero. Le nostre gambe intrecciate come fiori che condividono la medesima ingarbugliata radice.
Allontanarsi da voi e rotolare fino al bordo del letto per svegliarmi qualche ora dopo e scoprire che ti eri venuto ad adattare alla curva della mia schiena. Una mano di Kairi che arriva fino al mio fianco. Il tuo respiro sulla mia spalla, così calmo. Ti si riusciva a vedere sereno solo quando stavi dormendo, e mi manca. Guardarti e renderti conto che con noi stavi bene.

Adesso come stai, Riku?

Non fare quella smorfia, la conosco bene. L’ho toccata tante volte e la sento alla perfezione sotto le dita com’è vero che posso aprire le mie mani tracciando l’esatta forma della tua testa.
Voglio augurarti che tu non sia solo in questo momento, che ci sia qualcuno con te, ma i nostri cuori sono una matrioska che nessun altro può comare.
Siamo nel tuo sangue, tu sei nel nostro. Siamo parte gli uni degli altri come caratteri di un codice genetico.
Voglio pensare che anche tu ci stia cercando, perché so che in quell’enorme letto circondato da tende bianche come nuvole Kairi sta cercando noi.
Voglio pensare che in fin dei conti sia questo l’importante, perché nei nostri viaggi la lezione l’abbiamo imparata così: non importa quanto siamo distanti, non siamo mai soli…vorrei, ma sono così stanco che potrei scoppiare a piangere e spaccare ogni cosa fino ad incenerire i mondi uno alla volta e costringerti a saltar fuori.
Non ne posso più di favole e promesse e ricerche e portafortuna, voglio voi.
Non voglio più storielle, voglio voi.
Voglio la quotidianità e la passione, voglio scopare fino a toglierci il fiato e cercare qualcosa da lanciarvi contro quando mi sgriderete per l’ennesima volta perché strizzo il tubetto del dentifricio dal centro invece che dal basso. Che cosa vi cambierà mai? Non l’ho mai capito, ma vi amo, quindi va bene anche così.
Voglio il vostro corpo che si muove e respira, la reazione della vostra pelle a contatto della mia.
Voglio sapere che siete miei perché ci siete, non perché ci credo.
Vi voglio entrambi, sono forse un ingordo? Allora lo sono, ma se posso ritornare grasso e prospero d’amore sopporterò. Io senza di voi non funziono. E’ assurdo che te ne sia andato con la pretesa che da soli ci bastassimo -quando uno si stacca anche gli altri si disperdono, lo sai.

E’ vero, io vi ho scelti in due, ma vi ho scelti fra milioni di milioni in ogni mondo. E questo deve pur valere qualcosa.

Per amore vale la pena di morire, per amore vale la pena vivere.
Il mio cercarti, il tuo cercarmi, vanno oltre la vita e la morte
per trasformarsi in un alto grido nel deserto.
Non so se quella che sento è una risposta o un eco: forse non sentirò nulla.
Ma non importa. Questo viaggio si deve fare.

- Jeanette Winterson, The Powerbook-

Era una notte afosa di luglio e stavamo camminando lungo la spiaggia. Le prime lucciole solcavano l’acqua scintillante di stelle come minuscole lanterne.
Eravamo tornati a casa da poco.
Dopo due anni, il mondo si era di nuovo fermato. Avevamo costantemente la nausea come appena scesi da una giostra. Persino le impronte che i nostri piedi lasciavano nella sabbia ci stupivano.
Ti fermasti e dicesti: “Voglio fare il bagno.”
Riconobbi quel tono di voce, il modo di parlare che avevi quando eri bambino e ti comportavi come se il mondo fosse stato una biglia nel palmo della tua mano. Ne fui attratto come una falena dalla luce di un faro. Da quando eravamo tornati avevi parlato a voce bassa, come se chiedessi il permesso per usare ogni singola parola. Era una cosa che mi faceva stare male.
“Anch’io!” dissi subito per aggrapparmi a quella luce, e cominciai a spogliarmi. Kairi si voltò squittendo, come se avesse visto un ragno enorme. Tu ridesti e ti spogliasti anche tu. Il tuo corpo bianco come la luna e levigato come un sasso. Il tuo corpo che raccoglieva l’acqua come la scavatura nella roccia di una cascata. I tuoi capelli appiccicati al collo e alle spalle, la visione rapida e proibita del sedere quando t’immergesti.
Chiamammo Kairi per interi minuti, mentre lei ci urlava indietro che non voleva “vedere i nostri cosi”. Eravamo piuttosto onorati: dovevamo averle fatto un’impressione importante perché fosse convinta che i nostri cosi sarebbero guizzati tra le onde e l’avrebbero sbranata come squali. Ci raggiunse a largo, dove l’acqua le copriva il collo se stava sulle punte. Ogni tanto provava a galleggiare, ma mestamente tornava a ritirarsi quando le spalle affioravano lucide dall’acqua, permettendo di scorgere tra le increspature trasparenti lo sbocciare pudico dei seni. Fingevamo di no, ma i nostri occhi li cercavano come i gabbiani cercano facili prede dall’alto. Forse aveva ragione a temere che la volessimo sbranare.
La afferrasti, ad un certo punto, stringendola con le braccia intorno ai fianchi, e la trascinasti indietro, e indietro, fino a farla stare comodamente in piedi.
Il suo corpo sembrava inondato di piccole perle. I capezzoli turgidi scalfivano il pelo dell’acqua e scomparivano per un attimo quando l’onda avanzava.
Ricordo il suo viso così rosso da assumere una colorazione violacea nel buio della notte.
Ricordo le tue braccia salde attorno a lei, lo sguardo schivo.
Ricordo che tremavate entrambi, anche se Kairi di più.
Eravate bellissimi e io mi sentivo ubriaco.
Mi avvicinai, ed accarezzai con le dita quel punto particolare che ho sempre amato, dove la discesa delle spalle cessa di essere ripida e diventa una curva morbida che è come l’anticamera della deliziosa rotondità a venire. Kairi chiuse forte gli occhi e si alzò sulle punte. Tu sussultasti e posasti la bocca contro la sua testa, perché nel farlo si era sfregata contro di te, ed eravate così vicini…io posai le mani su quello che lei mi aveva offerto, e la baciai per la prima volta, poi senza nessuna esitazione la schiacciai tra di noi e baciai anche te. Era anche il tuo il sorriso che volevo sentire, la lingua che volevo conoscere – è strano, no? Così tanti anni passati accanto a una persona, senza avere idea di quale sia il calco dei suoi denti. Volevo conoscere tutto di voi. Il sapore della vostra saliva, la velocità a cui il sangue affluisce ai vostri cervelli e vi dà là vita. Lì, quel nucleo che pulsa tra le mie mani quando vi stringo la testa: è lì che voi esistete, il punto in cui gli eventi vengono codificati secondo il vostro irriproducibile criterio. E’ lì che quello che recepite con i cinque sensi acquista un significato. Lì esisto anch’io.
Ci sono molte versioni di Sora in ogni mondo, una per il cervello di ogni persona che ho incontrato, ma solo quelle nella vostra sono vere quanto quella nella mia. Chiunque può leggermi, ma solo voi mi traducete. Tra le righe c’è un messaggio nascosto visibile solamente ai vostri occhi.
Il messaggio è semplice: il mio amore per voi.
Abbiamo fatto l’amore in mare come delfini perché il mare era stato il prolungamento del ventre materno per noi. Due anni di lontananza ci hanno gestati ed il vento che scuoteva le palme è stato il respiro affaticato che ci ha partoriti.
Non siamo nati dalle nostre madri, che ci hanno voltato le spalle, né dai nostri padri che non ci sono mai stati. Siamo nati lì. Siamo figli di un triangolo che non ha funzionato, il prodotto di un sentimento ambiguo impazzito, una fiaba seminata bene e cresciuta male, un incesto sfiorato per un urto del caso.
Li abbiamo delusi e per questo nessuno ci ha insegnato ad amarci, ma a costo di ferirci lo abbiamo imparato da soli.
La prima volta siamo stati avventati come bambini, e l’acqua salata pizzicava ogni segno della nostra incompetenza. Siamo stati bruschi con Kairi e l’abbiamo spaventata. Non sapevamo di doverla preparare e le abbiamo fatto male. A nostra discolpa posso dire che eravamo totalmente ignari: non avremmo mai pensato di dovercela dividere in quel senso. Ma poi è andata sempre meglio. Abbiamo tracciato le nostre mappe, dissotterrato i nostri tesori. Abbiamo dato tutto quello che potevamo dare e quello che ci siamo presi alla fine è stato il piacere assoluto, la libertà completa, totale.
Quando ripenso a quella notte non è solo il ricordo dei nostri corpi bagnati allacciati tra loro ad incendiarmi il sangue, né i nostri respiri rumorosi, o la sensazione ancora viva nelle vene di stare facendo qualcosa che forse non avremmo dovuto fare, ma che Dio, era stupenda - la scoperta destinata a cambiarci un’altra volta la vita. Sono le nostre impronte impresse nella sabbia al ritorno, che ricordo.
Erano ancora incerte, ma procedevano di sei in sei.
E ricordo di essermi reso conto solo in quel momento che questo, e nient’altro, era quello che volevo.





L’aria di Halloween Town è fredda e non credevo che sarebbe mai successo, ma mi sento troppo vecchio per portare una zucca in fronte. Non ho ancora ventidue anni.
Fisso l’enorme pupazzo del Bao Bao che Jack e gli altri stanno tirando giù dalla palizzata, eretta come da tradizione ogni anno da quando Xemnas è stato sconfitto e l’ordine delle cose si è almeno in apparenza ristabilito. E’ difficile parlare di ordine delle cose ad Halloween Town. E’ un mondo che vive un anno intero per un solo giorno come io viveva una vita intera per due cose sole.
Il ghigno del Bao Bao sembra rinfacciarmi la mia adolescenze incenerita.

Sally tende l’ago e il filo verso l’alto. Si ferma per un attimo prima di riaffondare con chirurgica dolcezza nella stoffa cedevole d’ovatta.
Dice: “Che cosa dirai ai tuoi figli?”
Io sento che devo vomitare. Sally dà l’ultimo punto e strappa il filo tagliandolo coi denti.
Rispondo: “Che ho amato due persone, e che le ho amate entrambe senza peccato né colpa.”
“Quale colore preferisci?” domanda lei tirando fuori dalla tasca una manciata di bottoni come biglie. Ne indico uno verde splendente ed uno azzurro chiaro. Sally ritira gli altri e fa passare l’ago ed il filo di colore discorde in uno dei quattro buchini.
“E se loro volessero fare altrettanto?”
“Direi loro di non amare più persone di quante non ne possano rendere felici. Né più, né meno.”
Le labbra cupe e secche di Sally sorridono un po’. Jack e gli altri fanno oooooh e poi issà! – una corda si è spezzata sbilanciando il Bao Bao. E’ persino triste vederlo così, crollare quasi a terra, come la polvere dell’antica minaccia che era.

“E tu puoi renderli felici entrambi?”
“Certo che posso.”
“Quindi la regina in questo momento è felice.”
La guardo con astio ma subito ritiro pentito lo sguardo. Con il palmo della mano, Sally schiaccia per caso il sorriso tatuato e sbilenco sulla stoffa giallognola.
“Non si può essere felici in ogni momento, lo so, però noi…siamo stati felici quasi sempre. E’ quello che conta, no?”
“Certamente.” Annuisce come ad un bambino ed accarezza l’imbottitura che fuoriesce come interiora dal petto della bambola. Qualcosa di lacerato. Qualcosa di morto.
Distolgo lo sguardo.

“Forse il tuo amico non è certo di poter fare altrettanto, ed è per questo se ne è andato…”
“Riku non riesce a rendere felice se stesso. Per questo lo sto cercando, per riportarlo indietro. Per renderlo felice.”
“Vuoi che siate voi a renderlo felice? Non significa che tu voglia che lui sia felice.”
Sento una vespa pungermi, ma non ce n’è nessuna. “Ehy!”
“Perdonami, mi rendo conto che non sono affari miei.”
No, non lo sono. Non sono affari di nessuno.
Dimmi dov’è Riku.
Dimmi dov’è Riku.

“…ma non puoi cambiare una persona pur continuando ad amarla. Amare t’impedisce di volerla diversa. Forse il proposito può essere buono, ma lo sforzo…è vano.”
Rimaniamo in silenzio. Jack canticchia un motivetto del passato Halloween. Sally è pentita e termina: “O almeno credo.”
“Sally…hai visto Riku?”
Lei mi guarda dispiaciuta e scuote la testa. Termina di appuntare il bottone azzurro. Sorride e solleva la creatura di stoffa. Il braccio destro – troppo piccolo e tozzo rispetto a quello sinistro- si scuce e le cade sulle ginocchia ossute. Sally ride. “Filo del mio filo.”
Si alza e va incontro a Jack chiamandolo. Lui salta giù dalle impalcature e prende la bambola in braccio – il suo largo sorriso sdentato come una scavatura vuota nel cranio.
La testa rotonda pende all’indietro senza vita come se la stessero strangolando. Venendo mossa ricade di lato. L’occhio verde e l’occhio azzurro sembrano guardarmi con astio, accusandomi con quella bocca che non può aprirsi.




Ancora Dicembre. Avevo trovato un tuo capello su un mio maglione. L’ho girato tra due dita e tendendolo la luce è scivolata tagliente come una goccia d’acqua al sole da un capo all’altro.
L’amore è tutto quello che chi ami si lascia indietro andandosene. E’ stata Kairi a dirmelo quando avevamo diciotto anni e già ce n’eravamo andati molte volte.
I tuoi capelli li avevo stretti tra le mani ed annusati quando profumavano di cocco. Non era autoritario, dicevi, ma era buono. Non avevamo bisogno di essere autoritari tra noi, ci stavamo a sentire, ma l’unico modo per andarsene è non ascoltare e lo sappiamo fin troppo bene. Profumavano di te i vestiti nel mio armadio, specialmente quelli più pesanti, come se il tuo odore cercasse qualcosa del tuo calore. C’era il tuo spazzolino da denti nel nostro bagno, lo shampoo tuo e di Kairi che ha cominciato a consumarsi più lentamente da quando avete smesso di usarlo entrambi. Se posassi la tua testa sul mio cuscino questo ne accoglierebbe ancora la forma, e se in quei giorni guardavi attentamente il mio fianco sinistro potevi vedere ancora il livido di quando stavamo litigando e mi hai spinto contro il comodino. Ha continuato a fare male anche diverso tempo dove essersi schiarito. Certe cose non spariscono quando smetti di vederle.
Che cosa mi era rimasto di te? Solo la tua vita che temporeggiava tra le nostre.
Kairi entrò in camera e riappoggiai il capello dove l’avevo preso; non so se fosse un altro o lo stesso, ma ne ritrovai uno nel suo cassetto avvolto a una matita qualche giorno dopo. Era appena tornata dall’ennesima visita: la tenevano sotto torchio per la salute del bambino come una studentessa sotto esame. Per qualche motivo non voleva mai che la accompagnassi, sebbene - salvo nei momenti di ingiustificato nervosismo che tento di spiegarmi con la storia degli ormoni- sembrasse sempre dispiaciuta e riluttante nel dovermelo ripetere. Adesso capisco che si stava preparando a fare tutto il resto da sola, ma allora mi sentivo come se mi stesse in qualche modo tagliando fuori – come se il mio coinvolgimento nella cosa fosse terminato nel momento in cui avevo alzato la cerniera. A conti fatti, stavamo peggio di quello che sembrava: non eravamo, come si suol dire, in crisi, ma faticavamo a capirci e non era mai successo. Cercavamo di comportarci come se non fosse stato così. Cercavamo di sorridere come se non fossimo stati abbastanza arrabbiati con te da avercela con noi stessi.
Kairi si lasciò cadere con la schiena sul letto ed io mi sdraiai accanto a lei con una mano sulla sua pancia.
Dissi: “Le dovremmo trovare un nome, non credi?”
Lei scosse la testa. Chiesi: “No?”. Lei rispose: “No.”
“Come mai?”
Borbottò insicura, come se si vergognasse: “Per scaramanzia.”
“La bambina non sta bene?”
“No, sta benissimo. Però…” esitò e poi posò una mano sulla mia “Non pensiamoci adesso, ok?”
Non ci dicemmo più niente e ci addormentammo. Fuori un sole freddo scioglieva anche quelle che mi piaceva pensare fossero ancora le impronte dei tuoi passi.


Una notte che Kairi aveva vomitato tre volte la stessa portata della cena e non riusciva a dormire, mi offrii di scendere nelle cucine e prepararle una camomilla. Allungando un braccio di circa dieci centimetri sopra al comodino avrei trovato un tasto che nel giro di pochi secondi avrebbe portato fuori dalla porta della nostra stanza un gruppetto di servitù come di supereroi pronti ad andare a Pride Land a raccoglierci un frutto di un certo colore e sapore e tornare, ma non voglio che siano altre persone a prendersi cura delle persone che amo. Sono geloso più dei vostri malesseri che della vostra carne. C’è qualcosa di morboso nell’attaccamento alla malattia di chi ami, al disagio e alla debolezza del suo corpo, come se tu e tu solo avessi il diritto di conoscerne pienamente la fragilità. Non c’è niente di voi che mi ripugni, niente che mi turbi. Ricordo quando a dodici anni ti operasti di appendicite ed io vi preoccupai tutti con l’insistente richiesta di tenerti il pappagallo mentre facevi pipì e poi andare a versarlo e lavarlo. Me l’hai rinfacciato fino ad un giorno prima di sparire.
Uscii dalla nostra stanza ed incontrai Donald in corridoio. Stava facendo avanti e indietro bofonchiando con le ali incrociate e fece un salto più alto del parapetto della scalinata quando mi vide. Ero stupito anch’io: lui e Daisy si coricavano incredibilmente presto, e a questo proposito avevo anche imparato che dire ad un papero irascibile che va a letto con le galline non è sempre una buona idea, perché potrebbe fraintendere.
Scendemmo nelle cucine assieme. Impiegammo mezz’ora per trovare un bollitore. Lui sembrava nervoso. Mentre l’acqua si scaldava ed io calavo la bustina dentro e fuori dalla tazza asciutta, Donald mi disse che c’era qualcosa che doveva dirmi. Gli chiesi di farlo. Mi tolse la tazza dalle mani e cominciò.
“E’ stata la notte prima che…” lo vidi misurare le parole. Non eravamo abituati a farlo e gli ingranaggi del cervello facevano rumore. “…che gli uomini partissero per Agrabah.
Anche quella notte ero fuori dalla vostra porta, anche quella notte ti dovevo parlare. Stavo per bussare quando…ho visto Riku arrivare.
Abbiamo parlato. Sono stato sincero con lui. Ho pensato che dovessi esserlo, no? Gli ho detto che secondo me non era una buona idea. Che qualcuno può permettersi uno scandalo e qualcun altro no. Lui poteva, voi no. Tu e Kairi siete così ingenui, e puri, lui invece…pensavo che potesse capire. Volevo solo che foste più attenti. Non pensavo che…non era quello che volevo, Sora. Lo sai che non--”
La teiera cominciava a traballare sul fuoco. Stava fischiando, e l’acqua ribolliva furiosa come il liquido nel mio stomaco. Donald mi guardò e saltò giù dalla sedia, pose uno sgabello sotto il fornello e ci salì sopra per spegnere l’acqua. Prese la teiera e la appoggiò pesantemente sul tavolo con entrambe le mani.
Sospirò e disse: “Mi dispiace.”
“Non è colpa tua.”
Lui non rispose. Mi sforzai di non odiarlo. “Non se n’è andato a causa tua. Lui non dà mai retta a nessuno, nemmeno a noi. Non ne avrebbe data a te né a nessun altro se non fosse già stato convinto in partenza di quello che voleva fare. Lui è…testardo. E anche molto drammatico. Non sentirti in colpa. Non ce l’ho con te.”
“…io però non te l’ho chiesto…”
Lo guardai. Lui salì sulla sedia e prese tazza e teiera. Io lo fermai.
“Faccio io” gli dissi. Lui annuì preoccupato. Versai lentamente l’acqua bollente nella tazza. “Faccio io…” ripetei, mentre il vapore mi bruciava una mano e sentivo come se la pelle stesse cercando di aprirsi sanguinare e spaccarsi.




“Vuoi andare a cercarlo, non è vero?” mi ha chiesto Kairi, a piedi nudi sul terrazzo.




Perché è la perdita la misura dell’amore?

A Giugno eravamo rimasti sdraiati sul nostro letto per ore mangiando fragole che colavano sulle lenzuola il loro succo rosso e dolce. Ti avevo massaggiato le spalle seduto sulla curva della tua schiena mentre con la testa appoggiata sul tuo stesso cuscino Kairi riposava con un libro aperto sulla pancia. Lei si girò ed il libro cadde. Tu le spostasti i capelli che le erano ricaduti sul viso e riponesti l’oggetto sul comò. I tuoi movimenti battevano sotto le mie mani come tasti di un pianoforte silenzioso. Basilarmente fate tutto quello che fanno gli esseri umani: respirate, il biossido di carbonio cede spazio all’ossigeno mentre le arterie e le vene compiono il laborioso processo incrociato di condursi il sangue a vicenda affinché il vostro cuore continui a battere ed i vostri tessuti si manifestino all’esterno nella forma che mi è dato di amare. Lo fanno tutti, ma voi lo fate sotto sopra ed intorno a me e questo lo rende un fatto speciale che mi sembra giusto meriti la mia attenzione. Ho sciolto i nodi tesi del tuo collo con le dita e tu hai fatto le fusa come un gatto. “Mmmh, ti amo” hai detto, io mi sono sdraiato sulla tua schiena come il guscio di una tartaruga e lì mi sono addormentato. Riconosco il vostro modo di respirare, il vostro modo di camminare. Il rumore dei vostri passi e come bussate alle porte. Siamo diventati gli uni gli altri senza perdere noi stessi. In un lieve momento di veglia ho accarezzato le cicatrici sulle tue spalle ed una combaciava esattamente con una mia. Ho guardato i vostri capelli mescolati come fiumi sul cuscino. Ho allungato una mano per toccarli, e voi eravate lì. Ho chiuso gli occhi, e voi continuavate ad esserci.

Aerith ha aperto gli occhi e si è spianata la gonna sulle ginocchia. Cloud se n’era andato un’altra volta e lei ha riso dicendomi che stava ancora cercando qualcosa da cercare, e solo allora, con calma, avrebbe cominciato a viaggiare per cercarla. Forse allora avrebbe potuto cominciare ad aspettare il suo ritorno, ma per adesso - scosse la testa e sorrise – è troppo presto anche per questo.
“Tifa lo sta ancora cercando?”
“Sempre.”
“Perché non vai con lei?”
“Così se lui dovesse tornare, mi troverà qui.”
“Quindi Tifa sbaglia a seguirlo?”
Aerith mi guardò e mi sorrise divertita: “Tu torneresti, Sora, in un posto da cui nessuno è partito per seguirti?”

Sto ripensando ad un altro Giugno, alle pareti di pietra scarabocchiate al posto dell’avorio accecante del palazzo e alla terra brulla e fredda dov’eravamo acquattati come animali insolitamente tranquilli. Tu ti tenevi un braccio sugli occhi, come se la luce ti abbagliasse, ma non c’era luce lì.
Facevamo di tutto per non dire le parole che da quella notte al mare sapevamo che avremmo dovuto dire.
I nostri sguardi alla luce del giorno come sciami di farfalle impazziti. Era come essere sempre ad un passo da un momento a lungo aspettato. Dopo l’attesa, ma prima del compimento. La realizzazione, forse. L’attimo in cui sai che la felicità è lì.
“Questa cosa va bene?”
Era stata Kairi a dirlo. La sua voce rimbalzò inascoltata. Si sollevò in modo da appoggiare le spalle alla parete del Rifugio, coprendosi con la tua giacca. Ripeté: “Credete che questa cosa vada bene?”
Non rispondemmo a lungo. Abbastanza da palesare che fossimo terrorizzati. Dicesti: “Ti crea dei problemi?”
“No. Non è questo, è solo…non me ne crea affatto. Forse questo è un problema. E’ davvero così semplice? Se dovesse solo sembrarlo, e nel giro di poco le cose si incasinassero all’inverosimile e…non voglio perdervi. Non succederà, non è vero?”
“Questo è fuori discussione! Se le cose dovessero incasinarsi…beh, in qualche modo faremo, no? Abbiamo sbrogliato di peggio. Riku?”
“Perché alla parola peggio chiami in causa me?”
“Come lo spiegheremo agli altri? Credete che capiranno?”
“Non c’è niente che dobbiamo spiegare. Questo siamo noi. Che cosa c’è da capire?”
Kairi scivolò nuovamente tra di noi. Ci riavvicinammo per colmare lo spazio – gambe spalle braccia fronti schiene e pance. Ogni cosa combaciava così bene: come poteva essere sbagliato? Eravamo modellati apposta per incastrarci.
“…allora possiamo restare così per sempre?”
“Dipende, voi che cosa ne pensate? Io non voglio perdere nessuno di voi due un’altra volta.”
“Nemmeno io, te l’ho detto.”
“Allora immagino che sia ok. Riku?”
“Io voglio solo farlo in un letto. Mi fa male la schiena…e questi disegnini mi danno ai nervi.”
Io e Kairi ridemmo, non so perché. Poi lei si addormentò. Ti accarezzai una spalla per attirare la tua attenzione e domandai pietosamente: “Andrà tutto bene, non è vero?”
Togliesti il braccio con cui fin dal primo momento ti eri chiuso gli occhi e guardandomi rispondesti: “Spero di sì” – stavi sorridendo ed era abbastanza. Mi separai delicatamente da Kairi e la scavalcai per venire ad abbracciarti. Tu richiudesti gli occhi. Io mi accorsi che quello era il punto da cui il disegno di me e Kairi si vedeva meglio.

Ho atteso a lungo in silenzio, mentre il sole del mattino cominciava a colorare Hollow Bastion. Poi mi sono stretto le ginocchia al petto, più simile ad un penitente che non a un Re.
“Come si fa ad amare qualcuno che è sempre lontano da te?”
“Aspettandolo. Cercandolo. O vegliandolo.”
Il vento si alzò e sollevò la sua gonna, che scoprì le gambe lunghe e rosa, e schiaffeggiò la mia schiena con la sua treccia. Un’ombra inghiottì i palazzi. Hollow Bastion è un mondo che come noi sembra perennemente in costruzione, in attesa che qualcos’altro accada. Alla nostra favola è sempre mancata la parola fine, e quindi che favola è? Che significato ha? Mi sembra di aver camminato per anni e anni verso un orizzonte che più mi avvicino e più si allontana.
“…tu credi che dovrei lasciarlo perdere, Aerith? Che dovrei metterci una pietra sopra e…andare avanti, dimenticarlo? Raccontarmi che mi passerà? Che è stato un bene, che doveva andare così? Che il buco che ho nel cuore si tapperà? Certo, il tempo è un buon disinfettate, ma tu credi che si possibile rimpiazzare la persona che amavi con delle altre cose come se fosse un rumore da coprire? Devo tornare a palazzo? Accontentarmi di quello che ho, come se fosse un capriccio? Riku non è un’opzione. Devo rinunciare a lui?”
E mentre la polvere che si alzava dalle vie mi entrava negli occhi che già bruciavano di lacrime, Aerith mi sorrise e scosse con dolcezza la testa.

Fu in quel momento che ti vidi. Il tuo viso dipinto davanti a me come un momento rubato al tempo. Il calore della tua mano. Mi avevi chiesto se ti dovevi tagliare i capelli e la mia risposta era stata no. Tutte le cose che hai detto. Ogni più piccola cosa che abbiamo fatto. Ogni pagina della mia vita ha righe fitte del tuo nome. Pensare a te mi buca lo stomaco da parte a parte, ma non voglio non farlo. Forse potrò essere un ingenuo, ma non sono stupido e baciando entrambe le vostre guance conoscevo il prezzo di quello che stavo chiedendo. L’ho pagato e lo sto pagando ancora. Lo ripagherei di nuovo. Non è andata come volevo ma non è stato uno spreco. Ne è valsa la pena. Ne vale ancora la pena.
L’amore vale sempre la pena.




Non mi sono fatto annunciare, ho proceduto nei corridoi con il sorriso celato per non fare rumore e a chiunque mi vedesse facevo segno di tacere. Incontrai Daisy e le domandai solo muovendo le labbra dove Kairi fosse. Lei mi guardò con occhi in cui la tristezza giaceva come un sedimento e mi indicò il giardino.
I fiori stavano ricominciando a sbocciare e l’acqua delle fontane ora sgorgava limpida dalle brocche degli angeli. In alcuni punti già nascevano i narcisi selvatici.
Lei era seduta sotto la statua di Re Mickey con la corona appoggiata in terra ed i capelli che scivolavano lungo una spalla. La curva fragile delle sue spalle, il punto dove il collo si piega e la spina dorsale forma una pallina sotto la pelle che così spesso ho infastidito con le dita. Avevo nostalgia della sua nuca e dei suoi gomiti. Si suppone che quello che ci manchi di un’amante sia situato sul davanti, ma dietro? E’ lì che mi rintano la notte dopo essermi allontanato, dietro le ginocchia si appoggiano le mie ginocchia ed è il sedere contro il mio bacino che traccia la rotondità armonica perfetta che dovrebbe avere il sonno. Il corpo di un amante non deve essere necessariamente sessuale. Ho fatto il bagno con voi innumerevoli volte e la maggior parte di queste non ha condotto al sesso. Non mi manca il sesso, mi mancate voi. Mi manca il modo in cui riempite lo spazio e la forma che lasciate quando ve ne andate.
Oltre che retrò sarebbe stato interessante arrivare a coprirle gli occhi e chiederle chi sono?, ma a parte il fatto che sarebbe stato impossibile morivo dalla voglia di vederla girarsi verso di me. Lo ha fatto ed è quasi inciampata nella gonna alzandosi, poi si è buttata tra le mie braccia. Il suo corpo quasi del tutto senza peso. Il suo corpo dalle ossa esposte e fragili sotto la superficie sottile come quelle di un canarino. Presi le sue spalle tra le mani e sentii di sbriciolarle. La allontanai ed il suo viso era pallido e gli occhi gonfi sottolineati dalla scavatura viola delle occhiaie.
“Kairi…?”
Lei si allontanò la me ed afferrò con le dita il ciondolo a forma di goccia che le pendeva tra i seni piccoli. Si erano riempiti in gravidanza, quando me ne sono andato sentivo già la differenza tra le mani e l’avevo notato altre volte, incontrandoci per un pomeriggio, una sera, il tempo di illudersi di non temere le distanze più della morte e di qualsiasi altra cosa definitiva della vita.
Guardai il suo ventre piatto, vuoto. Alzai gli occhi. Lei cominciò a piangere.

Dopo tre mesi sono rimasto un giorno intero insieme a lei. Ho mangiato con le e parlato con le e passeggiato con lei tenendole la mano e sentendo nella mia la forma che negli anni non è mai cambiata, ma non ero con lei. Non è stato possibile. Kairi non camminava al mio fianco. Il suo sguardo, anche se i suoi occhi non si allontanavano da me, era rivolto altrove come a un orizzonte aldilà dell’orizzonte.
L’avevo visto molte volte, in altri mondi. Kairi era una di quelle donne felici per la fine della guerra, ma troppo oppresse dalla distruzione che essa aveva portato per avere la forza di gioirne.
Avrei voluto che riuscisse a dirmi che era stata tutta colpa mia.
Il mio pigiama puzzava di naftalina. Una volta aveva il vostro odore. Mi sono alzato dal letto e a piedi nudi così com’ero sono andato in biblioteca. Ho appreso che al quinto mese di gravidanza il bambino sviluppa i sensi. Il cervello e il midollo osseo sono completamente formati.
La nostra bambina si succhiava già il pollice.

Domandai a Kairi se voleva che partissi e mi rispose di sì.
Ero ad Halloween Town quando mi resi conto che in realtà mi stava dicendo di no.


Perché lo stai cercando ancora?

E’ passato quasi un anno da allora. Ho visto ricrescere e morire gli stessi fiori negli stessi luoghi dove mi avevano salutato, in un misto dolciastro di distacco e promesse. I rimpianti sono stati il mio tetto, i ricordi il mio cibo e con le mani ho scavato distanze sempre più grandi con la sola persona che mi è sempre rimasta vicino senza riserve.
Kairi mi manca, e me ne rendo conto con uno stupore che mi fa sentire male. So di essere colpevole. Non ho rispettato né te né lei, quando il vostro culto è l’unico susciti la mia adorazione.
Potrei dire qualcosa a mia discolpa; il dolore è egoista, l’amore è egoista, ma voi non capireste perché non sapete che cosa sia l’egoismo. Voi avete sopportato per anni la volubilità delle mie attenzioni, le mie priorità cangianti come le fasi della luna, l’esserci sempre stato per quei mondi che ci hanno ripudiati invece che per voi.

Ma tu eri pronto a vivere la tua vita alla nostra ombra, per noi.

Ad essere l’amante e mai il marito, un amico e mai un padre, il più fedele dei cavalieri ma non il re.
Ho avuto il Keyblade e Kairi ed il regno di tuo padre - persino il suo cane- e non c’è stato niente che tu abbia preteso indietro, hai lasciato che il mio destino seguitasse a interferire con il tuo ed invece di odiarmi mi hai amato. Invece io ho preteso: ho preteso indietro te. L’ho già fatto una volta e lo sto facendo ancora. Sono la prova che le persone a cui i propri errori non presentano credito si guardano bene dal pagare ed imparare; tu ti sei pentito fino allo stremo delle forze per qualcosa di cui io avevo colpa ed hai lasciato che continuassi a sbagliare sulla tua pelle.

Ma sentiti. E dovrei essere commosso?

Adesso basta. Ti lascio libero.

L’hai lasciato andare. E adesso pretendevi di corrergli dietro, di riacchiapparlo come un cane? E poi che cosa, doveva buttarsi tra le tue braccia formicolando di passione? O avrebbe dovuto ringraziarti?
“…volevo solo che tornasse indietro.”
Perché così tu avresti potuto essere felice?
“No. Perché così avrei potuto dirgli la verità.”
E quale sarebbe?
“…Che mi dispiace.”

I mattoni rossi sotto la mia mano sono così caldi da sembrare vivi.
Questa è una città colata nell’oro. Si contraddice anche allo stesso modo – è opaca, ma l’idea del suo riflesso nella mente brilla come se fosse luminosa. Deve essere il sole. Twilight Town esiste nelle ore del tramonto.
Una volta ti ho detto: “Non voglio il tuo passato, voglio il tuo futuro.”
Tu hai risposto: “E’ proprio questo il problema.”
C’è sempre un problema, non è vero? Non riesci ad accettare quando la vita è semplice per paura di perdere l’abitudine a sbrogliarne i nodi. Io sono una di quelle persone che li prende alla leggera e comincia a tirare l’estremità sbagliata. Il nodo si stringe di più e di più.
Non voglio che il fiocco che ti ho legato al collo diventi un cappio all’occorrenza.
Non ho mai voluto essere una trappola, per te.

“E’ che non puoi uccidere la persona che ami, il punto.”
Allora la illudi di essere libera? Lasci che scorrazzi un po’ nel parco, che pisci sugli alberi che vuole, che abbai contro ai suoi simili e che si rotoli nelle pozzanghere, e una volta sbollito prendi il guinzaglio da dietro la porta e lo vai a cercare.
“La vedi nel modo terribilmente sbagliato, Roxas.”
C’è un altro modo di vederla?
“Sì. Non puoi uccidere la persona che ami, ma anche se in teoria funziona, in pratica non è mai nemmeno facile uccidere te stesso, credo.”



Questa notte voglio tornare da Kairi. Voglio restare.
Se dovessi rappresentare le nostre vite taglierei tre elastici e li annoderei tra loro, poi tenderei i tre capi all’infinito, fino all’istante appena prima che si spezzino, e poi li lascerei andare.
Da bambini abbiamo fatto tutti qualcosa del genere. Non c’è bisogno che spieghi quanto sia masochista e doloroso. Se avessi potuto scegliere, mi sarei tenuto ben lontano da queste fisarmoniche sfilaccia-cuore. Ma ho scelto voi e qualsiasi cosa avessi saputo che avrebbe comportato l’avrei affrontata con lo stesso dolente entusiasmo e totalizzante passione con cui l’ho fatto fino ad ora.
Ma ambisco alla calma, adesso.
Al calore delle cose famigliari, alla sicurezza dei gesti quotidiani. Voglio stare con mia moglie, la mia compagna, quella giovane donna meravigliosa dall’aspetto fragile e slanciato di un ramo di ciliegio ed il cuore ardente di una lupa.
Non so se potrò ancora chiederle di perdonarmi.
Non so se a conti fatti mi sia mai meritato qualcosa da lei.
Ma se invece di prendermi a calci nel sedere come dovrebbe, Kairi mi dirà anche solo due parole, io starò di nuovo bene.
Adesso basta tendersi all’infinito, tutti e tre.
Che senso ha ostinarsi ad amare qualcuno che può sparire da un momento all’altro dalla tua vita?
Vorrei ancora toccarti, Riku, ma tu sei in un luogo inaccessibile per me, adesso, come una stanza nella terra senza né porte né finestre. Quello che rimane all’interno è il mio amore per te.
Voglio che tu riabbia indietro la tua vita.


“Roxas?”
Mh?
“Potrai mai perdonarlo…?”
…no.

“Non ti pare strano che la vita, descritta sempre come ricca e piena, un’avventura
su una pista per cammelli, si riduca a questo mondo qui, grande come una moneta?
Testa su un lato, una storia sull’altro. Qualcuno che si è amato, quello che è successo.
Ecco cosa trovi, se ti frughi nelle tasche. La cosa più significativa è la faccia di un altro.
Che cosa ti è rimasto impresso nelle mani, se non lei?”
“La ami ancora?”
“Con tutto il cuore.”

- Jeanette Winterson, Scritto sul corpo-

La notte è stata freddissima e quando la Gummiship attracca le sue gambe cigolano più del solito. Sta diventando un ferro vecchio. I colori che in parte io stesso ho contribuito a dipingere mi sembrarmi ridicoli. A volte la sento parlare, ha la voce gracchiante di un fumatore incallito e mi dice: “guardiamoci in faccia, sono una grossa pesante vacca stanca. Smantellami. Sono troppo vecchia per le vostre pazzie. ”
A quale stadio del problema sei quando i simboli della tua giovinezza cominciano a parlarti di morte?
Ho duecento cinquant’anni e trascino un osso alla volta giù dalla scala che si estende in un orribile rumore metallico. Chip e Dale saltano come castagne sul fuoco mentre nonostante l’ora s’affaccendano con le supervisioni di rito. Anche loro mi sembrano vecchi. L’hangar cade a pezzi. So che domani mattina dovrò affrontare l’espressione da matrona ferita della regina Minnie ed ascoltare Donald e Daisy che da eterni fidanzati cominciano a pensare seriamente di diventare eterni marito e moglie come se persino il loro tempo dovesse scadere, so che se uscirò in giardino Goofy con la schiena ricurva come sotto il peso degli anni starà guardando la statua di Re Mickey come se guardasse quegli stessi anni scivolargli dalle mani come biglie.
Niente dura per sempre, sei stato tu a dirmelo.
A quindici anni avrei lottato per voi.
Nell’atrio mi sento sopraffare. Questo spazio è immenso e vuoto e per me non significa niente. La nebbia si attacca alle finestre come se volesse entrare. Vorrei vedere Kairi al più presto ma il mio corpo avverte il torpore come dopo una lunga camminata e m’inchioda ad un gradino che è ampio come una strada. Alla fine di queste scale non ci sarete voi a cambiarmi i vestiti e massaggiarmi le spalle dopo una lunga giornata, e le vostre voci insieme non trilleranno alle mie orecchie come il frullio d’ali di una fata.
Forse doveva finire così, ma è giusto? Vorrei ancora addormentarmi sulla sabbia insieme a voi.
“Sora! Sei tu!”
Kairi è affacciata alla balconata e il suo sorriso radioso pugnala a morte il mio ego. Non voglio più essere perdonato, non me lo merito. Voglio che mi prenda a calci e mi dica “o cambi o muori”. Voglio diventare una persona che possa starle accanto sempre. Ma lei mi corre incontro così velocemente che l’unica cosa che riesco a dirle è di non inciampare nella vestaglia. Mi alzo e quando mi si butta tra le braccia la stringo così forte che le sue spalle sembrano ali che si dibattono.
Parla e parla ma non riesco ad ascoltarla. Cerca di trascinarmi ma la sua forza fisica è inesistente intrappolata nella mia. Poggio la guancia sulla sua testa.
“Non l’ho trovato. Ho setacciato ogni mondo ma non l’ho trovato. La gente parla di lui come se fosse già un ricordo. E’ come se Riku fosse scomparso da molto tempo per loro, ma per me? Sento ancora il suo profumo come adesso sento il tuo. L’ho lasciato andare così stupidamente…Vorrei almeno essere sicuro che sarà felice.”
Kairi mi prende il viso tra le mani e mi fissa a lungo. Poi sorride, e mi trascina lungo le scale. Penso che è strano, non vedo Pluto.


Sulla la soglia della nostra stanza, il tuo viso.


Lentamente mi allontano da Kairi e mi avvicino per toccarti.
I contorni del tuo corpo non si sfumano, né sei freddo come l’acqua che conserverebbe il tuo riflesso.
Riconoscerei fra mille la curva spezzata che compie la tua spalla prima d’incastrarsi ai muscoli del braccio.
E’ il tuo cuore che batte sotto le mie dita.
Mi stringi la mano e dici: “Non ce l’ho fatta.”
Mi avvicino ancora e bacio la tua.
Poi il cazzotto che ti do è così forte che ciò che facciamo subito dopo è svegliare qualcuno che sappia steccare un polso e ricucire un labbro.

La storia comincia qui, in questa stanza spoglia.
Le pareti stanno esplodendo. Le finestre si sono trasformate in telescopi.
La luna e le stelle si sono ingigantite in questa camera. Il sole sta appeso sul caminetto.
Allungo la mano e tocco gli angoli del mondo.
Il mondo è impacchettato in questa stanza.

- Jeanette Winterson, Scritto sul corpo-

Sdraiatevi accanto a me, vi ho tenuto il posto come sempre.
Avete mai notato che i sedili sugli autobus sono sistemati due a due? Dove vivevamo noi non esistevano autobus e andavamo a scuola camminando l’uno accanto all’altro.
Sono arrivato più presto del solito e ho acceso delle candele. Le ombre si confinano come cespugli inquieti agli angoli della stanza e le fiammelle vibrando le fanno ondeggiare creandoci attorno un mare buio e silenzioso.
Venite avanti, toglietevi pure quello che siete stati oggi e appoggiatelo dietro alla porta dove sapete. Siamo solo noi tre, qui: possiamo anche non essere niente per mezz’ora. Voi arrivate e il materasso scava una tana attorno ai nostri corpi. Io tocco con la punta delle dita la cicatrice che ti ho lasciato vicino all’angolo sinistro delle labbra. Rimaniamo pure qui tutta la notte a studiarci, a contarci le vertebre. Controlliamo di essere intatti, a posto, curiamoci l’uno dell’altro come fanno gli animali. Loro vivono in branco e sono felici. Nessuno vuole addomesticare le loro unioni. Perché la cosa più spontanea che l’uomo crea deve essere anche la cosa a cui l’uomo per paura deve porre le maggiori restrizioni?
Abbiamo provato a dividerci, ma abbiamo anche continuato a porgere il polso e tu, come un falco, alla fine sei arrivato. Dobbiamo necessariamente dedurne che è così che deve andare, non è vero? E se non deve, è così che noi la faremo andare.
Mi ricordo una sera che il mare era nervoso e le onde erano schiumose e bianche. Guardandolo mi hai detto: “A volte mi fate paura.”
“Perché?”
“Perché parlate come tutto fosse infinito e ogni cosa eterna.”
“E non è così?”
Cominciò a piovere ed io scoppiai a ridere. I nostri genitori ci avevano appena ripudiati e quelli erano comunque i giorni più felici della mia vita. “Andiamo a prendere Kairi e facciamo una passeggiata?”
Non ci pensasti un attimo a dirmi di sì.
Le palme si agitavano flettendosi come il corpo di una fionda. Un frutto di Paopu si staccò dall’albero e cadde in acqua col tonfo sordo di un sasso. Ancora adesso non so che sapore abbiano e non m’interessa. La terra che li genera è la stessa che ci ha generati. Anche se non abbiamo una casa noi siamo quella terra. La nostra casa siamo noi. Siamo Riku, Sora e Kairi. Niente di più.

Viviamo in una gabbia maestosa per canarini, adesso, una libertà delimitata dall’ombra che proietta una bandiera come una volta era stato il mare. Adesso sappiamo che cosa c’è altrove. Mi chiedo ancora se sappiamo abbastanza. Non possiamo costruire zattere che solchino quest’erba fiorita al punto da non poterla toccare, e quando proviamo a correre veniamo sgridati. Fingiamo di essere qualcosa che non siamo la maggior parte del tempo, diamo a persone che non se lo meritano quello che vogliono ogni giorno ed è una porta chiusa a chiave il nostro rifugio segreto, là dove c’era una spaccatura nelle rocce fredde e fronde selvagge che odoravano di menta. La sabbia è diventata marmo e le onde mura bianche, e quando alziamo gli occhi non scorgiamo la sfumatura delle nuvole che si diradano, ma sfarzosi lampadari pesanti come ogni cosa è pesante, qui. Siamo rinchiusi in una fiaba dalla quale non possiamo uscire.
Ma ci siamo innamorati sotto il cielo aperto, e questo niente lo può cambiare.

***

Note dell’autrice
Bah XD Questa storia è completamente inutile, è soprattutto colpa di Selina se l’ho finita XD Però beh, le voglio bene <3 Volevo pacioccare un po’ <3
L’idea per questa fic è nata tempo fa, per una fic diversa, però. Poi ho pensato di fare una cosa diversa, ispirandomi ad una delle mie autrici preferite: Jeanette Winterson. Veramente si è ripetuta fino allo stremo XD ma per moltissimi motivi continuo ad amarla e mi ha insegnato molto. Naturalmente non sono brava la metà di lei (anche perché lei ha quasi cinquant’anni, mi sembra pure ovvio XD) e non ho la pretesa di scrivere come lei, anche perché sarebbe assurdo, ma ho cercato di prendere come riferimento il modo in cui ha spesso scandito lei il tempo cronologico e quello narrativo nei suoi romanzi.
Questo è un omaggio/citazione a lei.
Inoltre sono soddisfatta perché sono riuscita ad usare tanti personaggi e mondi Disney XD e perché stiamo parlando in fin dei conti di una lunga lettera d’amore all’amore. Questa è la cosa più schifosamente melensa che abbia mai scritto, vi autorizzo tutti a vomitare XDD Sono così cialtrona *_* Mai titolo fu più azzeccato –ed è anche in questo caso ispirato ad una canzone di Tori Amos, Honey, appunto, che adoro (e che ha fatto al concerto di Milano <3).
AH, le poesie di Mulan non sono mie, chiaramente, ma poesie cinesi di cui vi darei volentieri gli autori se li ritrovassi *_*" Google a me XD
Concludo ringraziando come al solito Selina, che ne ha letto ogni singolo pezzetto appena dopo scritto (tranne l’ultima parte ;_; torna ;_;!) <3

La fic fa parte dei miei 35 Flowers per True Colors.

  
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