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Autore: Nikki Kurenai    31/01/2013    0 recensioni
La vita scorre lenta nell'Erebo. Qui non esiste il tempo perché non si può scandire con le ore, i minuti e i secondi l'Eternità. L'Erebo è questo: una condanna eterna.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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…and from there I crawl beneath Lucifer's claws.

 
A colei che mi ha salvata quando ormai credevo di non potercela più fare.
Grazie.

 

 
La vita scorre lenta nell’Erebo. Qui non esiste il tempo perché non si può scandire con le ore, i minuti e i secondi l’eternità. L’Erebo è questo: una condanna eterna.
Eterno. Cos’è l’eternità?
Me lo domando spesso mentre le mie gambe arrancano per volontà propria lungo sentieri che non portano da alcuna parte.
La notte, se esiste una notte in questo luogo senza alternanza dell’alba e del tramonto, mi soffermo a pensare spesso al concetto di “eternità”.
È un’eternità particolare perché il comune concetto di eternità impartisce il seguente ordine: “io esisto da sempre.”
Sempre. Un altro termine che la mia mente non è capace di concretizzare.
Invece la mia eternità ha avuto un inizio ben preciso. Com’è stato possibile che l’eternità abbia avuto un inizio se la sua legge base è quella di esistere da sempre? Mi domando, mentre rotolo giù per un dirupo che non ha fine, abbandonandomi all’effetto centrifugo che il movimento provoca, nella speranza di far centrifugare anche i miei pensieri, di lavarli e rimpicciolirli come dei capi in lavatrice.
Questo luogo è quasi incolore, insapore e inodore: non ci sono persone che sorridono con la voglia di vivere negl’occhi; non vi è un cielo tinto di rosa e dorato come all’alba che conoscevo, di azzurro chiaro a mezzogiorno, di blu cobalto quando giunge la sera, e di blu notte quando il cielo chiude il suo sipario, accendendo piccole lampadine chiamate “stelle”; non vi sono sogni, speranze, obiettivi, scopi perché qui, tutto ciò che conferisce felicità viene considerato un abominio, un male da estirpare alla radice; non vi sono arcobaleni di sette colori ma sfumature di sette peccati; non vi è il verde dei boschi, i colori pastello dei fiori, il verde acqua del mare che si confonde con il cielo.
Gli uomini sono portati a pensare che l’Erebo sia quell’Inferno descritto dai cristiani in cui vi sono mostri spietati che si divertono a torturare le anime, si parla della cosiddetta “dannazione eterna.”
Non è propriamente così. L’Erebo in cui risiedo io è la rappresentazione onirica dei miei peccati e, qui, sto affrontando le conseguenze delle mie scelte. È un’eternità che ho scelto io, inconsapevolmente, perché se mi fossi soffermata anche solo un attimo a pensare seriamente a cosa mi avrebbe riserbato il futuro, non avrei mai intrapreso questo viaggio. La luce che intravidi quando decisi di intraprenderlo si è affievolita nel tempo, non percepisco quasi più il calore di quella fiammella che ancora arde dentro di me ed anche se la percepisco il calore rincuorante viene subito spento dalla fredda ragione. Il fuoco che, nella maggior parte dei casi, divampa dal mio petto non è altro che il dolore atroce e lancinante di un cuore ormai stanco di soffrire. Ed è buffo, perché qui io sono solo un’anima, comune, come tutte.
Io mi chiamo Ayumu. Sono giunta in questa landa desolata circa cinque anni fa. Fui tratta in inganno da un demone travestito da angelo che, con uno smagliante sorriso, mi trascinò lentamente nelle sabbie mobili di questo luogo. Mai e poi mai avrei pensato che dietro cotanta meraviglia si nascondesse la rovina della mia vita. Ed era bello. Lo è ancora. Ma con tutto il fuoco che divampa dal mio petto, non riesco a percepire completamente i miei sentimenti per lui, il mio cuore è in fiamme.
Ayumu significa “colei che cammina nei sogni”. Mentre cammino lungo un sentiero buio illuminato solo da qualche candela che si spegne appena le vado oltre, sorrido tra me pensando che il mio cammino è fatto di incubi. Ed è buffo anche questo, perché le fiamme del mio petto non riescono ad illuminarmi il cammino. Mi accecano la vista ma non producono luce. Uno dei tanti misteri di questo luogo. Non cammino nei sogni che tanto avevo desiderato poter realizzare da un bel po’ ormai ma, come già mi sono ritrovata a pensare molto più di mille e passa volte, la percezione del tempo qui non esiste. Mi sembra ieri quando lo vidi, quando vidi per la prima volta colui che avrebbe fatto di me un’anima dannata. Un altro aspetto buffo di tutta questa situazione è che tutto ciò è una condanna che mi sono autoimposta di vivere quando capii che non avrei avuto altra via d’uscita se non scegliere questa vita come via di “salvezza”. Ciò che mi tiene ancora legata a lui è questo dolore. Anche in illo tempore mi ritrovai sperduta per una selva oscura e fu lui, quella bizzarra e straordinaria creatura, a salvarmi e a prendersi cura di me. E dopo avermi curata, forgiata, cresciuta, formata nella mente e nel cuore mi ha donato un sentimento: l’Amore.
Calpesto con i piedi nudi quelli che sembrano chiodi al tatto.
Sento dolore.
Sanguino.
Ma procedo ugualmente.
Quando imparai a convivere con quel sentimento, mi fece dono di un altro regalo: la Ragione. Fu forse l’unico regalo che non volli mai. Cosa c’era di tanto esaltante nel ragionare sui propri sentimenti? Suoi sentimenti non si fa alcun ragionamento, sono strumenti di vita che vanno utilizzati per vivere, appunto. Dovevo vivere l’amore, non comandarlo. Il mio modus vivendi andò a farsi fottere con la più puttana delle bagasce quando capii che stavo perdendo l’equilibrio, quando capii che il mio mondo stava perdendo i suoi sfavillanti colori, quando capii che stavo soffocando nel mio stesso sentimento.
Corro nell’oscurità, veloce…sempre più veloce. Taglio l’aria che non c’è con la velocità del mio “corpo”.
Quasi non tocco più terra.
E corro, corro ancora, ad una velocità smisurata.
Non ho un corpo, è la voglia di evadere della mia anima da questo luogo che mi fa correre così.
Tocco il sentiero con la punta delle dita dei piedi.
Ora non lo sento più.
Spicco il volo.
Non ho ali ma solo la leggerezza e la convinzione di farcela.
Mi slancio nell’oscurità.
Per pochi, brevi ma intensi, secondi brancolo nel buio ma mi sento libera.
Mi sento sganciata dalla terra.
Poi perdo l’equilibrio. Ancora.
Perdo la speranza. Ancora.
Perdo la voglia di provarci. Ancora.
Cado.
Come un Angelo caduto cacciato dal Suo Regno.
Cado per quelle che dovrebbero essere ore.
Poi mi schianto.
Sento il corpo lacerarsi, sento ossa spezzate sotto il mio stesso esile peso, sento i polsi piegarsi in modo anormale, sento una spalla spostarsi verso la colonna vertebrale, sento un piede rompersi, sento metà viso spappolato.
Rimango così, a terra, una terra fredda.
Il mio occhio sinistro, che si muove a stento, è semiaperto e scruta l’oscurità con rassegnazione. Sento in me la voglia di rialzarmi ma la soffoco, la reprimo con tutte le forze mentali di cui ancora posso usufruire e rimango, inerme, a terra. Mezza morta.
Poi lo realizzo. Sì, lo realizzo ancora: io sono un’anima.
Chiudo l’occhio e dopo quelli che sarebbero minuti, lo riapro.
Sono in piedi. Non ho un graffio: il volto è a posto, le ossa a posto, ogni parte del mio “corpo” è a posto. Tranne il cuore, quello è con lui.
Continuo a camminare, non sapendo cos’altro fare.
Così come mi accade tutte le benedette volte, stavolta non ci sono le candele lungo il mio percorso. O meglio, ci sono, ma sono tutte spente.
Non riesco a fermare i miei pensieri neanche dopo la mia caduta. Come sempre.
Eccoli che riprendono a vorticare nella mia materia grigia che sta andando lentamente in putrefazione. Ah già, non può. Non ho un corpo. Me ne dimentico tutte le sante volte.
Porto le mani davanti ai miei occhi e cado in ginocchio. Disperata.
Rivedo il sangue, le lacrime, i tormenti del mio equilibrio scivolatomi dall’anima come olio su un piatto d’argento inclinato a 45 gradi. Cominciò quella che, purtroppo, è una delle mie amiche-nemiche più fedeli: l’incoerenza. Non riuscivo più a distinguere il bene dal male, il giusto dallo sbagliato, il bianco dal nero, il dolce dall’amaro. Niente.
E poi arrivai qui.
Qui.
Potrei andarmene in qualsiasi momento.
Dovrei solo…smettere di amarlo.
Mi rialzo a stento, reprimendo tale pensiero.
Mi ha insegnato lui l’incoerenza, la contraddizione.
Mi ha salvata e condannata in questo luogo.
Mi ha preso il cuore ed ha fatto in modo che l’amassi ed ora, l’unico modo per evadere da qui, è smettere di amarlo.
Non è forse uno dei più perversi giochi dell’amore?
Mi fermo. Respiro lentamente, immaginando come debba essere respirare veramente aria pura.
Realizzo ancora un’altra cosa: lui mi ha dato in dono la Ragione per capire quanto fosse sbagliato amarlo. L’ha fatto per me.
Fiamme ardenti, possenti divampano nuovamente dal mio petto. Il cuore si consuma lentamente come i polmoni di un fumatore dipendente da due pacchetti di sigarette al giorno. Ma è una lentezza che allo stesso tempo va veloce.
Non ce la faccio, ricado in ginocchio e afferro la mia testa tra le mani nel tentativo di staccarmela ed urlo. Riproduco in maniera disumana il suono dell’Urlo di Munch.
Urlo, ed urlo, ed urlo ancora più forte fino a quando le fiamme non s’impossessano di tutto il mio “corpo”.
Ma non muoio.
Perché maledizione, in quest’Inferno dannato non muoio?
Dammi la morte dannato Angelo, dammi la morte.
Dammi la morte. Dammi la morte. Fammi morire, fa’ morire quanto di umano ancora ho.
Perché sei arrivato nella mia vita, senza permesso, e mi hai fatto dono di quei regali? Perché? Perché? Perché? Perché ti ostini a tenermi prigioniera qui? Perché? Perché non mi lasci andare? Perché? Ridammi la mia vita con i suoi colori, i suoi odori, i suoi sentimenti che non causano dolore.
Annaspo nel tentativo, vano, di spegnere con le mie nude mani le fiamme che fuoriescono dal mio petto.
Maledetto, maledetto meraviglioso Angelo.
Crollo a terra. Ma non esalo l’ultimo respiro. Non è consentito qui morire, me ne ricordo solo ora. Sono troppo presa dal mio tormento interiore per dar peso al resto del mondo.

Poi la vedo.
Vedo un’altra…anima.
Attraverso le ormai alte fiamme del mio petto che non mi permettono di rialzarmi, la vedo.
Sta passeggiando.
Mi correggo, sta camminando a passo veloce ma composto.
Viene verso di me.
E sta…sorridendo.
Rallenta il passo quando ormai è giunta da me.
S’inginocchia e mi guarda, in silenzio, sorridendo ancora.
Dopo tanto, dopo quella che davvero potrei definire “vita”, ascolto il suono della mia voce.
-creatura sconosciuta, come sei in grado di sorridere in questo posto in cui nulla è permesso se non soffrire?
Non risponde.
Sorride ancora. Mi fa dono di una carezza sul volto.
-fa’ attenzione, potresti incenerirti.- dico col poco di fiato che ho ancora.
Scuote la testa. La sua “mano” non si scotta.
-ah certo, sei priva di corpo…come me.
Poi si avvicina. Temevo mi baciasse sulla fronte sudata, invece mi sussurra parole sconvolgenti all’orecchio:
-tu sei causa del tuo male.
Spalanco gli occhi.
Il tutto accade in una frazione di secondo.
Niente fiamme, niente dolore al petto, niente sudore, niente voglia di urlare, niente frustrazione, niente paura, niente angoscia, niente vergogna. Niente.
Apatia.
Ci ritroviamo sedute a terra.
Attorno a noi vi è un cerchio fatto di fiamme. Fiamme più possenti delle mie.
La guardo, la fisso con insistenza.
-cos’è accaduto poc’anzi?
-Ti ho salvata.- ammette sorridendo, senza modestia, con una voce calma e sublime.
-e cos’è questo cerchio attorno a noi?
-è il nostro dolore fuso insieme.
Sono confusa. Il “nostro”?
-per chi soffri, tu, dolce creatura se hai la forza di sorridere?
China la testa e il suo sorriso si aggrava leggermente.
-un Angelo mi ha salvata e poi mi ha trascinata qui. Grazie alla ragione di cui mi ha fatto dono, però, ho capito che tutto questo l’ho voluto io.
La guardo allibita. L’ha voluto lei? Com’è possibile desiderare questo Inferno?
-come puoi aver voluto tanta disperazione?
-non l’ho voluta. Non lo sapevo, all’inizio del viaggio. L’ho scoperto dopo. Amarlo è stato il più bell’errore di tutta la mia vita.
Per la prima volta, dopo tanto tantissimo tempo, sento un battito nel mio petto.
-sei innamorata…di colui che ti ha condannata a tutto questo?
-Non so se è amore o no. So solo che amarlo senza essere amata mi ha portata qui. È un luogo che noi abbiamo creato e da cui solo noi possiamo uscire, lo capisci?
-vuoi dire che…l’unico modo per uscire davvero di qui è smettere di amare chi dapprincipio ci ha salvate?- dico con voce strozzata, riprendendo quel pensiero soppresso.
-esattamente. Anche tu stavi pensando a questa soluzione?
-in questo posto i rimpianti, i rimorsi, le angosce, le paure e quanto di più doloroso ci sia, mi tengono compagnia e si “materializzano” in pensieri.
Restiamo in silenzio per “un’eternità”, poi prendo la parola.
-tu sei pronta a rinunciare ai tuoi sentimenti verso il tuo Angelo?
-tu lo sei?
Abbasso gli occhi, confusa e frastornata.
Non rispondo.
Rialzo lo sguardo e la trovo a fissarmi. Non sorride più.
Lentamente, alzo la mano sinistra verso di lei e lei alza la sua mano destra verso me, come se fossi di fronte ad uno specchio.
Mi spaventa.
Ritraggo la mano.
Ci riprovo, senza parlare, senza proferire parola ma la guardo. E lei pure.
Ci tocchiamo le mani. La sento calda.
-chi sei?
Le domando quasi intimorita.
-io mi chiamo Ayumu.
Stringo la sua mano e lei stringe la mia.
Spalanco gli occhi per lo sgomento ma non mi allontano da lei.
-e tu? Chi sei tu?
-io…io sono Ayumu.
Anche lei spalanca gli occhi.
E accade qualcosa di emozionante, travolgente e tremendamente splendido.
Scoppiamo a ridere. Entrambe. Insieme.
Le fiamme s’innalzano ancora.
E noi due ci teniamo strette le mani.
E’un inizio.
Poggio la fronte sulla sua e lei lo fa con me.
Le fiamme ci avvolgono.
Ci feriscono ma siamo già diventate l’una lo scudo dell’altra.
 
E da lì ho strisciato sotto gli artigli di Lucifero.
   
 
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