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Autore: EvgeniaPsyche Rox    31/01/2013    7 recensioni
Roxas non amava immergersi troppo nelle cose, nelle situazioni e nelle persone; proprio per questo non aveva mai coltivato una passione particolare. Preferiva cambiare, svolgere incarichi differenti, passare il tempo in maniera sempre diversa; insomma, detestava fossilizzarsi su qualcosa.
Lo detestava, lo detestava con tutto se stesso e in quel periodo più che mai perché l'unica dannatissima volta in cui si era immerso troppo, l'unica volta in cui si era avvicinato eccessivamente ai fondali marini, era annegato.
Era pazzesco come da quella volta fossero scattati una serie di meccanismi che avevano reso la sua vita un inferno; una trappola, era una vera e propria trappola che a sua volta ne aveva fatte azionare una decina, una dopo l'altra.
E lui stava soffocando per davvero in mezzo a tutte quelle trappole, in mezzo alla sua stessa vita.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Axel, Roxas
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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Stelle malinconiche.


«Perché bisogna considerare il cielo come una sfera? Non ha alcun senso.»
«Non saprei... Ma che ti importa, scusa?»
«Mi importa, mi importa eccome. Perché la scienza deve sempre cercare di dare una spiegazione a qualsiasi cosa? Il cielo non è una sfera. Sopra di noi c'è l'infinito, non una maledettissima sfera. Infinito ed eterno. Sono concetti così difficili?»
«No, il fatto è che spaventano perché non hanno alcuna spiegazione logica. Cos'è l'infinito? Cos'è l'eterno? Nulla. Nessuna legge. E' questo che spaventa davvero.»


Giocherellò con il bicchiere per un tempo che sembrò davvero interminabile, quando uno schiocco di dita attirò improvvisamente la sua attenzione, costringendolo ad alzare di scatto lo sguardo evidentemente stanco e perso. «Che c'è?»
«Vuoi fare un altro giro?». In realtà Roxas non riuscì a udire realmente le parole del barista, semplicemente le capì perché lesse il linguaggio delle labbra. Sospirò piano, un suono impercettibile in mezzo al caos e alla musica, e annuì, porgendo il bicchiere vuoto che, in pochi secondi, venne nuovamente riempito da una bevanda rossa.
«Hai una faccia da funerale, lasciatelo dire. Cos'è, ti ha mollato la ragazza?», lo schernì un po' diabolicamente l'uomo dall'altra parte del bancone, servendo, nel frattempo, altri clienti.
Il ragazzo scosse la testa, massaggiandosi le tempie prima di svuotare per la terza volta il bicchiere. «Fossero quelli i problemi della vita.»
Il barista sembrò trovare la sua risposta particolarmente divertente perché si lascio sfuggire una risata acuta; strofinò un vecchio straccio all'interno di un bicchiere di vetro e ridacchiò di nuovo, riprendendo la parola. «Eppure la maggior parte delle persone che viene in posti del genere lo fa per dimenticare i vecchi amori.»
«La maggior parte», sottolineò Roxas con aria apatica.
«E il resto della gente perché viene qui secondo te, sentiamo?»
L'altro sbuffò sonoramente con il naso e porse il bicchiere, scuotendo la testa non appena l'uomo fu sul punto di tirare fuori un'altra bottiglia di vino; si mise una mano sullo stomaco e deglutì rumorosamente, sentendosi preso da fastidiodissimi capogiri. «Perché sono frustati sessualmente, perché non hanno un cazzo da fare, perché la loro vita è una merda e cercano di sfogarsi in questi posti da incubo. O perché sono dei maniaci barboni di merda e per loro questo è il luogo migliore in cui fare qualche stronzata.»
«E tu a quale categoria appartieni?»
Roxas assunse un'espressione pensierosa, nonostante la risposta già la conoscesse; appoggiò i soldi sul bancone e scese dallo sgabello, infilandosi poi le mani in tasca. «Non saprei», borbottò prima di voltarsi. «Forse alla prima categoria, quella a cui appartengono la maggior parte delle persone.», e abbandonò il locale, ignorando il fatto che l'altro lo avesse sentito o meno.



«Non avevi detto che oggi te la saresti bottata?»
«Cosa?»
«La scuola», bisbigliò il suo vicino di banco, punzecchiandogli il gomito con la penna. «ieri mi avevi detto che oggi non saresti venuto, eppure eccoti qui.»
«Cos'è, da adesso è vietato perfino cambiare idea?»
«Silenzio!», tuonò improvvisamente l'imponente voce dell'insegnante, richiamando così l'attenzione dei due diretti interessati, i quali serrarono immediatamente le labbra. «Altrimenti non ci metterò molto a sbattervi fuori dalla classe come l'ultima volta.»
Non appena la professoressa tornò a spiegare con la sua solita aria apatica e annoiata, Hayner si voltò nuovamente verso il compagno, mimando con le labbra il fatto che, presto o tardi, l'avrebbe mandata certamente a quel paese.
L'altro accennò un mezzo sorriso divertito e riprese a scarabocchiare degli appunti incomprensibili sul proprio foglio, sospirando di tanto in tanto.
Roxas Hallez era un ragazzo ormai prossimo ai diciannove anni, nonostante la sua minuta statura e il suo volto dai lineamenti leggermente infantili facessero pensare ad un sedicenne al massimo; eppure con i suoi capelli disordinati e biondi come la cenere, i suoi occhi grandi e blu come l'oceano, le sue gote un poco arrossate, era estremamente facile che attirasse l'attenzione delle ragazze.
Ma a lui non importava granché, o almeno, non rientrava nelle sue principali priorità.
Pasticciò ripetutamente il foglio con la biro nera, quando Hayner iniziò a tirargli diverse gomitate; Roxas allora si voltò di scatto, alquanto infastidito, accorgendosi solo successivamente della presenza della professoressa proprio sopra la sua testa, la quale aveva un'aria tutt'altro che amichevole.
«Bene, fuori di qui. Immediatamente.»
Il diretto interessato si limitò allora ad alzarsi di scatto, chiudendo il quaderno e infilandolo in malo modo all'interno della cartella di pelle; mormorò qualche imprecazione poco carina a denti stretti e si fece spazio tra le gambe dei suoi compagni, ignorando i sussurri che si stavano scambiando.
Successivamente alzò appena la testa in cenno di saluto verso il suo compagno e uscì dalla grande aula, ritrovandosi immediatamente sotto un portico; raggiunse in pochi minuti il cortile e lanciò con forza la cartella sopra una piccola panchina di legno, imprecando a gran voce prima di tirare un pugno contro il muro.
Eppure lui ci provava, era pronto a giurare di fronte a Dio che ci provava; ci provava con tutto se stesso a seguire le lezioni, ad andare normalmente all'università, a studiare tutto il pomeriggio, a svolgere correttamente gli esami senza incazzarsi dopo meno di un quarto d'ora per poi strappare il foglio ed andarsene.
Ma niente. Più ci provava, più si impegnava, più tutti i suoi sforzi finivano nel gabinetto.
Si infilò le mani tra i morbidi capelli dorati e si morse furiosamente il labbro inferiore, continuando ad imprecare, a maledirsi, a maledire gli studi, il suo futuro infranto, i suoi sogni finiti, il mondo, la gente che lo circondava.
La gente.
Quell'ammasso di carne, ossa, pelle, volti, identità, atteggiamenti e comportamenti.
Quell'ammasso fatto di così tanto, davvero tanto, eppure troppo poco per lui, per le sue esigenze, per i suoi problemi.
Nessuno possedeva la chiave giusta. O meglio, l'unica persona che ce l'aveva, sembrava averla persa per sempre.




La sua vita non era sempre stata un fiasco; certo, vi erano stati momenti bui, altri più allegri, alti e bassi, sole e pioggia, come la vita di tutti, in fondo.
Aveva avuto i suoi ideali, un suo punto di vista personale per ogni situazione e amava metterlo in mostra in classe, a scuola, negli studi; sognava un futuro radioso e l'università era stata per lui, fin da bambino, un traguardo essenziale per raggiungere tutti gli scopi successivi della sua vita.
O almeno, una volta era così.
Roxas non amava immergersi troppo nelle cose, nelle situazioni e nelle persone; proprio per questo non aveva mai coltivato una passione particolare. Preferiva cambiare, svolgere incarichi differenti, passare il tempo in maniera sempre diversa; insomma, detestava fossilizzarsi su qualcosa.
Lo detestava, lo detestava con tutto se stesso e in quel periodo più che mai perché l'unica dannatissima volta in cui si era immerso troppo, l'unica volta in cui si era avvicinato eccessivamente ai fondali marini, era annegato.
Era pazzesco come da quella volta fossero scattati una serie di meccanismi che avevano reso la sua vita inferno; una trappola, era una vera e propria trappola che a sua volta ne aveva fatte azionare una decina, una dopo l'altra.
E lui stava soffocando per davvero in mezzo a tutte quelle trappole, in mezzo alla sua stessa vita.
Si accese una sigaretta e aspirò il fumo a pieni polmoni, iniziando subito dopo a tossire; si mise una mano sulla bocca e scivolò lungo la ringhiera, socchiudendo gli occhi arrossati.
Non gli era mai piaciuto particolarmente l'odore del fumo e proprio per questo ogni volta che i suoi amici gli avevano offerto una sigaretta, lui, prontamente, l'aveva rifiutata; non riusciva proprio a capire il senso di andare a cercarsi una cattiva abitudine per risolvere i propri problemi. O almeno, risolverli apparentemente, perché poi non cambiava niente di niente. Masochismo umano? Probabile.
Si infilò la sigaretta in bocca e lasciò che la propria vista si annebbiasse a causa del fumo; poi tossì ancora, questa volta però meno forte della precedente, e appoggiò la testa contro la ringhiera, alzando gli occhi al cielo limpido e stellato.
E da quando era annegato, aveva iniziato per la prima volta a coltivare una piccola passione; un amore nato in mezzo alla cenere, un fiore sbocciato nel fango sporco, una bambola rosa tra i resti di un edificio distrutto.
Aspirò il fumo e tossì appena; fu però un gesto meccanico perché gli parve davvero che i suoi sensi si stessero abituando alla nicotina.
Un piccolo salvagente che però non salvava per davvero; eppure ci si aggrappava lo stesso, giusto per restare a galla, almeno per un po'. Non lo avrebbe mai riportato a riva, di questo ne era perfettamente consapevole, ma sempre meglio che annegare.
O forse no.
Roxas aveva cominciato a guardare la notte, le maestose stelle. Aveva iniziato ad appassionarsi ai pianeti, all'Universo, all'immenso, all'infinito e all'eterno.
Ancora fumo; il sapore era sempre amaro, gli pungeva la gola, ma in qualche modo sembrò calmarlo veramente.
All'inizio aveva cercato informazioni riguardanti le stelle principalmente su Internet, o magari in biblioteca, tra i libri; le prime volte aveva trovato tutto estremamente interessante e la sua mente non si stancava mai di divorare pagine intere ricche di parole riguardanti gli astri e i pianeti.
Ma poi, lentamente, la sua attenzione cominciò a calare; man mano che andava avanti, i suoi occhi parevano sempre più annoiati, spenti, le labbra assumevano una smorfia amara e la sua fronte si corrugava in un'espressione scocciata.
Non erano propriamente le stelle ad annoiarlo, no, assolutamente no; erano i libri, le ricerche su Internet, ciò che c'era scritto. Tutto aveva incominciato a ricadere nel monotono, nel pesante; si intromettevano dannatissimi calcoli di fisica e matematica, diametri, sfere, meridiani, paralleli, insomma, cose che non gli interessavano minimamente.
Un giorno in particolare, aprendo l'ennesimo libro di astronomia, aveva letto di questa famigerata sfera celeste; aveva letto di una certa declinazione, dell'ascensione retta, e così aveva chiuso in meno di cinque minuti il libro, abbandonando la biblioteca per non ritornarci mai più.
Sfera celeste? Aveva sperato vivamente che fosse uno scherzo di cattivo gusto. Il cielo non era una sfera, avrebbe voluto scrivere su quella dannatissima pagina con un pennarello indelebile; poco importava se agli abitanti della Terra pareva così, non lo era, non lo era comunque. Il cielo era indefinito; era semplicemente qualcosa che correva all'infinito, uno spruzzo di colori che era presente ovunque, in alto, nell'eterno, per sempre e oltre, un nero costellato da punti luminosi, pianeti, galassie, costellazioni.
Aveva appreso le informazioni essenziali sull'astronomia, quelle più interessanti, tutto ciò che era certo e credibile; dopodiché aveva smesso di aprire libri e di accedere ad Internet. Qualche settimana fa era arrivato ad un punto in cui si era stufato di leggere parole a cui non credeva, parole che considerava assurde, e allora si era imposto di continuare a coltivare quella passione per conto proprio; si sarebbe accontentato di semplici osservazioni notturne durante le sere in cui il sonno non lo sfiorava nemmeno; si sarebbe accontentato della sua fantasia, delle sue ipotesi intrise di immaginazione.
E quello fu anche il motivo per il quale non cambiò università; nonostante la sua passione per gli astri e l'universo, era piuttosto sicuro che sarebbe impazzito in un'aula in cui i professori costrigevano gli alunni a studiare informazioni di astronomia che considerava assurde.
Terminò la sigaretta e la spense sulle gelide piastrelle del balcone; socchiuse gli occhi e inclinò la testa all'indietro, lasciando che l'aria gelida della notte gli schiaffeggiasse il volto, i capelli, la pelle, per poi penetrargli fino alle ossa.





Aveva perso il primo anno di università e, nonostante fossero passati più di cinque mesi, sua madre non lo aveva ancora perdonato per questo.
Tutto ciò aveva fatto nascere nell'animo di Roxas una sorta di odio e rancore nei suoi confronti; certo, rimaneva sempre sua madre e sapeva che aveva fatto molto per lui, ma non riusciva a capacitarsi come proprio lei, la donna che si era preso cura di lui fin dalla sua nascita, lo avesse abbandonato nel momento del bisogno, senza provare neanche a capire, a chiedere spiegazioni, a lanciare un salvagente, qualcosa, qualsiasi cosa, pur di aiutarlo a tornare a riva.
Ma nulla. Non lo aveva sgridato, né si era messa ad urlare e, probabilmente, fu proprio quello a farlo stare peggio; avrebbe preferito ricevere uno schiaffo, avrebbe preferito litigare, discutere tutta la notte e urlare, invece di vedere il volto di sua madre in lacrime, mentre sui suoi occhi vi era dipinta la delusione, tagliente e dolorosa in tutto il suo essere.
E Roxas non aveva detto nulla, quella sera. L'aveva osservata a lungo, minuti interminabili, un silenzio interrotto solo dai singhiozzi di lei, e poi se n'era andato, chiudendo la porta dietro di sé per sempre.
Non la cercò più. Glielo impedì il suo orgoglio, il suo dolore, la sua rabbia, le sue trappole. Aveva sofferto a lungo per il fatto che lei, invece di chiedergli la ragione della sua bocciatura, lo aveva guardato piena di sofferenza, come se avesse partorito un errore e non un figlio.
Perché, si chiedeva ogni notte, osservando il cielo, perché se l'era presa tanto? Era maggiorenne ormai, stava entrando nel mondo degli adulti, era padrone di se stesso, la sua vita gli apparteneva, non era più un liceale o un ragazzino delle medie che doveva essere messo in punizione per aver preso un votaccio.
Ma non ricevette alcuna risposta, come sempre, e allora lasciò perdere, proprio come aveva fatto con i libri di astronomia.
Un sapore alla fragola lo distrasse dai suoi pensieri, riportandolo alla realtà; si accorse di una mano appoggiata sulla sua coscia sinistra, mentre le sue labbra venivano torturate ripetutamente dalla lingua della persona con la quale aveva deciso di passare la serata.
«Sei bellissimo, davvero», gli bisbigliò dopo averlo baciato per una manciata di secondi, sorridendo lievemente con le iridi lucide; lui non si mosse di un centimetro, limitandosi a mantenere lo sguardo fisso sui suoi capelli: i suoi lunghi e moribidi capelli rossi.
Roxas sentì le budella contorcersi in una morsa estremamente dolorosa; chiuse di scatto le palpebre e si allontanò appena, massaggiandosi le tempie con aria stanca. «Scusami, mi sento poco bene.»
«Non ti preoccupare», si affrettò a tranquillizzarlo lei senza smettere di sorridere. «ti capisco. Se hai bisogno di piangere, io ci sono, lo sai. Posso abbracciarti. Mi piace un sacco il tuo profumo e... E i tuoi occhi sono... Sono così uguali a quelli di tuo fratello.»
Roxas si voltò verso la ragazza, notando che le sue iridi si stavano facendo sempre più lucide; vide i suoi occhi azzurri luccicare come due astri prima che iniziasse immediatamente ad asciugarli con un fazzoletto di carta profumato. «Che stupida, perdonami, non so che cosa mi sia preso.»
Il ragazzo scosse leggermente la testa, appoggiando le spalle sullo schienale del divano. «Non hai niente di cui scusarti.»
Kairi sorrise di nuovo in risposta, ma Roxas non vide altro che tristezza e malinconia in quella piega amara; sembrava una ferita sul volto che ancora bruciava e ogni volta che tentava di sorridere faceva più male, mille volte più male.
«Non devi sorridere per forza», borbottò allora il biondo, stringendosi appena le spalle. «Faresti meglio a piangere, te lo assicuro.»
Kairi stropicciò nervosamente il fazzoletto e uccise un singhiozzo con la mano sinistra; chiuse di scatto le palpebre e decise finalmente di lasciarsi andare, permettendo ai propri occhi di lacrimare in tutta tranquillità.
All'inizio fu un pianto silenzioso, tranquillo, come quello di un qualsiasi adulto; poi divenne più forte, la pioggia si trasformò in tempesta e Kairi gemette dal dolore, singhiozzò, mormorò frasi sconnesse e tentò di asciugarsi le lacrime nonostante continuassero a crearsene di nuove.
Pianse come una bambina, una bambina che si era sbucciata dentro.
Roxas la guardò a lungo, indeciso sul da farsi; non aveva la più pallida idea di come consolare un cuore infranto, soprattutto se quest'ultimo apparteneva ad una ragazza.
Sospirò pesantemente e allungò la mano sinistra sulla spalla di lei, massaggiandogliela con dolcezza in segno di affetto; quando gli occhi di Kairi si voltarono verso i suoi in segno di ringraziamento, ebbe il forte di desiderio di sorridere, ma, con suo grande rammarico, non ci riuscì proprio.
Kairi amava davvero tanto suo fratello Sora e di questo ne era più che certo; il suo era uno di quegli amori rari, quelli che si incontrano una volta ogni cent'anni, se va bene. Quegli amori che sbocciano negli anni dell'infanzia e si portano avanti fino alla maturità. Quegli amori delicati, fragili, un diamante che dev'essere custodito, una rosa che necessita di essere annaffiata quotidianamente.
E anche Sora l'aveva amata tanto. Ricordava ancora quando, nel bel mezzo dei suoi quattordici anni, passava i pomeriggi ad ascoltare le parole imbarazzate di suo fratello che tentava impacciatamente di chiedergli aiuto per conquistare quella giovane fanciulla dai capelli rossi e gli occhi azzurri che gli era sempre piaciuta moltissimo.
Allora lui si improvvisava esperto, come se avesse passato la vita ad innamorarsi e a far innamorare la gente, nonostante in realtà le sua conoscenze riguardante quel campo erano veramente limitate, se non addirittura nulle.
E, chissà, forse erano ancora così.
Si erano dichiarati alla fatidica età di sedici anni e da quel giorno il loro amore era cresciuto a dismisura, alimentato costantemente da gesti romantici e parole intrise di passione; e Sora, oh, come poteva dimenticarsi della sua espressione felice ogni volta che doveva vederla?
Si amavano per davvero, ma a quanto pare il Destino, forse geloso del loro amore sincero e puro, aveva deciso di dividerli.
Sora amava Kairi, ma amava anche il suo futuro, i suoi sogni, i suoi scopi, e proprio per questo, una volta terminate le scuole superiori, fu costretto a trasferirsi altrove per raggiungere i suoi obiettivi.
Sora amava ancora Kairi, ma quest'ultima era caduta in un pozzo di nostalgia, dolore, angoscia e dubbi che la assillavano ogni notte; sapeva che il suo ragazzo era buono come il pane, ma temeva, temeva comunque di una terza persona, di un ostacolo pronto a far crollare lei; un ostacolo pronto a far crollare loro.
E così aveva iniziato a cercare conforto in Roxas, così simile e al tempo stesso tremendamente diverso rispetto a Sora; il primo non si era opposto più di tanto perché anche lui vedeva in lei ricordi, vecchi sentimenti che riemergevano e gli spezzavano il fiato con lame più affilate dei coltelli stessi.
«Devo andare.», disse improvvisamente Roxas, alzandosi dal divano con uno scatto veloce; Kairi spalancò immediatamente gli occhi bagnanti, sforzandosi di parlare nonostante i singhiozzi continuassero a trapanarle la gola: «Cosa? Di già?»
«Sì, mi spiace.»
«Se vuoi puoi... Puoi fermarti qui, per questa notte, non mi receresti alcun disturbo, davvero!»
Ma il biondo scosse la testa, afferrando la propria giacca con fare sicuro. «Sei forte Kairi, te lo posso garantire.», e si avviò verso l'entrata, facendo scattare la serratura della porta.
Prima di uscire rimase comunque in silenzio per qualche secondo, ascoltando i singhiozzi ininterrotti della ragazza provenire dal soggiorno; sì, era forte lei, lo era per davvero, al contrario suo che non aveva ancora avuto il coraggio di piangere.




Una delle cose che più lo aveva affascinato riguardo alle stelle era il fatto che quest'ultime erano talmente distanti dalla Terra che spesso la loro luce, nonostante fossero spente da anni e anni, continuasse a spiccare nei cieli notturni.
Incredibile. Era pazzesco che potesse esistere un fenomeno del genere: l'Universo, gli astri e i pianeti erano la prova concreta che esisteva l'infinito, l'eterno, l'immenso e l'inspiegabile.
Sospirò pesantemente e strinse il libro tra le mani, imponendosi in ogni maniera di non farsi prendere dal panico o dalle emozioni che si stavano accavallando nella sua anima, tutte insieme, contemporaneamente.
Quel giorno nella sala di attesa non c'erano molte persone; escluso lui, non erano più di otto.
Un poliziotto attraversò il corridoio e giunse di fronte ad una donna seduta accanto a Roxas, la quale stava tenendo per mano una bambina, probabilmente sua figlia; schiuse le labbra, pronta a parlare, quando la sua espressione cambiò improvvisamente, lasciando posto ad una smorfia di dolore. Si alzò di scatto e fece un cenno di scuse all'uomo in divisa, scappando via verso l'uscita con le lacrime agli occhi e portando con sé la bambina dai capelli corvini.
Il poliziotto rivolse allora lo sguardo in alto, borbottando qualche lamentela tra sé e sé prima di parlare ad alta voce: «Bene, chi è il prossimo?»
Roxas si alzò lentamente dalla sedia, accorgendosi solo in quel momento di avere le gambe tremendamente molli e i brividi lungo tutta la schiena. «Io.»
L'uomo lo squadrò da capo a piedi, sollevando istintivamente un soppraciglio. «E' maggiorenne?»
«Certo. Vuole vedere i miei documenti?»
«No, no, va bene così. Forza, mi segua.», e, dopo aver detto ciò, si voltò, avviandosi verso il corridoio da cui era entrato poco prima; dopo una decina di passi giunsero in una stanza di medie dimensioni dal pavimento di legno e le pareti leggermente sgretolate.
Vi erano cinque sedie posizionate di fronte ad un largo sportello di vetro e, di fronte ad ogni posto, c'era una piccola circonferenza vuota che permetteva la comunicazione tra i due interlocutori.
«Numero?». Roxas sussultò appena, voltandosi verso il poliziotto che aveva incrociato le braccia con aria evidentemente scocciata, chissà per quale assurdo motivo.
«Cosa?»
«Il numero. Qual'è il numero della persona con cui vuole parlare?»
Il ragazzo abbassò appena le iridi blu, mordendosi il labbro inferiore con rabbia. «Non lo so, non ricordo.»
«Beh, come si chiama?»
«Axel», rispose immediatamente il biondo; solo pronunciare quel nome gli provocò una forte stretta allo stomaco e sentì contorcersi le budella. «Axel Fiel.»
Il poliziotto ripeté il nome mimandolo con le labbra e fece un cenno con il capo, scomparendo nel corridoio bianco; Roxas nel frattempo si avviò verso l'unica sedia libera, quella in fondo alla stanza, e vi prese posto, appoggiando sulle gambe il libro che aveva portato.
Avrebbe tanto voluto dire di essere tranquillo, calmo e pacato, ma sarebbe stata la bugia più grande della sua vita.
Nel suo interno si stavano svolgendo ogni genere di battaglie ed esplosioni; il suo cervello era un miscuglio di parole, urla, voci che gli imponevano di restare, altre che gli ordinavano di fuggire; il suo animo era in tempesta, c'erano correnti e maree, mentre lui stava affondando in mezzo a tutto quel caos.
Mantenne lo sguardo fisso verso il pavimento, quando il rumore di una porta che si stava aprendo lo fece sussultare, bloccandogli il cuore in gola; alzò lentamente la testa e cadde. O forse riemerse, difficile a dirsi.
Appoggiò le mani tremanti sul libro e si tuffò in quegli occhi verdi come lo smeraldo più luccicante; quelle iridi che non vedeva da così tanto tempo.
«Roxas?»
Bum.
Sprofondò nelle viscere dei fondali marini e si irrigidì sulla sedia, mantenendo lo sguardo fisso sull'uomo dall'altra parte dello sportello, il quale aveva spalancato gli occhi, incredulo e timoroso di trovarsi di fronte ad un'allucinazione. «Roxas, sei proprio tu? Cazzo, non ci posso credere. Pensavo fosse uno scherzo, o al massimo che fosse venuto Saix a trovarmi, e invece...», lasciò la frase in sospeso e accennò un sorrisetto sghembo, quello che lo caratterizzava tanto, quella sorta di ghigno divertito perennemente stampato sul volto spigoloso.
«Beh?», continuò a parlare, accorgendosi che l'altro non aveva ancora aperto bocca. «Vuoi fare il gioco del silenzio ancora per molto?»
Nessuna risposta.
Axel allora corrugò la fronte, perplesso e infastidito dall'atteggiamento del ragazzo; decise comunque di porgersi in avanti per allungare il braccio sinistro attraverso lo sportello, aprendo il palmo della mano nella speranza di sentire la morbida pelle dell'altro.
Roxas allora spalancò gli occhi, sconvolto dal suo gesto.
Come poteva avere il coraggio di stringergli ancora la mano, dopo tutto quello che aveva fatto? Come poteva sorridere dopo il dolore che gli aveva provocato? Come poteva comportarsi in maniera così normale dopo averlo ucciso interiormente?
Il ragazzo si impose di mantenere la calma e il controllo, nonostante avesse desiderato ardentemente alzarsi e gridare, gridare con tutto il fiato che aveva in gola, gridare fino a scoppiare, gridare, gridare e gridare fino a svenire.
Roxas comunque non si mosse di un solo centimetro e ignorò la mano dell'uomo, concentrandosi esclusivamente su di lui, sul suo volto, sulle sue braccia nude che presentavano ancora un cenno di muscoli, sui suoi occhi felini tinti di un verde acceso, sui suoi capelli rossi come il fuoco legati in una coda disordinata, sui suoi tatuaggi viola agli zigomi, sulla camicia leggera di colore arancione.
Poi socchiuse gli occhi per una manciata di secondi e prese un profondo respiro, schiudendo finalmente le labbra: «Sto frequentando altra gente.»
Axel ritirò di scatto la mano, stizzito. «Ah, ma davvero?»
«Sì. Altre persone, altri luoghi.»
L'uomo accennò nuovamente un sorrisetto inquietante che lasciò trapelare tutto il suo disappunto e il suo fastidio. «Buon per te. E dimmi, è stata la mamma a dirti di non frequentare più gentaglia come me?»
Roxas si conficcò le unghie nei palmi, mordendosi per l'ennesima volta il labbro inferiore. «Mia madre ora mi odia.»
«Figurati.»
«E invece sì.», ribatté freddamente il biondo, assumendo un'espressione indecifrabile. «Sono successe tante cose, mentre tu eri qui.»
«Per esempio?»
«Non ho passato l'anno», a quella risposta Axel spalancò leggermente le iridi e incrociò le braccia, evidentemente sorpreso; eppure era sicurissimo che Roxas aveva sempre amato gli studi, in particolare l'università. «Mi prendi in giro?»
Il biondo scosse la testa. «Magari.»
«E com'è successo?»
A quella domanda Roxas sentì la propria diga cedere; così, in un attimo, le mura di cemento che aveva faticosamente costruito nel corso di quei lunghi mesi, crollarono. Aveva accumulato un'eccessiva quantità di acqua per troppo tempo.
Troppo tempo.
Troppo tempo impiegato a soffocare i singhiozzi, ad ingerire le proprie lacrime, ingoiare i propri dolori, le proprie sofferenze.
E ora la diga era in frantumi, immersa nell'oceano.
Roxas si mise le mani agli occhi, proprio come aveva fatto Kairi qualche sera prima; schiuse le labbra e pianse, vomitò lacrime e parole, mescolò il dolore alla rabbia. «Ho smesso, Axel, ho smesso di fare tutto. Ho smesso di studiare, ho smesso di aprire i libri, non riesco più a far nulla, soffoco in classe, tra la gente, fuori, ovunque. Soffoco anche quando sono da solo in casa, capisci? Non riesco, Axel, io non... Non ce la faccio, non credo di riuscire ad andare avanti, non così, io... Io...», e i singhiozzi superarono le parole, soffocarono la voce che si nascose tra le corde vocali.
Axel assunse un'espressione amareggiata e allungò nuovamente il braccio, cercando di sfiorare il gomito dell'altro che, questa volta, allungò a sua volta la mano, sentendone davvero il bisogno; l'uomo strinse con forza quelle sottili dita e si sforzò di sorridere di fronte al volto del giovane rigato dalle lacrime. «Mi dispiace, mi dispiace così tanto che... Che non lo so, Roxas, mi dispiace, mi dispiace di averti rovinato, di aver rovinato ciò che eravamo.»
Il biondo singhiozzò a lungo prima di riprendere la parola, immerso nella disperazione più totale. «Io ti aspetto sempre quando esco dall'università. Aspetto sempre di vederti in moto, come prima. Perché non vieni più a prendermi, Axel? Perché hai fatto questa cazzata? Perché non... Perché, cazzo, perché sei finito qui?»
«Non lo so nemmeno io.», rispose con un sospiro triste il fulvo. «Sono stato un coglione.»
«Uno stronzo, vorrai dire.», lo corresse il biondo, sforzandosi di sorridere tra le lacrime; Axel rise e annuì, infilandosi la mano libera tra i folti capelli rossi. «Un bastardo, una testa di cazzo, una faccia da culo, come vuoi.»
Roxas strinse con più forza la mano dell'altro che proseguì: «Ho sempre frequentato persone sbagliate, lo sai. Mi sono messo nei casini tanto tempo fa e... E, beh, Roxas, sai, queste cose funzionano così. Quando finisci in mezzo a questa roba non ne esci più. O almeno, puoi provare a scappare, ma ti insegue lo stesso, sempre e comunque. L'unica cosa che mi dispiace è di averti coinvolto. Non meriti tutto questo, non fai parte di questa merda, credimi. Questo posto forse è adatto a me, ma tu... Cioè, andiamo, che cazzo ci fai qui?»
Roxas soffocò un altro singhiozzo particolarmente forte e lasciò la mano dell'uomo, asciugandosi le lacrime con la manica della felpa. «Sono venuto per te, Axel. Mi hai coinvolto, è colpa tua se mi sono affezionato a te, sei tu... Sei tu che... C-Che...»
Axel sorrise, intuendo ciò che il ragazzo voleva dire. «Sì, sono io che ti ho portato a letto quella sera, lo so, lo so. E sono io che ho continuato a cercarti, ma è stato più forte di me, lo sai bene.»
Il biondo sentì un flebile calore salire alle gote e si asciugò nuovamente gli occhi, provocando un'acuta risata da parte dell'altro. «Non sei cambiato per niente, eh?»
«Fottiti.», brontolò allora il ragazzo, storcendo le labbra; Axel ridacchiò nuovamente e sorrise, questa volta un sorriso luminoso e sincero, quello che aveva fatto innamorare perdutamente Roxas.
E lo osservò per secondi, forse addirittura per minuti interi; Roxas lo guardò a lungo, si immerse in quel caldo sorriso, si immerse negli occhi di quell'uomo che, nonostante avesse spacciato canne, spinelli e cocaina, nonostante fosse finito in prigione, nonostante possedesse sempre quel dannato menefreghismo che lo caratterizzava, rimanevano sempre luminosi e accesi, come le stelle, gli astri che adorava tanto.
Roxas non era come Kairi. Forse ciò che li accumunava era la mancanza di una parte essenziale della loro vita, ma il loro era un'amore diverso, del tutto opposto.
Roxas non aveva abbracciato un amore puro, candido, pulito e soffice; Roxas non si era immerso in un fiore in mezzo ad un prato, sotto un cielo sereno. No, assolutamente no.
Roxas si era ritrovato in un campo di sterminio, si era lanciato tra bombardamenti e incendi, tra pozzanghere e fumo, sotto un cielo notturno particolarmente scuro.
E allora aveva visto Axel.
Axel che bruciava, che incendiava, che spacciava, che fumava, che azzeccava tutte le caratteristiche della perfetta persona da cui mantenere le distanze; eppure si era avvicinato, aveva superato il fuoco, aveva trovato magnifici tesori in mezzo alle viscere degli oceani.
E non gli interessava se il loro non era un'amore comune; non gli interessava se non si erano mai tenuti per mano per strada perché entrambi si vergognavano, o se non gli avesse mai regalato un mazzo di rose rosse. Non gli interessava della volgarità di Axel, del suo aspetto poco raccomandabile, dei suoi modi di fare un po' rozzi.
Axel amava a modo suo ed era proprio quello il bello; Axel lo andava a prendere a scuola con il motorino, Axel suonava il campanello del suo appartamento a mezzanotte passata per fare l'amore con lui, Axel fumava decine e decine di pacchetti di sigarette, ma non gli aveva mai permesso di provarne neanche una.
E lui aveva tentato di pulirlo dalla polvere, dalla cenere; aveva cercato di lavargli via le brutte abitudini, aveva cercato di trascinarlo lontano dagli errori; eppure essi erano stati più forti e non solo avevano riafferrato Axel, ma erano riusciti a portarsi via anche una parte di lui.
Roxas ora consapevole che i suoi amici avevano ragione quando dicevano che Axel avrebbe avuto una cattiva influenza su di lui; eppure non gli interessava, non gli importava niente di niente. Si stava distruggendo con le sue stesse mani e sapeva che non c'era altra soluzione per salvarsi, per rimanere a galla.
Lanciò una fugace occhiata al poliziotto accanto alla soglia della porta e si accorse che gli stava indicando l'orologio, incitandolo a darsi una mossa.
«Sai», Roxas riprese finalmente la parola, mostrando il libro di astronomia che aveva in mano. «mi sono appasionato alle stelle. Questo è uno dei primi libri che ho letto e mi è piaciuto davvero tanto; ho pensato quindi che per passare il tempo ti sarebbe stato utile, ma...», il biondo interruppe la propria frase e picchiettò il libro contro la circonferenza, facendo notare ad Axel che non ci passava.
Quest'ultimo allora assunse un'espressione pensierosa. «Beh, perché non provi a chiedere al tipo lì alla porta? Magari me lo farà avere.»
Ma il ragazzo scosse la testa, alzandosi con il libro tra le mani. «No, fa nulla. La prossima volta vedrò di portarti qualcosa di più piccolo.»
Axel dunque annuì lentamente, mettendosi le mani dietro la nuca con il solito sorriso strafottente dipinto sulle labbra. «Beh, spero che da adesso in poi verrai a trovarmi più spesso.»
«Che cosa intendi dire per 'più spesso?'»
«Non saprei, una volta alla settimana, ad esempio.»
A quella risposta Roxas accennò un sorriso tirato e scosse lievemente la testa. «E permetterti così di vedermi piangere una volta alla settimana? No grazie, penso che per oggi possa bastare, almeno per un po'.»
Axel allora rise, nonostante dentro sentì una sorta di inquietudine espandersi nel petto, e si alzò anch'egli. «Beh, a presto, Roxas.»
«Ciao Axel», lo salutò con una punta di tristezza nella voce il biondo e fece per voltarsi, quando il fulvo richiamò nuovamente la sua attenzione: «Ehi, aspetta.»
Il ragazzo puntò le iridi blu sull'uomo. «Cosa?»
«Volevo solo raccomandarti di riprendere in mano la tua vita, ma di non dimenticarti di me.»
Il biondo soffocò a stento una sottile risata. «Credimi, se fossi davvero in grado di dimenticarti, l'avrei già fatto da tempo», poi si scrollò le spalle e sorrise appena. «Alla prossima.»
Axel alzò la mano in cenno di saluto e si voltò, proprio come fece Roxas; quest'ultimo allora raggiunse velocemente la porta e corse lungo il corridoio bianco, cercando di uscire all'aria aperta nel più breve tempo possibile.
Quando si ritrovò sotto la coperta stellata della notte, scoppiò di nuovo a piangere.





Non chiese ad Axel per quanto tempo ancora sarebbe dovuto rimanere in carcere; sia perché lui preferiva non dirglielo, sia perché Roxas preferiva non saperlo.
Quella sera buttò il pacchetto di sigarette nella pattumiera e si avviò in balcone, stringendo il cellulare tra le mani con una certa riluttanza.
Osservò il sipario della notte, lo spettacolo di quei punti luminosi, e si domandò se la vita si potesse paragonare in un certo senso alle stelle; sere in cui si è coperti dalle nubi, dalla tristezza e dall'angoscia, e sere in cui, al contrario, si splende, più luccicanti che mai.
Le stelle erano la dimostrazione concreta che l'infinito, l'immenso, l'eterno e l'inspiegabile esistevano per davvero.
Quei puntini luminosi erano dei piccoli miracoli che per secoli e secoli avevano affascinato l'uomo e, molto probabilmente, sempre lo avrebbero fatto.
Inspiegabili. Senza distanza. La loro luce viaggiava in un tempo indeterminato, galleggiando in spazi immensi.
Ma la vita, al contrario dell'esistenza delle stelle, non era così lunga ed eterna, anzi; era addirittura troppo breve. Troppo breve per rispondere alle proprie domande, troppo breve per rincorrere le persone, ma mai troppo breve per aspettare.
E Roxas l'avrebbe fatto. Avrebbe atteso, non gli importava per quanto. Avrebbe atteso e nel frattempo si sarebbe ricostruito una vita.
Digitò velocemente il numero e porse il cellulare all'orecchio; aspettò per una manciata di secondi e, finalmente, una voce un po' titubante ed incerta si fece sentire.
Roxas allora prese un profondo respiro e schiuse le labbra: «Pronto? Mamma, sono io. Ti ho chiamata perché credo che tu debba sapere tante cose e io adesso sono pronto per raccontartele...»
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*Note di Ev'*
Devo smetterla di scrivere storie così lunghe; rileggere tutto per correggere eventuali errori diventa un vero e proprio suicidio, giuro. Sono sempre costretta a rileggere sette o otto volte perché più la storia e lunga e più, ovviamente, la probabilità di fare errori aumenta.
Omg, ed ecco perché ho pubblicato così tardi.
Ohm, comunque, salve a tutti.
Iniziamo dalla solita analisi della storia, così poi mi dedicherò alle cazzate.
Allora, in codesta storia il personaggio principale è Roxas; egli è un ragazzo maggiorenne pieno di complessi interiori e, soprattutto, che nasconde molta sofferenza a causa della mancanza di Axel, la persona che ama.
Sì, perché lui, ovviamente, tra tutte le persone che c'erano nel mondo, si è andato a scegliere proprio colui che è finito allegramente in prigione.
Eh, sì, Axel è un carcerato di merda che è stato condannato perché spacciava droga in giro. Evviva le cazzate-!
Ohm, nulla... Una delle cose che mi piacciono di questa storia è il fatto che sono riuscita a rendere Kairi simpatica. Mi è sempre stata altamente sulle balle, ma dopo questo racconto la guardo con occhi diversi (?).
E niente, beh, come avrete capito alla fine Roxas decide di riprendere in mano la propria vita, nonostante la storia si chiuda con una sorta di malinconia dovuta al fatto che dovrà aspettare chissà quanto tempo per poter riabbracciare Axel.
Ci ho messo un paio di giorni a scrivere la storia, ma è stata abbastanza liscia, nel senso che non mi sono interrotta durante la scrittura; o meglio, se l'ho fatto è stato a causa dei compiti. Infatti oggi non ho ancora toccato un cazzo di quaderno.
Per quanto riguarda la storia della famigerata sfera celeste, sono tutte seghe mentali che mi sono fatta questa settimana durante l'ora di scienze. Cioè, non lo so, mi ha dato in un certo senso fastidio il fatto che la gente consideri il cielo come una sfera. Non è una sfera, cazzum, non lo è per niente.

Passiamo alle boiate: ho passato una settimana di merda. Non lo so, ero un po' giù, e non so neanche esattamente il perché, sinceramente. Di conseguenza, non vedo l'ora che arrivi sabato per avere un po' di pace, anche se non credo che durerà a lungo, dato che mi aspettano una miriade di verifiche. -Depressione portami via-

Ohm, poi, poi... Oh, sì, per quanto riguarda la mia storia 'La realtà attraverso gli occhi dell'immaginazione', ho già iniziato a scrivere l'ultimo capitolo, e, uhm, spero di poterlo pubblicare entro il week-end. Cazzo, questo fottuto tempo che mi continua a mancare. Tutta colpa del liceo scientifico, ecco.
E, beh, come sempre, vi obbligo a suon di bastonate vi incito a commentare, perché, come dico sempre, siamo su un sito in cui è FONDAMENTALE il confronto, e io ci tengo assai a conoscere la vostra opinione riguardo questa storia.
Detto ciò, posso svanire nuovamente di scena.
Alla prossima c:
E.P.R.

 

   
 
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