Autore: Avalon9
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of live
Personaggi Principali: Atena; Efesto
Altri Personaggi: una maschera
Rating: Arancione
In proposito: Sono nata di Sciroforione. Oggi sarebbe fra giugno e luglio. Sono nata
nella vampa dell’estate, fra i vicoli stretti dei fabbri e dei calderai;
nell’invocazione per la Scirade dal viso d’ebano.
Disclaimer: i personaggi sono di Masami Kurumada; la situazione la
rivendico come mia^^
Note: one shot; missing
moments
Cose: volevo un personaggio che permanesse
nel corso della storia; volevo lo sguardo di qualcuno che avesse attraversato
il tempo. E allora le scelte obbligate ricadevano su Atena e Pegaso. E non mi
aggradavano. E poi: mi è venuto in mente un oggetto. Spesso presente, che non
conosce l’assoluto dei fatti, ma che da sempre è accanto ad Atena. E così ho
trovato la mia storia.
Nascondi chi sono,
e aiutami a trovare la maschera più
adatta alle mie intenzioni.
William Shakespeare, La dodicesima notte I 2
Mnemon
Sono nata di Sciroforione.
Oggi sarebbe fra giugno
e luglio.
Sono nata nella
vampa dell’estate, fra i vicoli stretti dei fabbri e dei calderai;
nell’invocazione per la Scirade dal viso d’ebano.
Oggi non ci sono
statue cui inneggiare; né dei da adorare. Oggi della
mia casa natale restano ricordi che scolorano
all’ombra di rocchi di pietra grigia.
Ma io ricordo. E nei miei occhi c’è
un mondo fulgido di armi e valore; nella mia bocca le parole di uomini che
hanno riscritto il destino; nel mio viso le generazioni future.
Io ricordo.
Dicevano che l’avesse vista nascere, fra gli ulivi e le
tamerici di un lago remoto, azzurro come i suoi occhi antichi.
Dicevano che fosse per dispregio verso la sua nascita che
la madre lo aveva generato nel fuoco dell’ira; e del fuoco
ne aveva fatto il signore.
Dicevano che non avesse padre, come lei era da sempre
orfana di madre.
Dicevano che la bellezza gli risiedesse nelle mani, grandi
e callose e bruciate dal fuoco e dalla fatica; come di lei fosse fulgido il
volto e raffinata la mente.
Dicevano.
Gli uomini hanno mente versatile, facile alla lusinga e
all’inganno. E amano immaginare. I tempi di un’età svanita
nello scroscio impetuoso dell’acqua; gli scontri su una terra vergine per la
conquista del cielo; le verdi pendici d’Olimpo salire nei nembi soffusi
a racchiudere palazzi d’oro e oricalco.
Dicevano.
E non pensavano a un uomo dal petto villoso e dal volto
scurito dalla vampa; non pensavano alla folta barba scura bagnata di sudore e
fatica; non immaginavano il digrignare di denti fra labbra carnose screpolate
dalla calura della fucina.
Perché degli dei gli uomini conoscono solo la bellezza
eterea e luminosa; perché degli dei l’uomo teme il sorriso arcano e sottile, la
piega irriverente fra condiscendenza e disprezzo. Perché degli dei ignorano la
mente sfuggente e immaginano l’algida alterigia.
Ma l’uomo che riverberava nel calore
afoso della fucina; l’uomo dal respiro affannoso del battere ritmico del martello
pesante; l’uomo coperto di lucido sudore. Quell’uomo. Il fabbro di una bottega
qualunque all’ombra di scarne colonne doriche; quel
fabbro di parole sfuggenti e lavori mirabili fra i vicoli stretti del Kolonos agoraion.
Quell’uomo.
“Ti stavo aspettando.”
Aveva una voce forte, bassa e cupa come l’eco del martello
sul ferro incandescente. Nella bottega calda di fuoco e metallo, quella voce
suonava simile al rimbombo della terra, all’urlo del mare che si infrange possente sulle scogliere. Non era mai stato
abile con le parole; brusco, a tratti sgarbato; più avvezzo ad
impartire gli ordini nel calore della fucina che gli incendiava gli occhi
piuttosto che a lusingare. Eppure. Eppure in quei
gesti secchi, nell’arco ritmico del braccio che si alzava e si abbassava
possente vi era grazia, un’armonia sottile e contorta. L’eleganza
dell’artigiano che impone la bellezza nella materia informe. L’eleganza del dio
che plasma dal nulla.
“Lo so.”
Cos’è la complicità? Forse l’ombra di sorriso che sfiora
le labbra; forse quel leggero singulto di sbuffo soffocato. Forse
semplicemente il guardarsi e riconoscere, in membra umane legate dal tempo, la
piega fugace del collo, il gesto sufficiente di una mano, l’inclinarsi
fra docile e condiscendente della testa, in quel gesto accennato visto in un
altro volto, in un altro corpo. Eppure la sensazione. Come l’elettricità del
fulmine, come il riverbero di cosmo in occhi troppo alteri per
essere di uomo.
Forse la complicità è semplice risonanza; di sangue antico
che si riconosce, a dispetto di sembianze mutate e giochi mai dismessi.
“Glauko” soffiò l’uomo,
abbandonando contro l’incudine il maglio. “Hai scelto
un ragazzo che ti somiglia nel nome.”
“Gli sei affezionato?”
Il sudore ha un sapore strano, vicino alla fornace; anche
la polvere di ferro ha un sapore strano. Raschia nella gola simile allo
sfrigolare della resina nel fuoco. E fissare le fiamme e fissare il ferro che
si arroventa sono sensazioni così lontane, sono
abitudini così umane.
“Lo sono” ammise alla fine l’uomo, piegando le mani sulle
ginocchia muscolose. “È un bravo ragazzo.”
Dov’è ora? chiedevano
gli occhi. Dove? con
l’urgenza mascherata in occhiate sufficienti al rettangolo luminoso della
porta; con le mani contratte sul grembiule di cuoio e la fretta del pensiero
trattenuta in un corpo troppo assuefatto alla solitudine per ricordare il
fremito della paura e dell’attesa.
“Non gli farò del male. Mi conosci” gli
sorrise.
Sì. Sì la conosceva. L’aveva riconosciuta subito, anche sotto quel viso maschile. L’aspettava,
ed era venuta. Con il passo sicuro e la fronte alta del suo
orgoglio; con la serena luminosità in quegli occhi azzurri di mare.
La conosceva. Ma.
Gluako.
Il taglio allungato degli occhi maliziosi sotto i capelli
ribelli e lunghi; il corpo acerbo dell’adolescenza e l’ombra incerta della
maturità sul viso. Il tono della voce, ancora perfuso
di accenti infantili, così insinuante, quasi una cantilena che ride.
Glauko.
Quel suo modo di incedere, fra la
danza e l’impaccio, troppo esile ancora per essere un guerriero e troppo
gracile per essere un fabbro. Se avesse potuto. Se solo avesse potuto, lo
avrebbe preso con sé, come allievo. L’avrebbe allevato come quel figlio mai
abbracciato; lo avrebbe cresciuto nella frescura delle grotte marine, al
riverbero di fiamme eterne che ardono dei riflessi dell’oro e dell’oricalco che
vi si discioglie. Gli avrebbe insegnato la sua arte: i gioielli mirabili di oro
fulvo e le armi istoriate d’avorio splendente. Gli avrebbe insegnato la
maestria di ingranaggi complessi e la perfezione di
intrecci sottili come la seta. Gli avrebbe insegnato.
Gluako.
Gluako figlio di Thyrsos;
Glauko figlio di un
pescatore e di una levatrice; Gluako destinato alla
morte quando dal mare navi di Persia avrebbero tinto
di rosso le spiagge di Salamina guardiana. Presto.
Troppo presto. E di quel corpo inesperto di vita sarebbe rimasta la cenere
sulla pira e la spada, bella, suo dono, piegata nel fuoco che un tempo l’aveva
forgiata.
Gluako. Si ripetè, e la mano fremette nel gesto di
sollevarsi, nell’abitudine ad una carezza ruvida e
inesperta. Non è Glauko
ricordò, e il gesto rimase sospeso, fra l’aria e il calore, nel vociare confuso
dei vicoli di Atene signora.
“Me lo restituirai?”
“Questa sera. Al tramonto” assentì,
la dolcezza nella voce ancora infantile. “Verrà da te. E avrà da raccontarti un
sogno meraviglioso.” Gli occhi sfuggirono verso la
luce accecante del sole del meriggio; verso quell’unica finestra lassù, in
alto, nella parete annerita dal fumo. “Morirà per me.
Almeno un’illusione gliela posso donare.”
“Non è il primo, Atena.”
“No. Non lo è, Efesto” sospirò Atena; e il viso restò immobile.
Quel viso abituato al peso dell’elmo crestato; quel viso che soggioga sul campo
con il vibrare della lancia di frassino. Efesto lo
vide, quel viso perfetto tremolare sotto le fattezze del ragazzo. Lo vide e vi vide il dolore della consapevolezza. Vi lesse la sofferenza
della sovrana che ha scelta la guerra per costruire
una pace sempre effimera e sempre insoddisfacente; della madre che alleva figli
destinati a perire sotto i suoi occhi. Vi vide la forza, in quel viso, Efesto signore del fuoco, e vi vide il cupo doloroso
strazio di un cuore che aveva imparato l’uomo e la sua mutabile seducente
inconsistenza.
Vide, Efesto, e ricordò l’urlo
di una dea nata armata; quell’urlo possente come il clangore del metallo nella
battaglia; quell’urlo straziante come i threnoi gettati al cielo crudele e spietato. Cosa aveva urlato Atena signora alla sua nascita? La forza
della guerriera o lo strazio della donna?
“Soffrirai. Ogni volta” le
ricordò, le labbra a sussurrare fra la folta barba bruna, un sospiro trattenuto
nel petto possente.
“Lo so” gli concesse Atena con un sorriso placido, con la
muta rassegnata accettazione di una scelta compiuta forse per orgoglio forse
per inesperienza. E con il tempo virata in quieta consapevolezza: di non poter
tradire; di non poter abbandonare chi accetta la morte
con il suo nome sulle labbra, con il suo viso negli occhi. Con una preghiera
alla sua gloria gorgogliante nella gola senza più
respiro.
“Lo so. E lo accetto.”
Efesto annuì.
“Sarai sola” le disse, alzandosi possente nella penombra
calda dal sapore di ferro e ulivo. “Per quanti uomini ti siano fedeli; per
quanti secoli potranno passare. Sarai sola, Atena.”
“L’ho scelto, Efesto.
Lo sai. L’ho scelto.”
Sì. Si lo hai scelto.
Lo sapeva lei, e lo sapeva lui. E
la mano si distese fino allo stipite sbecciato, si
strinse contro la pietra grezza e gli occhi ardenti di fiamme la guardarono. E
videro oltre le sembianze umane di ragazzo ancora bambino; videro negli occhi
verdi i riflessi glucopidi di Atena signora e quel
sorriso sottile, di orgogliosa consapevolezza piegare le labbra carnose. La
guardò Efesto domatore di vampa e seppe che il fuoco
di Atena, la luce che bruciava nel suo cosmo ardente, non avrebbe mai potuto
assoggettarla. E rimase in piedi, a sovrastare il corpo gracile di un bambino;
rimase in piedi, il cosmo a lambire un gesto mai concesso, a condividere una
consapevolezza rimasta inespressa.
“Avrebbe potuto essere diverso” soffiò Efesto
con distrazione. In quel silenzio di sguardi consapevoli e gesti abbandonati,
le parole suonarono roche e inusuali. L’impacciata gentilezza e la timida consolazione di un uomo avvezzo
al maglio e non alla raffinatezza della retorica. Eppure. Eppure Atena sorrise nel
viso fanciullo, gli occhi socchiusi nell’assaporare
quell’invito inaspettato e così familiare. Parole dal sapore dolce di ore
trascorse fra colonne antiche, in cieli inviolati; parole dal suono di incenso che arde nei braceri di
bronzo. Parole di un uomo, di un dio, che forse l’aveva amata forse solo
desiderata.
“Sì. Avrebbe potuto.”
Quella volta.
Se quella volta Efesto avesse
chiesto a Zeus sovrano la mano di Atena dall’elmo lucente; se quella volta lei
non si fosse sottratta al suo abbraccio, irruente e voglioso. Se quella volta.
Quella volta.
Non è accaduto.
E Afrodite dall’aureo trono ha condiviso il letto
dell’abile Efesto; e il talamo alto, di legno
intarsiato profumato d’olivo, è rimasto vuoto di un amplesso strappato con la
forza.
Non è accaduto.
E il figlio nato dal dio e dalla Terra è cresciuto
all’ombra delle colonne d’Atene; e il figlio è stato cullato nell’egida d’oro
di una madre vergine e benigna. Erittonio. Figlio senza madre; figlio del
fuoco e della nera terra nutrice di genti; figlio di Atena dal seno di bronzo.
“Ma non lo è stato” sospirò
Atena, nella voce forse il rimpianto di una vita non conosciuta; nella voce
forse la malinconia di quel figlio allevato e visto morire col tempo; nella
voce la carezza di mani che hanno scelto di non conoscere né uomini né dei.
“Già. Non lo è stato.”
Era caldo, nella fucina annerita dal fumo. Era caldo e
silenzio del ferro che si arroventa, spandendo nell’aria l’odore acre del
metallo e della brace. Era caldo fra le strade di Atene, nell’aria immota del
meriggio che si va macchiando dei papaveri e della ginestra.
Era caldo quando Efesto si
voltò, la testa in un invito discreto verso il pergolato sul retro. Era caldo
quando Atena lo seguì, la grazia di donna e la forza del guerriero
nell’incedere sempre solenne. Era caldo quando il vino di Lemno,
dal dolce profumo di resina e mare, riempì le coppe smaltate e i pensieri
lasciati vagare.
Era caldo quando Efesto distese
sul tavolo rozzo, di legno appena piallato, l’involto di grezza lana tinto di
porpora. Era caldo, e Atena avvertì quel calore fremerle nelle mani raccolte
sulla stoffa, scorrere come eccitazione nel corpo.
“L’ho completata. Come la desideravi” le
disse, la bocca premuta contro la coppa e il gusto del vino mielato sulla
lingua. “Come la userai?”
“Per custodire un uomo” sussurrò Atena, nel fruscio nella
lana che scivola sul viso di oricalco e avorio. Nel frinio
delle cicale, la maschera si svelò nei risvolti di
porpora, perfetta: gli occhi di rubino iridescente, il contorno raffinato di lucido
scuro colore.
Atena ne accarezzò il profilo con la punta del dito.
Delicata e assieme possessiva. Ne saggiava il lavoro mirabile, gli sbalzi ad
arte levigati dal fuoco e lucidati dall’olio, il profilo assoluto di un volto
inespressivo. E sentire il cosmo crepitare nel meriggio e l’eco di una
risonanza nel metallo fra le mani, all’improvviso caldo, molle e malleabile
come cera; sentire la propria mente pervadere la maschera e gli occhi
restituirle altri occhi, altri tempi, altre vite.
Sentire.
In quell’istante; in quell’unico solo respiro, Atena vide.
E seppe.
Ade signore d’eserciti sfidarla su una terra priva di
sole; Posidone domatore di cavalli scuotere il mare
in cerca di una rivincita per ostinazione; il tempo fluire senza ritorno, con nella sabbia le vite infrante e i rimpianti vissuti, con
nei ricordi gli onori conquistati e le scelte orgogliose intraprese.
Seppe.
Seppe il viso di un uomo carico di anni. Il peso di un
ruolo accettato con orgoglio e determinazione; e nella mente risuonò un nome: Sage.
Sage del Cancro; Sage Sacerdote d’astuzia.
Vide il trono. Il seggio di Grecia diviso fra fratelli che hanno rivaleggiato con gli dei e gli
uomini. La determinazione di strategie contro generali
d’Inferni, per distruggere un sogno di amore troppo intenso per non essere
oscuro. Vide le sue decisioni ingannate per umiltà, la maschera e l’elmo
alato scambiato con le alte vette innevate.
Vide la vita, di Sage devoto, e
la bimba da lui allevata in vesti di croco. E ne vide la morte, all’ombra di un
portale, negli occhi la determinazione, nel cuore la volontà. Vide il
sacrificio per un sigillo imposto col sangue e il sorriso spegnersi nei
riflessi d’argento di una corazza infranta.
Vide.
Vide l’inaffidabilità sottile e irriverente di Shion dell’Ariete.
Le sue decisioni improvvise e i
secoli consumati nella solitudine dei templi, raccontando nelle crepe e nelle
ricostruzioni guerre mai dimenticate e morti mai davvero accettate. Vide il sorriso
nascosto nel viso inespressivo e la spada brillare, lucida di oro e oricalco,
al fulgore delle stelle di Grecia.
Sentì.
La consapevolezza di una morte necessaria per Lei, per un
amore troppo profondo per accettare il dolore. Anche
di una dea. La leggerezza di parole giocate in un ruolo
troppo stretto e il rimpianto di un viso infantile lasciato. Lo strazio e la dolcezza dell’abbandono e il riposo agognato,
assieme a compagni finalmente ritrovati.
Sentì. Di Shion
d’Ariete la profonda umana incapacità e la determinazione ostinata al rispetto
della Sua volontà.
E le lacrime.
Le lacrime mute su un viso ancora bambino; sul viso distorto e nella mente confusa di un cavaliere; di un
uomo che per Lei aveva scelto la morte alla vita di strazio. La
dolcezza di occhi di mare sfumati di rosso; l’affetto di mani insanguinate
accarezzarla con l’amore pungente dell’infanticidio nella mente.
Le lacrime di Saga di Gemini, le lacrime
di un uomo troppo orgoglioso e troppo umano per non soffrire di una bambina
destinata all’arena.
Ne vide il ginocchio piegato a Crono
dominatore del tempo, la mente forte nell’inganno costruito; l’arroganza o
forse la blasfemia di piegare un dio ai propri voleri. Per Lei.
Per Lei che si era sentito strappare dalle mani; per lei
che era pronta ad uccidere, il dolore celato nella
maschera di sacerdote.
E vide quella stessa maschera precipitare a terra dalla
mano pronta al combattimento; la vide fissare i soffitti istoriati di un tempio
ormai costruito, di quel tempio che, in quel momento,
stava ponendo il basamento nella spianata remota a settentrione di Atene del
mare.
Di quel tempio creato a immagine d’Olimpo, la maschera che
stringeva avrebbe visto la nascita e le morti: le colonne schiantate da cosmi
ardenti in battaglia e la lenta carezza di un tempo che nemmeno Lei avrebbe
potuto arrestare. Avrebbe visto il sangue di eroi e le urla dei traditori, la
corsa affannosa di un ragazzo giocato a fare l’eroe, un’infante fra le braccia
ancora bambine e i pensieri a rotolare nella mente senza volersi fermare.
Avrebbe accolto un fanciullo
destinato a rifulgere di tredici ataviche stelle; e avrebbe ordinato la
vittoria ad un cavaliere troppo devoto per accettare il sangue che il servirLa impone.
Avrebbe guardato fratelli dilaniarsi e gli stessi visi che
avrebbe celato raggrinzirsi negli anni. E sparire. Ora sul campo di battaglia ora nel fumo odoroso di mirra dei braceri del tempio.
Avrebbe visto.
E avrebbe ricordato. Per Lei e per i corpi che si
sarebbero susseguiti nel tempo, membra fragili di ragazze chiamate a consumare
la vita e l’orgoglio nell’ardere di un sogno o forse di un’illusione.
Le vide tutte: Sasha dal profumo di fiori; Saori dal sorriso di luce. E altre; tante
ancora. E di ognuna avrebbe ricordato emozioni e dolori; di ognuna
avrebbe conosciuto il volto impresso in occhi di rubino che l’avrebbero omaggiata. Forse per una vita intera; forse solo per pochi
istanti.
E ancora.
Conobbe il riposo del tempo che si sarebbe susseguito, nel
buio di un nascondiglio sicuro. Conobbe il riso di un bimbo traballante stretto
al seno di dea. Un bimbo del cielo per Lei, di nuovo madre. Un
nuovo Erittonio da preservare e poter allevare.
E visse lo strazio delle membra marcire di cosmo oscuro e gelato, fra le
braccia il pianto di un neonato e negli occhi i corpi straziati di uomini a Lei
sola devoti, il rifulgere ossessivo di cosmi indomiti.
Conobbe. E la maschera tremò nelle mani di Atena
protettrice. Tremò e le ricordò, di nuovo, le scelte compiute e quel destino
accettato. Ancora da venire; già segnato.
“Atena.”
Era calda. La mano di Efesto. La mano di Efesto sul suo polso sottile;
la mano di Efesto, ruvida e scorticata dal legno.
Era calda. E ricordava la stretta di guerriero che non cede sull’asta levigata;
ricordava la presa sicura del fuoco sul metallo incandescente. Ricordava.
Ricordava le braccia avvolte al suo corpo e il brivido
profondo di eccitazione e rifiuto che aveva accolto.
Era calda, la mano di Efesto. E
Atena accettò quel muto sostegno di un pigro giorno d’estate, all’ombra di un
pergolato dal sapore della polvere rossa, sotto l’ombra rassicurante del tempio
dai colori accesi.
“È mirabile” gli sussurrò, sfiorandogli il viso con la
bocca piegata a sorriso. Mirabile.
Perché molti l’avrebbero guardata; perché molti l’avrebbero desiderata; perché
molto avrebbe visto negli occhi ciechi di fiamma ardente. E molto le avrebbero
fatto conoscere nel tempo.
“Ne hai fatte costruire altre” le ricordò Efesto, tornando a rilassarsi contro il semplice scranno. “Hai i tuoi forgiatori. A Mu. Perché questa l’hai chiesta a me?”
Cos’aveva visto nel virare di quegli occhi azzurri? Cosa
si era agitato nel cuore di Atena da farla trasfigurare e fremere in contorni
evanescenti? Cosa aveva risvegliato un cosmo tanto
potente da atterrire per il disorientamento che lo pervadeva?
Efesto l’aveva guardata: fra le mani la
maschera e l’estasi della divinazione sul viso. E forse. Forse davvero Atena
aveva visto qualcosa nei contorni
perfetti di quella maschera sacerdotale. Forse aveva spiato il futuro; forse
aveva conosciuto il terrore di illusioni naufragate.
Non glielo avrebbe chiesto.
E Atena avrebbe comunque taciuto. E avrebbe sorriso. Di
quel placido rassicurante sorriso di sole che sapeva dominare uomini e dei. Di quel sorriso dalla linea crudele
del perdono elargito con quieta spietata condiscendenza.
È dea terribile e benigna, Atena dalla lancia lucente.
Dea che soggiace con le mani aperte e la fermezza negli
occhi; dea che conquista con la mitezza e governa con la forza. Ed è dea dalla
mente sottile, fluttuante e rapida simile allo scorrere di un fiume, simile allo sciabordio eterno del mare.
Atena nata da Zeus; Atena figlia del mare.
“Per gli uomini bastano artefatti dell’uomo; contro gli
dei occorrono manufatti di dei” gli ricordò, in una
risposa senza risposta reale. In una frase gettata fra loro come dadi. A lasciar decidere alla sorte e al volere il desiderio di
continuare a domandare.
“La indosserai?”
“La indosserà il mio Sacerdote.”
Sarà l’onore; e sarà la condanna. Sarà il suo viso e la
sua voce; sarà il suo corpo anche quando di corpo non
ne avrà. Sarà strumento di sciamano; sarà ponte di sacerdote fra l’uomo e lei,
racchiusa in corpi bambini. Sarà la sua volontà. E il suo
pensiero lasciato a preservare menti libere di ragionare, libere di coltivare,
libere di costruire convinzioni, libere di scegliere il giusto
nell’onorarla.
E sarà difesa: arma in mano ad un uomo contro il volere di
dei possenti e capricciosi; contro il sondare di menti abili nella lettura dei
pensieri; contro costrizioni tese a piegare. Sarà muro invalicabile, e pesante
eterna condanna. A rinunciare al nome e alla parola; ad avere
un solo volto, una sola voce, mille pensieri. Sempre
uguali per uomini diversi negli anni; sempre uguali nella malinconica dedizione
nel servirLa.
“Basterà?”
“Avrà anche paramenti di ordito sottile, intrecciati dei
fili eterei d’Olimpo.”
“Opera tua?”
“Opera mia.”
Efesto sospirò. Il cielo di Atene era macchie azzurre accecanti fra i pampini maturi; era il
riflesso fulgido della caldera incandescente.
“Sarà potente, Atena. Forse troppo
potente.”
“Dovrà esserlo” acconsentì, la stoffa di nuovo a celare un
viso destinato a non invecchiare. Un viso come di dio.
Dovrà.
Perché dai suoi occhi verrà il discernimento. Perché dalle
sue labbra usciranno parole di comando. Perché sotto
l’elmo alato, quella maschera avrebbe rifulso di antica splendente autorità.
Non se la sarebbe presa il tempo né il dolore; non
l’avrebbero scalfita i rimpianti né le follie. Avrebbe continuato ad osservare il mondo. Nei secoli. Avrebbe continuato a
proteggere la mente del suo custode. Per Lei.
Sono nata di Sciroforione.
Oggi sarebbe fra giugno
e luglio.
Sono nata nella
vampa dell’estate, fra i vicoli stretti dei fabbri e dei calderai;
nell’invocazione per la Scirade dal viso d’ebano.
Sono nata dalle mani
di Efesto possente. Sono nata per Atena gloriosa.
Sono nata per ricordare.
Negli occhi ciechi e nella bocca immota. Guerrieri prostrati al mio lucore; guerrieri febbrili d’ardore
negli occhi accesi di cosmo. Guerrieri passati e cavalieri futuri.
Sono nata per
conservare. Forse la follia forse la dedizione di uomini consumati
dall’amore. Sono nata. Ed era il mito. E sono ancora.
Io.
Maschera
sacerdotale.
Note:
- Mnemon in greco antico identifica colui che ricorda e rappresenta il
corrispettivo del concetto halbawachsiano di memoria collettiva. Figura cui era
affidata una specie di istituzionalizzazione
della memoria, dovuta al riconoscimento della sua importanza sociale, gli mnemoni
erano magistrati incaricati, in mancanza di leggi e cronache scritte, si
registrare e preservare nella propria memoria i fatti avvenuti, o almeno i
principali.
- Sciroforione è il primo mese del
calendario lunare attico e andava da metà giugno a metà
luglio. Il nome era riferito alle Sciroforie,
feste estive ateniesi in cui si invoca la
protezione di Atena Scirade contro la calura
estiva (da skiras
in greco calura). Durante questa cerimonia sembra che una sacerdotessa di
Atena e un sacerdote di Posidone procedessero il processione sotto un baldacchino bianco verso il Falero, Sciro e Eleusi, portando con sé una statua di Eretteo, uno dei
primi sovrani di Atene, figlio di Erittonio con
quale è talvolta identificato.
- Kolonos agoraion altura che domina il lato
occidentale dell’agorà, dove erano presenti le botteghe di fabbri e
calderai. La città dell’età classica, infatti, vedeva le proprie strette
vie ripartite in quartieri per tipologia di lavoro; in questo senso è rimasto famoso il Ceramico,
oggi rinomata necropoli, ma al tempo confinante con il vicino distretto
dei ceramisti o vasai, da cui il nome. Di questa collinetta è rimasto il
tempio scarno di pietra in stile dorico, oggi
chiamato Theseion,
ma dedicato a Efesto e Atena protettori delle
arti, come hanno rivelato le doppie celle votive presenti nel naos.
- Glauko significa luminoso, ed è assonante con uno
degli epiteti celesti di Atena, Agluace o Glauce, versione femminile del nome di cui sopra, con
cui condivide la medesima simbologia. Il fatto che Atena si presenti sotto
spoglie umane di ragazzo, lei dea vergine, è attestato più volte nell’Odissea, dove ricorre a questo
espediente per conversare con Ulisse. Il motivo è da ricercare nel fatto
che, per tradizione, gli dei non possono apparire in tutto il loro fulgore
agli o fra gli uomini, pena la perdita del senno e la morte di questi.
- Grotte marine sono quelle in cui, secondo
il mito, Efesto sarebbe stato allevato da Teti signora del mare, quando la madre Hera, per rabbia verso la sua deformità, lo precipitò
dall’Olimpo. In queste grotte sottomarine, poste ora
nei recessi di Lemno ora di Sicilia, ma anche di
altre antiche isole vulcaniche mediterranee, Efesto
avrebbe posto la sua prima fucina.
- Threnoi sono i tradizionali canti
funebri greci.
- Erittonio è il figlio di Efesto e della Terra, ma ha come madre putativa la
stessa Atena. In tutte le storie in cui si parla di
Atena, è vero, l'epiteto parthenos è
in qualche modo presente; viene tuttatia
invocata nello stesso tempo anche con il nome Meter
(madre), come attestano Pausania ed Euripide.
Sulle sue nozze, circola una strana storia, in cui Atena non perdette la
sua verginità, ma dopo le quali affida ugualmente alle figlie di Cecrope, primo re della città di Atene, un bambino. Si
tratta di una storia sacra che spesso ha costituito argomento di
raffigurazione, in alcun caso anche incentrato sulla realtà italica e in
Roma in particolar modo, dove la si vede presso
un altare che era collocato nel recinto sacro di una pia imperatrice
divinizzata. Il sincretismo col mondo romano, invece di sollevare il
dubbio di una formulazione tarda del mito, avvalla la teoria
dell'antichità della storia, in quanto Roma non
avrebbe fatto altro che incamerare e ritrasmettere un mito già presente
nell'icnografia tradizionale. Ma chi era il padre
e soprattutto chi era il bambino? Il pargolo aveva nome di Erittonio, secondo una quasi totale concordanza delle
fonti, tranne poi accapigliarsi sulla corretta etimologia del nome; il
padre invece vanta natali illustri quanto quelli di Atena stessa e con lui
condivide la protezione delle arti, maschili per lui quanto sono femminili
quelle per lei: si tratta infatti di Efesto, figlio di Zeus e Hera
o solo di Hera, secondo una variante, che
avrebbe partorito per autogenesi il figlio dopo che Zeus aveva
"partorito" da solo Atena dalla sua testa. Atena e Efesto, quindi, sarebbero
l'uno specchio dell'altra. Esisto diverse versioni dello sposalizio, di
seguito ne riporto alcune. Igino raccontava che Efesto, come premio dell'aiuto dato con il suo
martello durante il parto, avesse preteso di avere Atena in isposa. L'avrebbe anche ottenuto e l'avrebbe anche
condotta nella stanza nuziale, ma quando si era messo a giacere accanto a
lei, la dea si sarebbe dissolta, come precisa Antigono
Caristio Paradoxografico.
Il seme del dio, dunque, sarebbe caduto a terra, ingravidando Gea (la dea Terra), chiamata anche Ctonia, che
avrebbe partorito Erittonio, il fanciullo divino, che sarebbe poi stato consegnato ad
Atena. Sempre secondo Igino, sarebbe avvenuta
una contesa (eris) fra Efesto
ed Atena, e per questo il bambino si sarebbe
chiamato Eri-chthonios. Secondo la versione del
mitografo Apollodoro, invece, raggirato dagli
altri dei che lo avevano persuaso dell'amore che Atena nutriva nei suoi
confronti, Efesto, quando la sorella si era
presentata nella sua fucina per delle armi, avrebbe tanto di usarle
violenza. Nel corso dell'inseguimento che era seguito, Efesto
sarebbe riuscito a raggiungere Atena, ma non a privarla della sua
verginità. Su quel momento circolavano parecchie versioni, che ruotavano
perlopiù sul batuffolo di lana che Atena avrebbe usato per pulirsi dal
seme del fratello. Secondo la variante più diffusa, questo batuffolo,
impregnato di umori divini e mischiato alla polvere, avrebbe fecondato la
terra da cui sarebbe nato Erittonio. Esiste
tuttavia una variante segreta, tramandata da Nonno Dionisio e da Callimaco in un frammento dell'Ecale,
secondo la quale Atena avrebbe effettivamente partorito ad
Efesto un figlio di nome Apollo, sotto la cui
protezione si trovava la città di Atene. Una simile variante del mito
attesterebbe un legame fra Atena e la madre di Apollo, Leto,
cosa effettivamente attestata in Iperide e Macrobio, per cui presso gli Ateniesi e gli abitanti
di Delo si tramandava che Atena avrebbe aiutato Leto,
incinta, quando era arrivata a Delo, a dare alla luce il bambino divino,
che proprio in questa sua qualità può prendere il nome di Hersos o Erros,
"rugiada", almeno in una delle sue varianti, che poeticamente
può indicare anche il seme maschile nella forma "rugiada
nuziale". E di nuovo si torna ad Atena ed Efesto.
Com'è come non è, il bambino sarebbe stato consegnato ad Atena, che ne
sarebbe divenuta a tutti gli effetti la madre
putativa, pur non avendolo necessariamente partorito. L'epiteto da cui
siamo partiti, comunque, ne sottolinea il ruolo
materno e il legame con la maternità senza rompere la sua condizione di parthenos. D'altra parte, anche Artemide, pur essendo
dea vergine e condividendo con Atena non poco caratteristiche liminari
della condizione di illibate, è spesso invocata
come protettrice dei parti. Atena dunque scelse di allevare il bambino in
segreto e per questo lo consegnò alle figlie di Cecrope,
re della sua amata città, con cui intratteneva
un'intima e duratura relazione dai contorni misterici molto complessi e
ancora non ben delineati. Aveva posto quindi il bambino in una cesta
rotonda chiusa, simile probabilmente a quelle usate nei misteri e da cui
in molte raffigurazioni esce un serpente, o in una cassa. Comunque, la dea
avrebbe poi affidato la cesta/cassa chiusa in custodia alle tre figlie di Cecrope, vietando loro severamente di aprirla.
Tuttavia, non appena Atena si fu allontanata, le tre fanciulle
e specialmente Agaluro furono prese dalla
curiosità, tanto da aprire la cesta/cassa, svelandone il segreto, a sua
volta descritto in modo diverso: o come un serpente, o come un bambino
sorvegliato da uno o due serpenti o infine come un bambino con piedi
serpentiformi o parte del corpo di serpente. Anche sulla scia di una
tradizione più tarda che voleva Atena madre di un serpente, Erittonio fu sovente associato alla dea in quella
forma, tanto che sarebbe lui il serpente che si vede dietro lo scudo della
celebre statua di Atena Parthenos, opera dello
scultore Fidia, come a rimarcare la duplice
natura di vergine e madre di Atena.
- Benchè fatto marginale e ancora da indagare, è attestato in Grecia uno sciamanesimo simile per certi aspetti a quello
russo-siberiano, fatto di simbologia onirica e divinazione e
caratterizzato dall’uso cultuale di maschere, altrimenti scomparse dalla
pratica rituale ellenica già in epoca antica, salva restando la loro
conservazione in alcune immagini e negli spettacoli teatrali in relazione
al culto di Dioniso.
- Oltre
che dea della guerra e della strategia, Atena presiedeva anche alla tutela
delle arti, e in special modo delle arti femminili quali la tessitura.