Rosy Rain
“… E quindi non abbiamo perso solo una validissima voce,
che sapeva incantare
chiunque avesse la fortuna di ascoltarla,
ma anche un’amica,
una giovane e splendida donna che…”
Kazuhiko non ascoltava. Batteva il piede a terra a intervalli regolari, come a seguire un suono che percepiva solo lui.
Non si sentiva stanco, solo nervoso. Dieci minuti di cerimonia e già era conscio di essere al limite.
“La vita è tanto
breve, Kazuhiko. Sai che noia se dovessimo passarla ad ascoltare discorsi
inutili… molto meglio fare cose più divertenti, no?”
E un
bacio a fior di labbra, labbra morbide e che si sentono appena, perché
sgusciano via e si schiudono in un sorriso. Bello.
Di sicuro Oluha non sarebbe stata contenta di passare così anche solo qualche ora del suo tempo.
E con altrettanta certezza non le avrebbe fatto piacere che al suo funerale partecipasse gente con la quale quasi non aveva forse mai davvero parlato.
Ma si sa, essere ammazzati durante un live fa sempre un po’ troppo scalpore per non richiamare curiosi.
Kazuhiko guardò un nuovo volto sconosciuto prendere il posto del precedente, e lasciò che il proprio corpo si comportasse come desiderava fare dall’inizio della cerimonia: diede le spalle alla nera macchia indistinta formata dalla gente, senza neppure avvertire Gingetsu, e si dileguò passando in mezzo a due enormi cipressi piantati a pochi metri da lì; scomparve con la stessa evanescenza con cui sfuma un’ombra quando il sole viene oscurato dalle nubi.
***
Una volta immerso nel silenzio e nella quiete della parte di campo santo esente da cerimonie funebri, inspirò una boccata d’aria e si guardò intorno.
C’era un certo numero di cipressi e qualche leccio, ma a dominare su ogni altra pianta o albero erano i ciliegi, pieni di petali che il vento staccava sovente dai rami, costringendo così le morbide sfoglie rosa e bianche a vagare senza meta nell’aria.
Kazuhiko allungò la mano nel vuoto sopra di lui e ne catturò uno, stringendolo tra le dita; poco dopo ne sentì un altro sfiorargli il capo.
Sembrava che su ogni cosa, lui compreso, scendesse un’impalpabile e delicata pioggia rosata.
Oluha amava i ciliegi.
Un giorno Kazuhiko le aveva chiesto perché.
“Perché i loro fiori
prendono tutte le sfumature più belle, aveva
risposto lei, dal rosa appena accennato a
un rosso più intenso. Come l’amore.”
E poi aveva riso, riso come sapeva ridere solo lei, illuminando l’aria e dando una volta in più le vertigini a Kazuhiko.
E non
riuscire a commentare, a commentarla, perché Oluha era sempre bella, ma
capitava lo fosse in modo tale da somigliare ad un qualcosa di così leggero e
sfuggente che era impossibile, replicarvi.
Oluha, a volte, somigliava a un
sogno.
In quel cimitero ce n’erano davvero tanti, di ciliegi. Ma il terreno dal quale la maggior parte di essi prendeva vita era dedicato ai morti più antichi, e Oluha era troppo giovane per potervi essere ricordata.
Peccato.
Kazuhiko guardò il cielo: era di un colore strano, tra il grigio e l’azzurro, come se nemmeno lui non fosse sicuro sul da farsi.
“Tsk”
Commentò sottovoce, accendendosi distrattamente una sigaretta dopo aver messo in tasca il petalo.
Se nemmeno il cielo era sicuro di sé, stavano messi bene.
Voltò lo sguardo verso la direzione da cui soffiava il vento, e notò una figurina scura non troppo lontana.
Senza parere, avanzò lentamente fino a poche tombe prima di essa: abbastanza lontano da non essere indiscreto e abbastanza vicino per mettere a fuoco la figura.
Era una donna alta ed esile, i capelli lunghissimi e neri legati in un elegante chignon e il corpo fasciato da un kimono nero palesemente raffinato, i ricami argento probabilmente cuciti da una mano abile.
Lo sguardo gli scivolò sulla lunghissima pipa che la donna teneva mollemente poggiata tra le labbra, due dita a farle da sostegno.
Ma la cosa più strana era un’altra: la donna sorrideva. Di un sorriso forse più amaro che malinconico, ma era indubbio che la sua espressione non fosse né piangente né compunta come quella della maggior parte delle donne che erano solite visitare quel luogo.
Poi scosse la testa, compassionevole verso se stesso.
Una donna c’era, che quasi certamente avrebbe sorriso allo stesso modo nella medesima situazione.
Era la stessa che quel sorriso lo aveva dedicato a lui troppo spesso.
- Si avvicini pure, è stupido restare a metà in quel modo. -
Disse invece la donna poco dopo, senza nemmeno voltarsi
verso di lui.
Kazuhiko per qualche secondo non rispose, limitandosi a guardare le nuvolette di fumo che dalla sua sigaretta si innalzavano verso il cielo. Infine chiese, con il tono più rilassato che gli riusciva di tirare fuori in quel momento:
- Scusi, non ho capito bene.
Lei annuì lentamente.
-
Lui si limitò ad espirare una boccata di fumo e le si accostò un poco.
- E’ una strana giornata per visitare un cimitero, trova? Un cielo del genere è fastidioso. -
- Concordo. -
Kazuhiko si era preparato a convivere con il silenzio creatosi dopo il suo assenso, e fu per questo che rimase interdetto, nel sentirsi improvvisamente porre una domanda.
Per questo, e per l’intensità degli occhi color pece che incontrò quando la donna finalmente voltò il capo verso di lui.
- Lei crede in un paradisiaco
Si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli più di quanto non avesse già fatto il vento.
- Non quanto mi piacerebbe. -
La donna annuì, accarezzando nuovamente con lo sguardo la lapide e buttando fuori uno sbuffo di fumo denso, dopo averlo aspirato dalla pipa che ancora teneva tra le labbra.
- E’ un problema molto comune, tra chi non sa mentire bene. Soprattutto a se stesso. -
Kazuhiko si sentì sorridere.
- Lei è una persona particolare, vero? -
- Non più di qualunque altra donna che ha perso un figlio rimanendo sana di mente, nei limiti del possibile. -
***
La cerimonia era terminata.
Non c’era più un’anima che fosse una, solo il monaco custode che spazzava i vialetti tra le tombe.
Kazuhiko guardò un’ultima volta il petalo rosa, ora nuovamente poggiato sul suo palmo, poi alzò la mano e se lo tirò dietro le spalle, abbandonandolo tra le invisibili mani del vento.
E posando subito dopo lo sguardo sulla prova, in pietra e kanji, che non si sognato tutto, si rese conto che era successo davvero.
Era sparito tutto.
La pelle troppo bianca, gli occhi scuri e grandi. I sorrisi più tristi che nei momenti ancor più strani lei gli scioglieva negli occhi, appoggiata sulle sue ginocchia, magari lisciandogli i capelli, baciandolo sulle labbra subito dopo.
Ricordò Oluha, e per la prima volta in vita sua fu preso dal panico più completo e stordente. Sentì il fiato scomparire e strinse i pugni per non muoverli nell’aria, come per aggrapparsi alle immagini che sentiva bombardargli la testa, artigliarle anche a costo di distruggersi le unghie, le mani, e fermarle, avvolgersele addosso e vivere così, circondato dai ricordi, da Oluha, dal mal di cuore che lo prendeva sempre quando la guardava, perché le cose troppo belle fanno sempre un po’ male.
Magari anche solo tornare a pochi secondi prima e riprendere quel petalo di ciliegio, guardarselo ancora un po’ e forse portarlo a casa, ché una cosa in più sapiente di lei non poteva fare poi tanto più male. O forse sì, ma qualcosa che ricordava Oluha non meritava di sparire.
E, già che si parlava di desideri strazianti, avrebbe voluto potersela osservare sorridente ancora un po’, e basta, sorridere e baciarla una volta in più, sentirla prendere bonariamente in giro i suoi capelli mai del tutto pettinati e dire che cantare con ancora nel cuore le sue carezze e la sua voce arrochita dal desiderio la rendeva più brava e le addolciva la voce.
Morte.
La parola più definitiva e crudele che esista.
Se ne rese conto sul serio solo in quel momento, e pensò a ciò che le aveva promesso:
[- Mi ami? -
- Lo sai bene. -
- E’ vero, ma
sentirselo dire da te in persona è sempre bello. -
Sorridere.
- Già.
- Kazuhiko. -
- Cosa c’è? -
-Manterrai la
promessa, vero? -]
- Neanch’io morirò
prima di te, Oluha. Io sono molto forte! - (*)
Forte, certo. Ma guardando quella tomba, pensò che quella forza non sarebbe stata mai abbastanza.
Non abbastanza da tirare dritto ed archiviare la sua morte semplicemente come un’orribile esperienza.
Non abbastanza da trasformare Oluha in un lontano ricordo rosa scuro, amaro e pungente perché “non doveva finire così”.
Non abbastanza da essere felice come lo era stato negli ultimi mesi.
E, sicuramente, non abbastanza per riuscire ad amare qualcun altro.
La morte poteva anche avergliela portata via, ma ormai nessuno lo avrebbe mai convinto che fosse qualcuno di diverso da Oluha, la persona che era nato per amare.
Kazuhiko era un individualista, ma senza Oluha si sentiva semplicemente solo.
Si avvicinò alla tomba senza fare rumore, quasi stesse solo sfiorando il terreno, invece di calpestarlo.
Con la stessa delicatezza sfiorò appena il marmo lucido, i polpastrelli a passarci sopra senza darsi il tempo di avvertire la freddezza del materiale.
E con un inaspettato sorriso stirato sulle labbra pallide, gli occhi che non riuscivano nemmeno ad inumidirsi, il ricordo del buco nel petto di Oluha a pulsargli nella mente, disse piano, o forse solo pensò:
- Te l’avevo promesso, no? Io sono ancora qui. E lo troverò. Chiunque sia stato io... lo troverò. -
Di nuovo, desiderò avere ancora con sé quel petalo di ciliegio. Sarebbe stato bello e anche abbastanza poetico, appoggiarlo tra gli ingombranti e maestosi fiori portati dagli altri partecipanti alla cerimonia.
Proprio vero che alla vita manca sempre qualche dettaglio per essere perfetta, persino nei momenti più tristi, o disperati, o semplicemente troppo assurdi per essere veri. Sono cose piccole, ma quando servono non ci sono mai. Se le è prese la realtà, che ha sempre troppa fretta per essere poetica.
Quindi Kazuhiko poté solo avvicinarsi le mani alla bocca, scaldarsele col fiato e allontanarsi.
***
-
- Una persona cinica
direbbe nello stesso modo in cui si è arrivati al giorno corrente. -
La donna
ride piano, riuscendo miracolosamente a non soffocarsi col fumo appena
aspirato.
- Non si faccia ingannare. Ho avuto più volte la
prova che i cinici sono i peggiori,
quando si parla di disperazione. Uno come lei dovrebbe saperlo bene. -
Lui non risponde,
ma solo perché sa non essercene tutto questo bisogno.
- Beh, penso che
adesso sia il momento di andare. Ci sono fin troppe persone che non hanno il
tempo di aspettarmi. -
- Ha molto impegni
lei, eh? -
- Non se lo può
neanche immaginare. -
La pipa
lasciata scivolare fuori dalla bocca e mossa nell’aria insieme alla mano, in un
gesto quasi plateale per far intendere quanto
non possa immaginarselo.
- Non dev’essere
facile. Ha l’aria di essere abbastanza giovane, lei. -
Basta un’occhiata
quasi divertita per capire.
- Ho detto una sciocchezza, eh?-
- Non si preoccupi,
capita anche ai migliori. Io pure ne ho commessa qualcuna, in tutti questi
anni. -
E per un
frazione di secondo, a Kazuhiko sembra che lo sguardo di lei si soffermi nuovamente
sulla lapide davanti a loro. Ma è un’impressione troppo fuggevole ed imprevista,
perché non possa essere stato anche solo un effetto della luce. C’è una luce
strana, grigia ed accecante, nell’aria.
- Beh, - ripete la donna, sistemando con
una mano i fiori posti alla base della lapide - adesso vado davvero.
Un cenno
col capo e comincia ad allontanarsi senza fretta. Una gran massa di fumo torna
ad avvolgerla tutta, quasi la volesse far sparire nel proprio grigiore per
mezzo di un abbraccio denso, e dall’odore tanto penetrante da far abbassare le
palpebre.
- Solo una cosa. -
Si sente
dire Kazuhiko. Quel giorno si sente fare e dire un sacco di cose senza aver
prima dato il proprio consenso mentale. E’ un giorno troppo fumoso, e forzato.
- Come ha detto che si
chiama? -
Scuote il capo, lei, facendo disperdere con movimenti
impazziti il fumo.
Ha
spezzato l’abbraccio.
- Non le ho mai detto
il mio nome. -
- Quindi? -
- E’ così importante?
-
Lui si limita
a scuotere le spalle con noncuranza.
Mista a
una lieve curiosità, forse.
- Yuuko Ichihara. -
E per
l’ultima volta sorride in quel modo tremendo, forse con un sottile velo di
amarezza in meno, per poi scomparire con la sua tranquilla andatura fiera e
dignitosa dietro ad un cipresso. Kazuhiko non si da la pena di scoprire che non
vedrà nessuna signora Ichihara passare oltre quell’albero, preferisce schiacciare
la sigaretta sul terreno e allontanarsi con le mani infilate nelle tasche
dell’abito elegante; subito dopo avere gettato un’occhiata più da vicino a una
certa cosa.
L’ultimo
pensiero prima di lasciarsi riempire l’animo dalla sua lapide, di nuovo visibile e [troppo] vicina, è che, come
“Yuuko Ichihara”, neppure il nome inciso sulla lapide del il figlio della donna
gli dice qualcosa.
Kimihiro Watanuki.
***
- Fatto? -
- Sì, grazie per avermi aspettato. Spostarsi con l’auto dev’essere strano per te. -
Gingetsu scosse le spalle.
- Non fa differenza. -
Lui rispose con un nuovo sorriso gentile e stirato, poi mise la cintura.
- Non occorre. -
Disse Gingetsu quando l’altro, una smorfia distratta sul volto, gli porse la propria sigaretta: si scusò anche per non averci pensato prima, dato che oltretutto la funzione era stata pesante, soprattutto per chi come lui era rimasto a presenziarvi.
- Sei gentile. -
Rispose al suo diniego. Continuò a sorridere, gli occhi socchiusi, la voce calma.
- Non parlavo della sigaretta. -
Kazuhiko sbattè un paio di volte gli occhi, poi lasciò che le labbra si piegassero nella smorfia rigida e stanca che in quel momento sentiva venirgli naturale; appoggiò le lenti sul cruscotto e si massaggiò le palpebre con pollice ed indice. Si preparò a un silenzioso viaggio di ritorno, e sospirò.
- Sei gentile. -
La macchina partì. I tergicristalli cominciarono a pulire il vetro da un paio di gocce solitarie cadute senza apparente motivo, e da uno stropicciato petalo di ciliegio portato lì dal vento.
Fine