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Autore: nainai    15/09/2007    4 recensioni
Brian Molko non tornava a casa da nove anni. Quante cose non dette erano ancora lì ad aspettarlo?
Genere: Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian Molko, Stefan Osdal
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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Ci tengo a ringraziare Lizzie e Rinnie e per l’aiuto che mi hanno dato anche con questo secondo capitolo e per aver recensito il primo capitolo della storia.
 
The Devil’s song
 
Io e le mie assurde idee.
Buongiorno, Brian, ottima trovata quella di affittare una macchina per attraversare praticamente tutta l’Inghilterra ed andare a sbattere alla “villa di famiglia” di mammina, dall’altro lato della Scozia! Odio Stefan per non avermelo impedito. No, lui ha preferito non aprire bocca. Si è limitato a recuperarmi dei vestiti dalla mia stanza e portarmeli in soggiorno, per poi lasciarmi lì e cominciare a preparare le valigie. Una per me. Una per sé. Sono convinto che se io fossi rimasto seduto sul divano, fissando intontito il muro come stavo saggiamente facendo, lui avrebbe anche prenotato il volo e mi avrebbe caricato sull’aereo e portato a destinazione in un tempo ragionevolissimo. In fin dei conti si è occupato di prenotare l’auto - dopo che io sono piombato nella sua stanza con questa idea strampalata - e di avvisare Steve ed Alex che mancheremo per un po’ ed è meglio annullare qualche impegno più pressante. Ma non si è opposto quando ho detto che non sarei salito su un aereo per niente al mondo e che ci sarei andato in macchina.
Che poi è chiaro che dopo ore chiuso qui dentro io mi senta male. È praticamente da quando siamo partiti che il mio stomaco ha deciso di arrotolarsi su se stesso, formando una palla unica che mi preme la pancia e mi da la nausea. E non sopporto neanche la musica. Ho mal di testa, vorrei stare in silenzio…
Mi volto di scatto ed allungo una mano in un gesto rabbioso, spengo l’autoradio, con tanta foga che mi stupisco di non distruggerla, e mi lascio ricadere contro il sedile, assestandomi subito dopo con un movimento altrettanto brusco e nervoso. Stefan mi guarda di sottecchi ma non parla.
-Mi irrita.- mi giustifico.
E la cintura mi soffoca. La slaccio e la rigetto contro la portiera, visto che ci mette troppo ad arrotolarsi da sola.
Ho bisogno di fumare.
-Chissà se mia madre ha già avvisato Barry.- comincio a parlare, in tono distratto. Spengo l’accendino con un colpo del polso, lo tiro sul cruscotto e mi appoggio all’indietro.- Ma figurati, lui sarà al capezzale di “paparino” da giorni ormai.
-Non sai quanto sia grave la situazione, Brian.- ribatte Stefan paziente. Odio quando sfoggia quel tono paziente.- Avresti dovuto richiamarla.- arriva il suggerimento inevitabile.
-Avrei dovuto fottermene e restare a casa.- ritorco io senza guardarlo.- Avevamo abbastanza da fare da non avere tempo per stronzate inutili.
So che ho ragione. Sarei dovuto sul serio rimanere a casa ed aspettare che fosse lei a richiamarmi. Con la notizia della morte del vecchio, magari.
Io e mio padre non ci parliamo da anni. È successo molto prima che io fuggissi di casa, subito dopo il diploma, mandando definitivamente a monte i suoi sogni di gloria. Che comprendevano Università, carriera brillante, moglie bellissima e nipotini che lui potesse far saltare sulle proprie ginocchia e riempire di balocchi, per riscattarsi di tutte le proprie mancanze di genitore in tal senso.
Non gliene porto neppure rancore, sia chiaro, non reputo la responsabilità sua più di quanto la attribuisca a me stesso. Magari lui non sarà mai stato capace di capirmi, ma io non sono mai stato capace di spiegarmi. Pari e patta, papà. Ma, scusami se te lo dico, di te me ne fotte davvero troppo poco per farmi un’intera nazione in macchina. Posso perdermi la diretta della tua dipartita senza troppi problemi, mi accontento della telecronaca in differita, da parte di mamma o di Barry non importa.
Sta calando la sera. La sigaretta mi serve solo per fare aumentare nausea ed emicrania, così capisco che il mal d’auto non mi permetterà di proseguire oltre. Adocchio un “bed and breakfast” sul lato della strada.
-Fermiamoci. Ripartiamo domattina.- dico indicandolo.
Stefan mi guarda. Probabilmente si sta chiedendo se sia il caso di contraddirmi. Se sia davvero ciò che voglio, fermarmi per la notte, o se stia soltanto aspettando e sperando che lui mi costringa a proseguire. Deve optare per la prima risposta, perché la macchina s’infila bruscamente nella svolta della strada e ferma davanti ad un cottage basso e carino. Scendo per primo e mi dirigo deciso verso la porta principale, superando la soglia aperta; da fuori mi arrivano i latrati dei cani ed il loro abbaiare, Stefan li rabbonisce con poche frasi, poi mi segue dentro.
La signora che ci ha accolto non ha commentato la nostra richiesta di una camera doppia, ma dallo sguardo che mi ha rivolto capisco fin troppo in fretta che ha già valutato, giudicato e condannato. Ci sono talmente abituato da non farci più caso, anche se so che il motivo per cui, appena oltre la soglia, mi butto sulle labbra di Stefan, ha a che fare anche con quell’occhiata silenziosa.
***
Nell’immaginario dei bambini le cose diventano sempre gigantesche. L’ultima volta che sono stato qui avevo dieci anni, ai miei occhi ogni singola cosa appariva gigantesca. Il piazzale della villa. L’ingresso monumentale. I saloni dai soffitti dipinti. La livrea del maggiordomo, così antiquata. Mio nonno e mia nonna, eleganti ed austeri negli abiti pesanti. Adesso fisso i loro ritratti, appesi all’ingresso, e penso che sono decisamente passati di moda.
Morire non è stata una cattiva decisione arrivati ad un simile punto.
Sicuramente la più logica nelle loro esistenze.
Il maggiordomo che ci ha aperto non ha livree antiquate. Mio padre è molto più “alla mano” in certe cose, lui è un uomo moderno, pragmatico, ed infila, ostinato, il pragmatismo nella vita di chi lo circonda. Ereditata la magione genitoriale, mia madre si è trovata a riformarla secondo i suoi dettami, mi stupisce che i ritratti dei nonni abbiano resistito all’opera di modernizzazione apparente.
-Il signore non ha avvisato che arrivava e che veniva accompagnato.- mi dice l’uomo in tono formale. Inclino il capo e lo osservo. Ah, già. Stefan, realizzo.- Avvertirò la signora che è qui.- c’informa subito dopo, indicandoci di seguirlo ed accennando ad uno dei salottini al pian terreno.
È bello sapere che a casa nessuno si aspetta davvero il tuo ritorno.
La mia impressione viene confermata quando, dopo dieci minuti di anticamera nel suddetto salottino, l’uomo ritorna senza mia madre e con la preghiera di seguirlo perché ci mostri le nostre camere.
Sarei tentato di ribadire anche qui che ne basta una sola. Lo farei davvero. Mi chiedo perché non lo faccia, mentre lo seguo su per le scale.
Le camere sono comunque abbastanza vicine da farmi passare la voglia di mostrarmi ribelle da subito. Del resto Stefan mi implora silenziosamente di non farlo, superandomi per entrare due porte più avanti in una stanza presumibilmente identica alla mia, altrettanto vuota ed impersonale. Si sono preoccupati di sistemarci già i bagagli, chiudo la porta in faccia al maggiordomo, assicurandolo che non ho più bisogno di lui, e comincio a spogliarmi. Sono certo che tentare di affogare nella vasca da bagno sia un’ottima soluzione, quando si hanno ancora due ore a disposizione prima della farsa serale. Ora di cena, sette e mezza in punto.
-Brian!
Se c’è una sola persona che avrei voluto rivedere nella mia famiglia, quella persona adesso è qui.
-Barry!- ricambio, riuscendo per una volta tanto a non suonare sarcastico mentre lo faccio. E a non scostarmi quando lui mi abbraccia, a ricambiare, anzi, la stretta delle sue braccia intorno alle mie spalle.- Mi sei mancato.- gli sussurro all’orecchio.
Barry è l’unico con cui io sia ancora in contatto. Mia madre ogni tanto mi chiama, ed io, qualche volta, le rispondo. Di solito sono telefonate brevi e concise, in cui lei mi chiede come sto, io le mento un pochino – giusto quanto serve per farla sembrare una vera telefonata – e poi ci lasciamo con un “ci sentiamo presto” che nessuno dei due rispetta.
Mia madre.
Quando Barry mi lascia andare con un sorriso triste, non ho più scuse per non notarla. Già seduta a tavola, compita al proprio posto a capotavola, sul lato sinistro entrando nella stanza da pranzo. Ha le mani in grembo, un abito listato di nero, i capelli raccolti. L’immagine di una vedovanza non ancora consumatasi. È davvero più vecchia di come la ricordavo.
-Ciao, mamma.- saluto asciutto, avanzando nella stanza.
-Brian.- risponde lei in tono roco.
Sono certo di ricordare che c’è stato un tempo in cui mia madre ha avuto una voce bellissima, una voce così bella da incantarmi. Me la ricordo con una precisione tanto nitida che non posso averla semplicemente immaginata.
E sono certo di ricordare anche che una volta la sua pelle non fosse così fredda, né la sua carne così rigida. Quando la baciavo le sue guance sapevano di buono, adesso non sanno di nulla di piacevole. Di cosa si stupiscono “gli altri”, se non desidero la sua vicinanza?
Mi seggo accanto a lei. Stefan si è presentato da solo, io non avevo voglia di farlo. Barry lo conosce, è ovvio, si sono salutati con un certo affetto. Non si sono mai visti prima di oggi, ma si sono sentiti al telefono spesso. Mia madre è informata quanto mio fratello, glielo leggo in faccia e so di Barry abbastanza da immaginare che le abbia detto anche quello che le riviste e la televisione non dicono. Marguerite, la moglie di mio fratello, è brava a tenere in piedi la conversazione anche dopo che mia madre ha accolto la presentazione di Stefan con uno sguardo incolore ed un cenno del capo. S’informa su come stiamo, su come vada il lavoro. Si complimenta per il nuovo album, ci dice che lo ha ascoltato con Barry e che le è piaciuto molto. Ci invita a casa loro, se qualche volta ci troviamo a passare in Francia.
Non so se siano menzogne, ma a guardarla non credo che lo siano. Barry non le accetterebbe. A mio fratello piace in modo irrazionale difendermi, fin da quando eravamo piccoli. Mi domando se davvero andrei a casa loro, ma penso che non lo farei.
Educatamente chiedo a Marguerite dei miei nipoti. Ne ho due, ho anche le loro foto da qualche parte a casa, in un cassetto. Lei mi risponde che, date le circostanze, non si sono sentiti di portarli con loro. Se ce ne sarà bisogno, li chiameranno.
Date le circostanze.
Mia madre ci tiene a ricordarmi che le circostanze mi sono ignote, si schiarisce la gola e si volta verso di me.
-Tuo padre ha un tumore.- annuncia nello stesso tono incolore che abbiamo usato per scambiarci convenevoli al mio ingresso in sala.
C’è un breve rumore di stoviglie e posate. Breve davvero. Il minimo accettabile in una società civile che porta rispetto a determinate sciagure umane.
Io la osservo senza commentare. Non renderò il compito più facile a nessuno di loro, conosco le regole di questo gioco e le ho rifiutate già da molto tempo. Adesso si gioca secondo le mie regole, ed ovviamente sono loro a non conoscerle ed a doverle indovinare.
Dalla mancata presenza di mio padre a tavola deduco già che non si tratta di uno scherzo. Piuttosto che accettare di farsi passare per malato, mio padre preferirebbe farsi passare per morto; se non è qui ma nella propria camera a languire in un letto, allora significa che ha già accettato il ruolo di cadavere che cammina.
Lei mi da ragione subito dopo.
-Il dott. Muhl gli ha già fatto fare tutte le analisi necessarie.- ci tiene a spiegare.- I medici hanno detto che, se la malattia progredisce secondo gli standard del caso, potrebbe vivere un anno, un anno e mezzo al più.
Inarco un sopracciglio, posando il capo sulla mano mentre la osservo.
“Tutto questo tempo?!”
Mio padre non si smentisce mai, gli piace far penare la gente qualunque cosa decida di fare…
-Avresti potuto dirmelo al telefono.- ribatto quasi stupito.- Ho dovuto mandare a monte degli impegni importanti per venire qui.- aggiungo.
Incrocio lo sguardo di Stefan.
Sarebbe più corretto dire che è il solo sguardo che cerco, subito dopo aver finito di parlare. C’è un momento, che segue ogni affermazione lapidaria, in cui a livello emotivo la mente riesce a superare lo strato di livore e risentimento che ci ha indotto a parlare. Si chiama senso di colpa. Dura meno di un secondo, ma basta quel secondo per farmi cercare gli occhi di Stefan.
E farmi provare intatta una vergogna bruciante, quando vi leggo la sua disapprovazione.  
***
Mio padre respira già a fatica. Quando passo la soglia e lo vedo steso nel letto, le mani ai lati del corpo appoggiato contro i cuscini e gli occhi chiusi, ho la sensazione spiacevole che si stia quasi allenando a fare il malato.
Immagino che sia una sensazione che nasce esclusivamente dalla mia mancanza di affetto.
Mia madre mi ha sempre accusato di non provare alcun affetto per mio padre. Come se questa cosa dipendesse da una mia scelta consapevole e non fosse, invece, che l’affetto nasce spontaneamente ed è la conseguenza delle scelte di un genitore verso il figlio. Per buona parte della mia infanzia e dell’adolescenza, comunque, sono stato convinto che il non provare alcuna tenerezza verso quest’uomo fosse una mia cattiva qualità e null’altro.
-Papà.- mormoro piano.
So che il tenere la voce così bassa è solo l’ultimo tentativo di impedirmi di averci ancora a che fare. Magari avrei dovuto voltare la macchina e tornare indietro stasera stessa, subito dopo cena. Non sta davvero morendo, non ha davvero bisogno di me.
Ma poi ho messo a fuoco che mio padre non ha mai avuto davvero bisogno di nessuno, ed ho capito che le sue condizioni fisiche non hanno niente a che vedere con la mia presenza qui. In realtà è mia madre, che ora mi aspetta commossa fuori dalla porta di questa stanza, ad avere bisogno di me.
O meglio, ad avere bisogno di questa immensa finzione che vede la sua famiglia riunita sotto lo stesso tetto in contemplazione del suo futuro di angosciata ed onorata vedova.
Non ho fortuna. Lui mi sente lo stesso. Penso che probabilmente era già sveglio, che ha finto solo per farsi trovare nella posizione “corretta”, date le circostanze, e poter così rispettare il personaggio.
Se qualcuno mi chiedesse da chi ho imparato a fingere così bene di essere qualcosa che non sono, non avrei dubbi nel rispondere. Ma ho imparato la lezione talmente bene che nessuno si accorge di quanto mento.
Fatti i complimenti da solo, papà.
Mi guarda. O meglio, ci guardiamo. Ci osserviamo attraverso una distanza che copre quasi nove anni di fughe. Io da lui, per primo. Quando ho mollato tutto e sono volato in Inghilterra per diventare qualcosa che lui potesse disprezzare. Lui da me, dopo. Quando – me lo immagino – ha negato con amici e parenti che io fossi davvero io, vedendomi alla televisione o sui giornali.
Ipocrisie diverse. Stessa guerra, combattuta da due trincee opposte. Siamo bravi nel gioco al massacro, siamo uguali nel fare male agli altri e nel farcelo da soli.
Solo che io lo ammetto.
-Junior.
Ah, già. Siamo uguali anche in questo.
Immagino che farti notare quanto sia avvilente essere chiamati con un epiteto generico sia inutile tanto quanto lo era quando lo facevo da ragazzino. La tua autostima ti impone come dovere morale di appestare la vita di tuo figlio, affibbiandogli qualcosa della tua eredità anche quando lui si è rifiutato di prendersi pure solo uno spillo che ti appartenesse.
-Come stai?- mi sforzo di chiedere.
Non ci provo nemmeno a fingere di essere felice di vederti. O sinceramente preoccupato per te. Lo sai che non m’interessa nulla di essere qui, che al più fremo per poter uscire dalla penombra pesante di questa stanza vecchia di secoli. Che tutto ciò che vorrei è essere ancora nel casino infestante di Londra, a bere birra e scoparmi ragazzi, solo per renderti orgogliosamente disgustato da me. Siamo entrambi più felici, papà, molto più felici, quando io faccio ciò che “tu hai sempre immaginato sarei finito a fare” ed io me ne riempio la vita al punto da dimenticarmi di te.
-Sto morendo.- risponde teatralmente.
Così che sono costretto a stringere le labbra per non scoppiare a ridere.
Non cercare di farmi fesso, papà. Non sono come tutti gli altri, io.
-Volevo vedervi, Junior, tu e tuo fratello.- continua con tono sofferto.- Volevo parlarvi prima di andarmene.
Tu non stai davvero morendo. Non te ne stai andando. Renderai la vita di mamma un inferno per un anno. Un anno e mezzo, anche. Poi la lascerai sfinita e lei avvizzirà ed agonizzerà per un tempo molto più lungo del tuo.
E vuoi sapere perché io e Barry siamo qui oggi, papà? Perché speri di fare lo stesso con noi.
Lo guardo. I miei occhi avevano istintivamente preso a vagare per la stanza mentre parlava, per evitare di fargli leggere il mio divertimento. Ora che ho chiaro tutto, però, so anche che posso guardarlo senza ridere.
E so che posso fare di peggio.
Lascio cadere le mani che avevo infilato in tasca, la mia posa rigida si scioglie ed io sorrido con sincerità.
-Mi fa piacere, papà. Anche perché c’è una persona che vorrei presentarti.- dico quasi con dolcezza.
So che mi guarda stupito. I colpi di scena, se non li ha programmati, non sono qualcosa che apprezzi particolarmente. Anzi, diciamo che gli danno proprio fastidio.
Apro la porta esultando dentro di me, mi affaccio fuori ed evito lo sguardo interrogativo di mia madre. Barry e Stefan stanno parlando poco più in là.
-Puoi venire un secondo, Stef?- chiedo educatamente.
Mia madre si allarma. Lei non è brava come me e papà nel gioco al massacro, ma in tanti anni di convivenza ha imparato i meccanismi di base.
Li ha imparati anche Stefan, per questo esita e mi guarda a lungo prima di sospirare e venire verso di me.
-Voglio presentarti mio padre.- confermo ad alta voce, ancora nel corridoio.
E se anche so che lui mi sta dicendo di non farlo, lo prendo per mano e lo porto dentro.
Barry ha informato anche papà. O, più facilmente, mia madre se n’è lasciata scappare una di troppo mentre prendeva il the con le amiche, lamentandosi di me e confessando, opportunamente riparata dietro una mano affranta, le colpe segrete del proprio povero figliolo.
O magari è stato il pastore a parlare con mio padre, dopo che mamma ha confessato a lui le mie colpe.
O ancora qualcuna delle mie vecchie fiamme, o qualcuno dei miei rispettabili compagni di scuola.
Non lo so, ma so che trovo esilarante vedere la faccia di mio padre in questo momento.
-Lui è Stefan Olsdal, papà.- dico con calma.- Il mio ragazzo.
Se stai morendo, è il minimo che posso fare per te, papà. Essere sincero fino in fondo.
Quindi, per prima cosa, mi presento.
 
 
 
  
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