NON STO SCAPPANDO.
“Va tutto bene papà”?
Quella voce così sottile e acuta mi
fa sobbalzare il cuore.
Rivolgo uno sguardo allarmato a Laura
sperando che la mia piccola non abbia sentito nemmeno una parola del nostro
discorso; eppure i suoi occhi sono lucidi,
il mento le trema come se stesse per sprofondare in un immenso pianto,
ma riesce a trattenersi.
“Certo tesoro”
Con una voce calma e rassicurante
Laura riesce a dire quello che avrei voluto dire io, ma non ho saputo farlo.
Non so mentire.
Si allontana portando nella cameretta
la bambina e prima di voltare l’angolo mi volge uno sguardo rammaricato. Rimango
solo in cucina, seduto su una sedia rotta che avevo promesso di riparare almeno
un mese fa. Adesso dovranno chiamare qualcun altro per ripararla, perché io non
ci sarò più. Dovranno chiamare qualcun altro per portare i soldi a casa, per
raccontare le favole la sera alla piccola Elena, per mettersi nel suo letto con
lei quando di notte avrà paura.
Ho il tempo di riflettere su tutto
ciò che accadrà prima che Laura torni e si sieda di fronte a me spostando la
sedia con cura per non svegliare la bambina.
“Devi dirglielo” mi sussurra
prendendomi le mani.
“Devi dirle quello che hai intenzione
di fare. Se non glielo dirai sarà peggio.” Continua.
“Non posso.”
“Non puoi? Analizza la situazione da
parte della bambina: suo padre sta per partire in guerra e nemmeno glielo dice.
Non le lascia niente…”
“Cosa devo lasciarle? Lacrime e
soltanto lacrime!”
“Un abbraccio, una carezza sul viso,
uno sguardo rassicurante, un ti voglio
bene… le cose che una bambina si aspetta dal padre.”
Abbassa lo sguardo cercando di
rimandare indietro la gocciolina che le esce dall’occhio. Ma non ce la fa e la
gocciolina scende su tutto il viso; poi un’altra, un’altra e un’altra ancora.
Ha il viso rigato dal trucco nero che risaltava i suoi occhi blu, come il fondo
del mare. Io sto andando nel fondo del mare. Sto sprofondando. Mi sento colpevole, per non
aver mantenuto la mia famiglia felice. Sono colpevole di lasciare una bambina
senza suo padre e una moglie senza marito. Lascio la casa, il paese, il mio
misero lavoro e il cucciolino di cane randagio preso appena una settimana fa.
Ecco che Laura alza lo sguardo verso
di me. Ormai non può più nascondere il suo pianto e tra un singhiozzo e un
sospiro cerca di farmi la domanda a cui non avrei mai voluto rispondere:
“Devi andare per forza?”
La risposta è no. Ma voglio andare.
“Mio padre…” alzo il tono di voce e
improvvisamente mi blocco. Faccio un profondo respiro e continuo abbassando la
voce: “Mio padre è stato ucciso. Mia madre e i miei fratelli sono stati uccisi.
Il mio paese è stato maltrattato e tormentato dagli Americani. Io sono
scappato! Sono scappato qui solo perché stavo con te e volevo salvarti. Per
salvare te ho perso la mia famiglia, la mia religione, le mie abitudini e
usanze. Ho finto di essere quello che non sono:
un americano.
Ho tradito il mio paese per stare con
te e per salvarmi la pelle. Ma ora…
“Ma ora cosa? Vuoi dire che è colpa
mia se ora sei salvo e hai una figlia?”
Non mi da il tempo di continuare.
“E’ colpa mia se il tuo paese è stato
distrutto ma tu sei qui con me e vivi in una bella e grande città? Sono solo
altri iraniani che si stanno ribellando! E tu vuoi andare con loro a morire?”
Continua a piangere e singhiozzare.
“Non sai se morirò. Se quello è il
mio destino è giusto che si compia. Se il destino vuole che io mantenga una
famiglia, tornerò sano e salvo. Devo rendere giustizia! Devo fare quello che
non ho fatto prima: combattere per la patria.”
Cerco di mantenere la calma
nonostante mi senta colpevole di tutto. I miei fratelli hanno combattuto e io
sono scappato. Sono stato l’unico a fuggire… per amore.
Non posso più fingere di aver
scordato il passato. Ho già fatto il soldato e so combattere. Devo solo sapermi
anche difendere.
Chiudo gli occhi e cerco di
immaginare la guerra. Ne uscirò vivo?
Sento un rumore improvviso e quando
riapro gli occhi Laura non è più davanti a me.
Vado nella stanza di Elena e mi metto
seduto sul suo letto accanto a lei. Il ricordo della voce di Laura mi riempie
la memoria e le sue parole mi indicano la giusta strada, quindi abbraccio la
piccola, e poi le faccio una carezza sul viso; quando apro la bocca per prender
parola lei mi interrompe:
“So tutto papà. So che per te è
difficile; non devi dirmi niente.”
Il cuore mi batte forte in gola nel
risentire quella voce acuta di una bambina apparentemente piccola e ingenua.
“Tesoro io partirò per un po’. Ma ci
vedremo presto. Promesso.”
“Non voglio promesse che potresti non
mantenere. Preferisco che dici spero di
rivederti presto. E ora chi continuerà a insegnarmi a suonare la chitarra?”
Mi scappa un sorriso e mi piange il
cuore se solo penso che crescerà senza di me. Io, che avevo promesso di esserci
sempre per lei, sin dalla nascita, proprio ora me ne vado.
“Sei abbastanza grande per imparare
da sola. Una cosa però voglio promettertela: ci scriveremo delle lettere. Ogni
giorno. Ci racconteremo le novità, nuove emozioni o pensieri… e saremo più
vicini che mai. Promesso?”
“Promesso papà. So che non mi
deluderai.”
“Ti voglio bene piccola.” Ancora
ricordo le parole di Laura. Mi alzo dal letto e comincio a preparare la valigia,
quando sento toccarmi una mano calda mi volto di scatto per vedere ancora quel
viso lucido dalle lacrime. Senza staccarmi lo sguardo di dosso, Laura mi aiuta
a preparare tutto il necessario.
E’ ora di partire.
All’aeroporto saluto Laura con un
abbraccio che ne valeva mille, ne do uno anche alla piccola bambina e mi avvio
per fare il check-in.
Prendo l’aereo e in una giornata, con
un volo parecchio stancante tra ricordi e preoccupazioni, arrivo in Iraq.
Spari, urla, fumi, panico. Panico. Mi
prende il panico. Non conosco più niente e nessuno e l’atmosfera è pienamente
da guerra. Mi ricordo di un vecchio amico di famiglia che faceva il calzolaio
così cerco di trovare la strada per raggiungerlo. Davanti il suo negozietto
c’era casa mia, ora distrutta e ridotta in cenere. È tutto buio perché è quasi
notte e ci sono solo campi con qualche maceria. Sono nella periferia di
Corpi stesi ovunque, bambini che
corrono aggrappati al braccio delle mamme con il viso coperto da un velo scuro.
“BOTTEGA DEL CALZOLAIO” trovo scritto
di fronte a me su un cartello illuminato da un lampione.
La porta del negozietto è socchiusa,
quindi la spingo delicatamente percependo uno strano scricchiolio. All’interno
è tutto buio, ma si scorge una lucina in fondo alla stanza. Cammino lentamente
stando attento a non toccare ciò che ho intorno.
Ma un grande rumore e un dolore al
piede sinistro mi fa sobbalzare. Sono inciampato in qualche attrezzo da
calzolaio e adesso proseguo un po’ zoppicando.
“Chi va là?”
Sono preso alla sprovvista da una
voce profonda e leggermente roca.
“Salve, ehm, io… ehm…”
“Chi sei?”
Alza il tono di voce e subito dopo
tossisce schiarendosi la gola.
Ma non vedo nessuno.
“Io… ehm… è una storia lunga.”
Dico sconsolato.
Pian piano comincio a vedere i tratti
di un volto e di un corpo abbastanza massiccio.
Sono improvvisamente illuminato da
una torcia parecchio grande e riesco a notare meglio le linee del viso sempre
più vicino. È un anziano, circa 85 anni, con una folta barba bianca e qualche
capello grigio ai lati della testa. Porta un mantello scuro che gli arriva al
ginocchio e gli avvolge il maglione di lana che porta lento su dei jeans lunghi
fino alla caviglia.
“Sei di qui?”
Mi domanda una volta accortosi della
mia analisi attenta al suo abbigliamento.
“Mmm si… cioè no… è una storia
lunga.”
Dopo un attimo di riflessione,
riprende: “Sei venuto qui per me?”
“No… ehm.. si… è una…”
“una storia lunga” continua lui al
mio posto “Capisco. Giovane, hai una storia breve che puoi raccontarmi
spiegandomi il motivo della tua venuta? Posso esserti utile in qualche modo?”
“Non ricordi niente di me?”
Il suo sguardo ora è allucinato; si
sforza di pensare al passato, di ricordare.
“Dammi un indizio.”
Abbassando lo sguardo rispondo: “Casa
qui di fronte, passeggiate al fiume ogni domenica anche d’inverno, interi giorni
passati a giocare a palla con tuo figlio ai campetti del paese…”
“Micael!”
Sollevo lo sguardo tutto d’un tratto,
appena in tempo per essere stretto forte in un abbraccio un po’ tremolante. È
lui che trema. Dai suoi occhi pienamente azzurri esce una luce che mi abbaglia.
So che ora sta ricordando il passato, lo vedo anche io.
Ci vorrebbero altri migliaia di
questi abbracci per ricordare tutti quei giorni passati insieme. Lui era la mia
guida, il mio maestro, il padre del mio migliore amico. Andavo da lui se avevo
un problema con una ragazza, andavo da lui se non sapevo come passare il tempo
e lui mi raccontava della storia, della filosofia. È sempre stato un uomo molto
colto e saggio rispetto a tutti gli altri abitanti del paese.
“Vieni, non c’è tempo da perdere.
Devo farti vedere alcune cose.”
Subito mi prende la mano e mi porta
in fondo alla stanza, dove c’era quella lucina, che in realtà è una piccola
lampada con disegni orientali, poggiata su un piccolo tavolino.
Entriamo in uno stanzino illuminato
da una grande lampada rossa. Pareti disegnate con tutti i colori, mappe appese
su tutto il muro, due sedie vecchie e una grande e comoda poltrona messe tutte in
un angolo, e al centro una scrivania di legno chiaro riempita di fogli, carte e
altre mappe.
“Dopo che te ne sei andato, Mark…”
“Mark, tuo figlio? Il mio migliore
amico?”
Comincia a scendermi una lacrima
dagli occhi.
“Si, lui. È stato ucciso con una
bomba in un negozio.”
Rimango fermo lì sperando che quello
che mi sta dicendo sia solo un brutto scherzo. Ma perché dovrebbe scherzare,
non ne avrebbe motivo.
La lacrima scende lungo il viso piena
di amarezza, rabbia e vendetta. Mark era l’uomo più giusto che io avessi
conosciuto nella vita, l’uomo più fragile e sensibile; quello che quando ne
avevo bisogno mi ospitò a casa sua in segreto per tre settimane, quello che si
prendeva la colpa e mai il merito, l’uomo che era cresciuto per età ma era
rimasto il bambino ingenuo e sensibile di sempre, quello che piangeva se
provavi a lasciarlo solo e si disperava appena gli dicevo scherzando: non ci
vedremo più, addio. Poi venne il giorno in cui dissi davvero quelle parole e vidi
il suo sguardo rammaricato, come se avesse appena perso suo padre, quello
sguardo, deluso ma pieno di speranza, fu lo sguardo che giurai di non rivedere
mai più. Giurai di non ferire più nessuno in quel modo, dicendogli che sarei
dovuto partire per sempre. Per un attimo lo rivedo accanto a me e con una mano
gli sfioro la spalla, consolandolo. Ma lui non è qui.
Avrei voluto dirgli tante cose:
quanto mi dispiaceva averlo lasciato così, senza nemmeno un preavviso, senza
ascoltare un suo consiglio, senza lasciarlo parlare perché mi avrebbe fatto solo
più male. Ricordo il momento del nostro addio: eravamo al solito campetto dove
giocavamo a palla ogni sera, quando io presi la palla e lo esortai a corrermi
incontro. Eravamo grandi, ma a 20 anni giocavamo ancora come due bambini per
non perdere la loro qualità migliore: il divertimento.
A un certo punto, quando lui mi era
vicino, lo abbracciai forte quasi facendogli male. Era un abbraccio confuso,
pieno di gioia, rabbia, tristezza.
Volevo ringraziarlo per i momenti
felici che mi aveva fatto vivere, per tutte le consolazioni che mi aveva dato,
ero furioso perché avrei dovuto lasciarlo solo, ed ero triste perché non avrei
potuto rivederlo più.
Ma tutto ciò non glielo dissi. Quando
iniziai a parlare riuscii solo a dire: Non ci vedremo più, addio. Proprio come
facevo quando lo prendevo in giro scherzando, tanto che la sua risposta fu:
“Adesso siamo grandi, basta giocare su queste cose.”
Mi scappò un sorriso amaro e annuendo
continuai: “Questa volta però è vero. Devo partire, forse per sempre. Mi
dispiace. Mi mancherai.” Vidi il suo sguardo diventare tutto a un tratto serio
e perplesso. Afflitto dal dispiacere che gli stavo dando, mi voltai e corsi via
verso casa senza mai guardare indietro. Corsi veloce come un lampo, in due
minuti ero già arrivato a casa, nella mia stanza, e guardavo dalla finestra il
campetto. Lui era ancora lì. Fermo e immobile come lo avevo lasciato. Non
vedevo la sua espressione ma riuscivo a immaginarla: la sua bocca fina tremava
e con essa si muoveva su e giù anche il piccolo neo che aveva al centro del
mento, gli occhi si socchiudevano pian piano e le guance gli si arrossavano. Si
tirava indietro il ciuffo di capelli biondi che gli stava sempre davanti la
fronte e poi cominciava a piangere in silenzio, come faceva sempre per non
farsi sentire dagli altri. Lui piangeva dentro, era abituato a farlo. Io ero un
ragazzo forte e duro, ma quella volta provai il brivido del pianto sia esterno
che interno. Mi guardai allo specchio e mi spaventai per il rossore improvviso
dei miei zigomi irrigiditi. Un botto mi fece arrivare in gola i battiti
accelerati del mio cuore. Mi affacciai alla finestra temendo che fosse accaduto
qualcosa a Mark. Invece no. Era la solita piccola bomba lanciata in un campo
non tanto lontano da casa mia. Chissà chi erano le anime sfortunate allora.
Stringevo i pugni chiedendomi come fosse possibile vivere in quella sofferenza.
Tirai le tende e feci subito la valigia. I miei occhi non piangevano più, era
l’anima, che continuava a soffrire.
Abbattuto dal ricordo di quel giorno,
girai subito la testa cercando di scansare via la memoria di Mark.
“Micael, devi riprenderti. Mark ti
voleva bene, te ne vorrà sempre. Ora devi combattere tu al suo posto.”
Le parole del vecchio Kamhal mi
tirano su il morale e a testa alta con vigore chiesi: “Dimmi quello che devo
fare.”
“Prima di tutto, vivrai qui. Queste
sono le armature e domani mattina si va in battaglia!”
Prende da una cassaforte una pistola e
me la porge da una mano e dall’altra mano mi porge i proiettili. Poi prende un
giubbetto antiproiettile e me lo indossa. Noto che lui già lo ha addosso.
“Ma… tu non combatterai vero?”
domando dubbioso.
“Ragazzo, quando diventi vecchio e
perdi ciò per cui hai vissuto, non hai altro da fare che combattere per quello che
hai perso.”
Dalle quelle parole rimango stupito e
nella cassaforte scorgo un’altra decina di pistole per non parlare della
quantità di proiettili! Mi domando dove le abbia prese ma questo ora non ha importanza.
Kamhal si siede su una poltrona mezza
rotta posta all’angolo della stanza e mi fa cenno di sedermi vicino a lui per
riposare.
Chiudiamo gli occhi, vicini vicini, e
mi ricordo del tempo in cui mi sedevo sulle sue ginocchia per farmi raccontare
delle storie, a volte culturali, altre d’avventura. Intanto lui a bassa voce
comincia a raccontare: “C’era una volta un bambino…”
Mi addormento con la sua mano che mi
accarezza la spalla.
La mattina seguente ricordo
dell’unica promessa che avevo fatto a mia figlia: scriverle. Cosi, vedendo gli
occhi di Kamhal ancora chiusi mi siedo alla scrivania, prendo un foglio, un
calamo e inizio a scrivere.