Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: Yoko Hogawa    13/03/2013    22 recensioni
In un mondo in cui le persone nascono con il nome della propria Anima Gemella "tatuato" sul dito anulare della mano sinistra, John e Sherlock vivono due situazioni particolari ed opposte. Mentre il primo è costretto a nascondere il proprio nome per non essere discriminato, il secondo ne è totalmente privo.
In modi diversi, entrambi crederanno di essere destinati a rimanere soli.
Finché non si incontrano.
[SoulBond!AU]
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Note: ok, secondo capitolo.
Come posso anche solo cercare di commentare la risposta che questa fanfic del tutto sperimentale ha ricevuto? Cioè... non posso, ecco tutto. Non in modo coerente, per lo meno.
Prendo questo piccolo spazio solo per ringraziare tutti coloro che hanno recensito, messo tra i preferiti o comunque seguito il primo capitolo. Mi avete fatto venire la sindrome d’aspettativa (8D) ma il ringraziamento è d’obbligo in ogni caso ♥
 
Questo capitolo è un po’ di passaggio... riguarda più che altro alcuni missing moments avvenuti durante e dopo le puntate regolari della serie.
Altra cosa sono i POV. Nel capitolo precedente erano alternati, in questo no. Volevo determinate scene con un determinato POV, dunque non ho mantenuto l’alternanza Sherlock/John, che userò di nuovo nel prossimo.
 
Auguro comunque, a chi vorrà, una buona lettura ♥
(e ALL HEIL per la quarta serie confermata! *___*)

______________________________________________________________________________________________________
 
2. Andante

 
 
 
 
 
Estrasse la pipetta dalla bottiglia di plastica del reagente, prendendone un quantitativo minimo. Portò la punta in plastica sul vetrino, facendone cadere una goccia sopra il suo campione – un residuo di vernice verde trovata sotto le scarpe del fratello della vittima.
L’uomo sosteneva che venisse da un muro, che aveva scrostato durante i lavori di ristrutturazione della nuova casa appena acquistata. Sherlock la pensava diversamente. Il fratello era il suo indiziato numero uno, combaciava tutto alla perfezione, tutti i pezzi del puzzle erano allineati perfettamente a formare il quadro generale e quel semplice esperimento gli avrebbe dato la soluzione che cercava (e la prova d’accusa che stava cercando Lestrade, ovviamente dalla parte sbagliata).
Il reagente cominciò subito a sfrigolare, provocando una reazione chimica con la goccia di vernice sciolta in base neutra. Mentre riponeva la pipetta sul tavolo, qualcuno bussò e la porta del laboratorio si aprì.
Sherlock lanciò uno sguardo in direzione dell’ingresso solo per sincerarsi di chi fosse. Usare a scrocco il laboratorio di un ospedale universitario aveva l’inconveniente nel fatto che non fosse suo. Era normale che i legittimi occupanti entrassero a loro piacimento (su questo non poteva farci proprio niente).
Come previsto era Mike, ma non era solo. Era accompagnato da un uomo – basso rispetto alla media, zoppo, taglio di capelli e portamento di stampo militare, ferito in azione? Ancora troppo vago. Abbronzato, in vacanza? In missione in Medio Oriente? Troppo presto per dirlo. Anello d’argento al dito, abbastanza largo come fattura, particolare interessante. Vestiti normali, usati ma non sgualciti o dimessi, classe media, introito modesto, disoccupato – che sembrava conoscere.
Distogliendo lo sguardo con noncuranza prese in mano il vetrino e lo mosse con movimenti circolari, osservando bene la reazione. Aveva cambiato colore. Presenza di ferro, dunque. La vernice non proveniva da un muro, ma da uno strumento che aveva un’anima di ferro che si era ossidato con il tempo. Come un cancello... o una scala.
Nel frattempo, il nuovo arrivato si fermò alla fine del tavolo, guardandosi intorno.
« Un po’ diverso dai miei tempi » commentò.
« Non sai nemmeno quanto » rispose Mike.
Istruito al Barts, medico, medico militare.
« Mike, posso prendere in prestito il tuo cellulare? Sul mio non c’è segnale » disse Sherlock sedendosi, il proprio cellulare in mano.
« Cosa c’è che non va con il fisso? » domandò Stamford in risposta.
« Preferisco gli SMS » ribatté velocemente lui, come se fosse ovvio.
Il nuovo arrivato li guardava in silenzio. Sherlock lo osservò con la coda dell’occhio.
Postura diritta, bene bilanciata, è fermo in piedi ma non si appoggia eccessivamente al bastone e non chiede una sedia. Zoppia psicosomatica?
« Scusa, è nel mio giubbotto » gli rispose al contempo Mike, facendo un cenno distratto al corridoio. Lo aveva lasciato in ufficio, probabilmente, appeso all’attaccapanni insieme al suddetto giubbotto.
Stava quasi per sbuffare seccato, quando il (l’ex?) soldato prese parola.
« Ecco, tenga... » cominciò, estraendo il cellulare dalla tasca dei pantaloni: « usi il mio ».
« Oh... grazie » rispose Sherlock, alzandosi e dirigendosi verso di lui.
Mike decise che era il momento buono per le presentazioni. « Lui è un mio vecchio amico, John Watson ».
Quando gli tese il telefono, e la manica della camicia si alzò a sufficienza, Sherlock dovette reprimere l’istinto di alzare l’angolo destro delle labbra. Aveva il quadro completo.
Medico militare, in missione in Medio Oriente, ferito in combattimento ma non alla gamba, zoppia psicosomatica, quasi di sicuro ha un terapeuta che lo segue, Disturbo da Stress post-Traumatico. Classe media, disoccupato, probabilmente dimesso da poco, vive con la pensione dell’Esercito. Oh. Sul serio Mike? Un coinquilino? Ecco perché l’hai portato qui. Un rischio però, da sotto l’anello si vede il bordo bianco di un cerotto; è un BCE. Mike non sembra saperlo. Notevole che abbia una formazione al Barts con una condizione simile.
Prese il telefono, le loro dita si sfiorarono, e rigirandoselo brevemente lo fece scattare, cominciando a scrivere l’SMS.
Cellulare nuovo modello, troppo costoso per lui, non se lo può permettere. Un regalo. Ha qualcuno che vuole rimanere in contatto. C’è un incisione sul retro, si sente con le dita, e prima l’ha letta di sfuggita. “Harry Watson da Clara xxx”. Tre baci significano legame affettivo, il costo del telefono un legame profondo, dunque una moglie. Una moglie che l’ha lasciato visto che ha dato il telefono al fratello, se ne voleva liberare. Sentimentalismi. La cover è graffiata, così come l’entrata di ricarica: mano instabile, alcolizzato? È un salto nel buio, ma potrebbe essere. Lui non approva, forse sia l’una che l’altra cosa, ed ecco perché non chiederà aiuto.  L’unico dubbio...
« Afghanistan o Iraq? ».
Mike tirò fuori la sua espressione furba, come se attendesse quel teatrino da quando aveva messo piede all’interno del laboratorio. Watson sembrò semplicemente colto di sorpresa.
« Mi scusi? » chiese infatti.
« Qual’era, quella in Afghanistan o quella in Iraq? » specificò subito lui, rendendo più intuibile la domanda e sperando in una risposta rapida che avesse finalmente messo fine alla sua catena di ragionamenti su quell’individuo.
Il medico esitò qualche istante, guardando prima lui e poi Mike, prima di rispondere.
« In Afghanistan. Scusi, ma come faceva a... »
« Ah, Molly! Il caffè, grazie » lo interruppe lui, chiudendo il cellulare e restituendolo a Watson prima di afferrare la tazza di caffè portato dall’anatomo-patologa, appena entrata nella stanza.
« Cos’è successo al rossetto? » domandò alla donna.
« Non mi si addiceva » rispose lei, torcendosi le mani.
« Davvero? Secondo me era un gran passo avanti, la tua bocca è troppo... piccola, ora » espresse la sua opinione, tornando a sedersi al tavolo e sorseggiando il caffè.
« Va bene... » pigolò Molly, uscendo dal laboratorio.
Appoggiando la tazza sul tavolo e cominciando a scrivere una mail sul PC del laboratorio, Sherlock decise di passare alle cose pratiche.
« Le da fastidio il violino? » domandò a John.
Mike sogghignò, evidentemente soddisfatto.
Watson rimase in silenzio un istante, prima di rispondere. « Scusi, come? ».
« Suono il violino quando rifletto, e a volte non parlo per giorni. Le darebbe fastidio? Dei potenziali coinquilini dovrebbero conoscere il peggio l’uno dell’altro » spiegò, rivolgendosi ora direttamente a lui.
Watson sembrò decisamente sorpreso. « Gli... gli hai parlato di me? » chiese a Stamford.
« Neanche una parola » rispose quello.
« Chi ha parlato di coinquilini, allora? » chiese John, questa volta rivolto a lui.
« Io. L’ho detto a Mike questa mattina, che sono un coinquilino difficile da gestire » cominciò, dando le spalle a Watson ed infilandosi il cappotto: « e ora eccolo qui, appena tornato dalla pausa pranzo con un vecchio amico chiaramente appena congedato dal servizio militare in Afghanistan. Non era così difficile da capire ».
« Come faceva a sapere dell’Afghanistan? » domandò John, ora più attento che sorpreso, quasi diffidente. Tipica reazione.
Sherlock ignorò la domanda. « Ho messo gli occhi su un bel posticino in centro a Londra. Insieme dovremmo essere in grado di permettercelo. Ci vediamo lì domani sera alle sette in punto. Scusi, sono di fretta, ho dimenticato il frustino da fantino in obitorio » disse, controllando velocemente il cellulare prima di metterselo in tasca e passare oltre John, ancora fermo in piedi.
« Tutto qui? » domandò poi, prima che uscisse.
Sherlock si allontanò dalla porta con un passo, un movimento fluido derivato dalla camminata che non aveva interrotto. « In che senso? » chiese a sua volta.
« Ci siamo appena incontrati e andremo a vedere un appartamento » disse, nascondendo però una domanda nella frase.
Sherlock si guardò intorno, prima di rispondere. « È un problema? ».
Watson sorrise, incredulo, poi tornò nuovamente serio. « Non sappiamo nulla l’uno dell’altro. Non so dove ci dovremmo incontrare e non so neppure il suo nome » disse, il carattere del soldato finalmente in vista.
Se l’era cercata.
« So che lei è un medico militare tornato a casa invalido dall’Afghanistan. Ha un fratello che si preoccupa per lei, ma lei non vuole chiedergli aiuto perché non lo approva, forse perché è un alcolizzato o più probabilmente perché di recente ha lasciato la moglie. E so che il suo terapista pensa che la sua zoppia sia psicosomatica, e temo abbia perfettamente ragione. Credo possa bastare, no? ».
Lo sguardo di John Watson era passato dal dubbioso all’incredulo nell’arco di tutto il discorso, per poi assestarsi in una serietà sbalordita. Sherlock decise che come dimostrazione poteva essere abbastanza e si girò di nuovo, raggiungendo la porta. Salvo poi fermarsi, e aggiungere:
« Il mio nome è Sherlock Holmes e l’indirizzo è il 221B di Baker Street. Buo– ».
Fu interrotto prima che potesse terminare la frase.
« “Sherlock”? » scattò improvvisamente Watson, le sopracciglia aggrottate in un’espressione stupita.
Holmes non fu attratto dalla reazione. Molte volte le persone alzavano un sopracciglio a sentire il suo nome, così insolito e di vecchio stampo, dopo trent’anni ci aveva fatto il callo. Ciò che gli impedì di dare una risposta secca e volare fuori dal laboratorio fu l’espressione negli occhi di John Watson, che dietro la sorpresa nascondevano qualcos’altro. Qualcosa che non sapeva assolutamente definire.
Ma si fermò comunque.
Perché non era possibile che il suo nome fosse sul dito di qualcun altro... o sì?
« C’è qualche problema? » domandò allora.
L’espressione di John cambiò così come poco prima, trasformandosi in uno sguardo noncurante. « Scusi, è solo un nome insolito, ecco tutto » liquidò, apparentemente tranquillo.
Forse si era sbagliato ed era stata davvero una reazione dovuta alla stranezza del nome. Forse.
Sherlock annuì lievemente, facendo un cenno con il capo a Mike e, salutando con un « Buon pomeriggio » uscì finalmente dal laboratorio a passo sostenuto.
Interessante, quel John Watson.
 
 
 
Aprì la porta della stanza che aveva in affitto alla pensione militare, richiudendosela alle spalle con mente assente.
Il suo cervello era completamente vuoto. Come se avesse ricevuto una scarica, una sinapsi più potente del solito, ed esso fosse andato in cortocircuito, e fosse in attesa di essere riavviato di nuovo.
SherlockHolmes.
Certo, poteva non essere lui. Ma quanti “Sherlock” esistevano in Gran Bretagna? Una decina? E quanti sotto i cinquant’anni? “Sherlock” non era un nome comune, di sicuro non usato frequentemente.
Era stato come trovarsi davanti un vecchio compagno di classe che lo prendeva sempre in giro. O un compagno di squadra che non aveva trovato impiego più valido per la sua adolescenza se non passandola a sfotterlo. Aveva avvertito l’istinto di tirargli un pugno, la mano sinistra prudere, la ferita sul dito bruciare più che mai.
“Sherlock”, la sua carne lesa gridava, “Sherlock”, eccolo qui, “Sherlock”. Il nome alla fine di tutti i tuoi incubi.
Ma John non lo aveva odiato. Se l’era quasi aspettata, l’ondata di puro risentimento salirgli dallo stomaco e rimbalzargli nel petto, andando su per la gola, su fino al cervello. Ma non era successo.
Lui non odiava Sherlock Holmes.
L’istinto gli diceva che era lui, ma la ragione insisteva a dirgli che non poteva provarlo. E non avrebbe mai potuto.
Lui era un BCE, e Sherlock un Bondless. Non portava alcun anello, lo aveva notato mentre mandava il messaggio con il suo cellulare, e non aveva nessun nome sul dito. Le regole del Legame per loro non valevano, non scattava proprio niente.
Per molti sarebbe stata una prova inoppugnabile... d’altronde combaciava tutto in modo lampante: un Bondless e un BCE con il suo nome inciso sulla pelle. Rifiutante e rifiutato. Una commedia poco divertente che li aveva portati l’uno di fronte all’altro per la durata di dieci minuti in cui lui era stato vivisezionato come una rana a lezione di biologia.
E avrebbe dovuto essere il suo... coinquilino?
Le labbra di John si piegarono in un sorrisetto sarcastico.
A quanto pareva la vita non era stata già abbastanza stronza. La Natura “madre e matrigna” con lui era stata solo una gran puttana e basta. E non perdeva il vizio.
Sospirando, tirò fuori il cellulare dalla tasca, selezionando l’icona dei messaggi.
Aveva chiesto a Stamford chi fosse Sherlock Holmes, ma lui non era riuscito a dirgli granché. Gli aveva detto che era un chimico ma non aveva mai preso la laurea, che si era ritirato dall’università prima di discutere la tesi ma dopo aver seguito tutte le lezioni del corso. Il suo lavoro consisteva nel collaborare saltuariamente con la polizia – cosa già dubbia di per sé – e che grazie ad alcuni agganci famigliari aveva accesso ai laboratori del Barts per le analisi.
Praticamente non aveva risposto a niente. Sherlock Holmes sembrava di più, molto di più, e bastava solo uno sguardo, bastava ascoltarlo solo una volta per capirlo. Sembrava una di quelle persone che, passato lo shock, si amano o si odiano senza avere il lusso di una via di mezzo.
E lui, stranamente, anche se avrebbe dovuto, anche se ne aveva tutte le ragioni... non lo odiava.
Aprì i messaggi inviati, ritrovando velocemente quello digitato da Holmes poche ore prima ed inviato ad un numero sconosciuto che evidentemente l’altro sapeva a memoria.
Se il fratello ha una scala verde, arresta il fratello. – SH
Chi era, Sherlock Holmes? Cos’era? Avrebbe dovuto presentarsi a Baker Street il giorno dopo? Avrebbe dovuto lasciar perdere e cercarsi un’altra sistemazione? Avrebbe dovuto chiudere lì quell’esperienza, evitare di tirare troppo la cinghia della sorte, scomparire dalla vita di Sherlock Holmes facendo sì che Sherlock Holmes sarebbe sparito dalla sua così come ci era entrato?
Senza rimettere in tasca il cellulare, alzò lo sguardo sul computer. Afferrò meglio il bastone e, facendosi forza per alzarsi dal letto, si diresse alla scrivania.
Lo accese, si collegò ad Internet, aprì Google.
E sulla barra di ricerca digitò “Sherlock Holmes”.
 
 
 

.o0o.

 
 
 
Il ristorante cinese Royal China, al 23 di Baker Street1, era un ampio locale con molti tavoli e tendaggi rossi di tessuto pesante, su tendine più sottili e leggere di colore bianco. Alle pareti uno sfavillio di oro e arzigogoli blu davano la tipica atmosfera orientale e lampade cinesi di carta rossa pendevano dal soffitto sopra ogni tavolo, donando al luogo un’atmosfera soffusa e, in un certo senso, privata.
Era ormai mezzanotte passata e nel ristorante erano rimasti pochi avventori. Dopotutto era giovedì. Ma nonostante l’ora Sherlock e John erano stati accolti con un sorriso ed un inchino e accompagnati al loro tavolo, ovvero un piccolo tavolino nell’angolo della sala. La finestra al loro fianco dava sulla strada, e John cominciò a chiedersi se Sherlock non avesse il vizio di tenere sotto controllo l’esterno ogni volta che entrasse in un ristorante. O se, al contrario, andasse al ristorante solo ed esclusivamente per gli appostamenti.
« Non vado al ristorante solo per appostarmi » intervenne il detective dall’altra parte del tavolo, scorrendo il menù con disattenzione. John alzò un sopracciglio.
« Come hai fatto a... ? ».
« Ti si legge in faccia » ribatté Sherlock: « e poi hai guardato me e la finestra per due volte consecutive alternate, era probabile che ti stessi chiedendo se era un mio vizio sedermi accanto alle finestre e per quale motivo lo facessi, dunque ti ho risposto » aggiunse.
Lo conosceva da poco meno di 48 ore e ogni volta che apriva bocca lo lasciava esterrefatto. « Fantastico » commentò, sinceramente colpito.
Sherlock face spallucce. « Facile » rispose, ma l’angolo delle sue labbra si sollevò appena.
Ci aveva messo poco, John, a capire che il detective aveva un debole per i complimenti. E di certo lui non gliene faceva solo per divertirsi, anche perché aveva l’impressione che Sherlock sapesse capire esattamente quando una persona fosse o meno sincera – e non osservando i classici segni della menzogna, come gli occhi o i gesti non-verbali. Lo capiva e basta. Per ingannarlo sarebbe servito un grande bugiardo, probabilmente, e John non lo era. I suoi complimenti erano sinceri.
Lo aveva conquistato. Nel giro di ventiquattro ore, trascinandolo in giro per Londra come una trottola, facendogli vedere l’aspetto nascosto della città, le vene di sangue nero sotto l’epidermide della noia che la ricopriva.
La mano non tremava più, la gamba non doleva più. Non si sentiva solo, non più, non adesso. Mycroft Holmes aveva ragione, con Sherlock lui rivedeva il campo di battaglia, e questo sembrava fargli bene.
Si chiese per un momento chi fosse davvero il più mentalmente disturbato dei due.
Era andato a Baker Street per disperazione, per cortesia. Avrebbe visto l’appartamento e, che fosse o meno bello, avrebbe rifiutato con una scusa qualsiasi. Aveva pensato che fosse impossibile per lui, dopotutto, vivere con il suo SIN, o comunque con la persona che quasi sicuramente doveva esserlo. Gli erano serviti anni per farsene una ragione, per scrollarsi di dosso il risentimento, e non ci era nemmeno riuscito del tutto. Tra l’altro si presentava supponente, spocchioso e decisamente egocentrico, e lui non aveva tempo per avere a che fare con uno come Sherlock Holmes.
Era entrato a Baker Street con l’intenzione di rifiutare. Ne era uscito come un uomo nuovo e con un nuovo appartamento, condiviso con un coinquilino eccentrico e geniale che, tanto per gradire, era anche il SIN che avrebbe dovuto odiare ma che non riusciva a detestare abbastanza da surclassare la curiosità ( e forse l’empatia) che provava nei suoi confronti.
Era fregato.
All’arrivo della cameriera, Sherlock ordinò riso alla cantonese e pollo al limone, mentre John degli involtini primavera, spaghetti di riso con verdure e un piatto di funghi e bambù. La ragazza, giovane e sorridente e dall’immancabile accento orientale, annuì con un sorriso e si diresse in cucina con le loro ordinazioni.
Proprio mentre il silenzio cominciava a farsi quasi imbarazzante, fu Sherlock a prendere parola.
« Sei un BCE » disse, il tono piatto e tranquillo di chi non sta facendo una domanda.
John sobbalzò, colto alla sprovvista. Non pensava di passarla liscia ancora per molto, ma sperava che la privacy dovuta ad argomenti come quello fosse un deterrente sufficiente. A quanto pareva, per Sherlock Holmes non lo era.
John si esibì in un sorrisetto amaro, gli occhi bassi puntati al tavolo. « Speravo che avremmo parlato dell’affitto, in realtà » disse.
« Questo è più interessante » rispose Sherlock, osservandolo attentamente.
« No. No, non credo proprio » ribatté John, duro ed improvvisamente sulla difensiva. Si disse di moderare il tono ma non vi riuscì, era una reazione istintiva che aveva sin dall’infanzia. Tentò, tuttavia, di ammorbidire il discorso: « ti chiederei come l’hai scoperto ma la risposta non mi stupirebbe ».
« Ho visto il cerotto quando mi hai passato il cellulare, ieri al Barts » gli rispose puntualmente Holmes.
« Non è una cosa che noterebbe chiunque ».
« Io non sono “chiunque” » specificò Sherlock, sottolineandolo con l’inflessione della voce. « Inoltre mi ha incuriosito la tua reazione al mio nome. Non è la prima volta che mi capita, ma in questi giorni ho capito che non sei tipo, e mi sono dovuto ricredere. Di conseguenza mi sono chiesto perché... » lasciò cadere Sherlock, sottintendendo senza ombra di dubbio la domanda.
John alzò gli occhi dal tavolo e li puntò in quelli di Sherlock, che avevano deciso di essere di un caldo color azzurro con riflessi verdi. A seconda della luce che li colpiva quelle iridi avevano sfumature diverse, ma non sfuggivano mai al controllo del proprietario. Se Sherlock Holmes voleva che esprimessero qualche sentimento, faceva in modo di farlo trasparire. Se voleva che rimanessero freddi, da essi non potevi leggere nulla.
Come in quel momento.
« Perché cosa? » rispose John, cercando di spingerlo a formulare una domanda diretta. Sembrava l’ultima linea difensiva di chi era con le spalle al muro e si rifiutava di cedere al panico.
L’angolo delle labbra di Sherlock si arricciò appena verso l’alto, prima che riprendesse parola: « vuoi davvero fare questo gioco con me? » domandò ironico.
John non demorse. « Fammi una domanda diretta e avrai una risposta diretta ».
L’altro colse al volo l’occasione. « C’è il mio nome sotto quel cerotto? » domandò, indicando l’anello d’argento al suo anulare sinistro.
John inarcò un sopracciglio nell’espressione più perplessa che riuscì a tirar fuori. Holmes poteva anche essere un ottimo osservatore, ma John mentiva da quand’era piccolo, e la menzogna è un’arte che si apprende e si migliora con il tempo.
« Cosa?! » esclamò, sorridendo sorpreso. Sembrò funzionare, perché Sherlock inarcò un sopracciglio. « Che? No, assolutamente no! Quale persona sana di mente andrebbe a convivere con il proprio SIN in una situazione come la mia? » domandò, scuotendo il capo con un sorrisetto: « pecchi d’egocentrismo, Sherlock » aggiunse, prendendo il bicchiere per bere un sorso d’acqua, sperando che l’altro non si fosse accorto del lieve tremore d’agitazione quando lo aveva afferrato.
Anche se non del tutto convinto, Sherlock sembrava dubbioso. Sempre meglio di niente. Almeno avrebbe smesso di battere il chiodo e magari riconsiderato la sua idea. Forse.
Qualsiasi risposta fosse in procinto di dare Sherlock, fu interrotta dall’arrivo del loro ordine. Rimasero in silenzio mentre la cameriera appoggiava i piatti sul tavolo – momento che John utilizzò per darsi una calmata – e si protrasse anche dopo, durante i primi bocconi.
John decise di spezzare il silenzio portando l’attenzione su qualcos’altro. « È un problema, comunque? » domandò.
Sherlock alzò lo sguardo su di lui. Aveva un modo molto elegante di mangiare. « Cosa? » domandò.
« Il fatto che io sia un Ribbon. Per l’appartamento, intendo » disse. Certe cose era meglio metterle in chiaro subito. Dal canto suo si ritrovava stranamente ben disposto a dividere la casa con Sherlock, ma se l’altro preferiva non averlo intorno...
« No » rispose però Sherlock, come se la domanda in sé non avesse motivo di essere stata posta: « se avessi avuto dei problemi ti avrei allontanato prima » aggiunse.
John annuì. « Capisco ».
« John, presto un’attenzione relativa alle statistiche riguardanti i BCE. Non posso dire che non siano vere, è innegabile che lo sono, ma non mi piace generalizzare. Dopotutto sono un Bondless » disse.
Non aveva tutti i torti. Se i Ribbon erano discriminati, i Bondless erano ritenuti una sottospecie di scherzi di natura. Sherlock era già un tipo piuttosto eccentrico e particolare, dunque John supponeva che l’essere anche un Bondless non lo avesse aiutato molto, nella vita.
Gli sfuggì un sorriso. « Come fai a capire che non sono pericoloso? » gli chiese però, anche se il tono di voce era decisamente più disteso.
Sherlock si pulì le labbra con il tovagliolo. « Prima. Non hai sparato finché non sono stato in pericolo immediato. Hai aspettato di vedere la mia reazione » disse.
« La tua reazione avventata e idiota » intervenne John.
« Quello che è » glissò Sherlock con un gesto della mano: « il punto è ciò che dimostra. Hai una forte fibra morale, non hai ucciso finché non ne sei stato costretto. Per me basta e avanza ».
Watson ridacchiò, incredulo. « E tu basi la tua valutazione sul fatto che ho esitato prima di uccidere un uomo, piuttosto che sul fatto che l’ho effettivamente ucciso? » chiese, sbalordito.
Holmes roteò gli occhi. « Non hai esitato, hai aspettato » specificò Sherlock: « è diverso. Ed è stato... un gran bel colpo » aggiunse, schiarendosi la voce.
John tornò a mangiare il suo riso. « Suppongo che questo sia un “grazie per avermi salvato la vita” ».
« Come ti ho già detto, avevo tutto sotto controllo » ribatté Sherlock, ma John ridacchiò nuovamente. Dietro tutto quell’orgoglio, quell’eccentricità e quella non-considerazione per i sentimenti altrui, intravedeva l’uomo che davvero era Sherlock Holmes, con tutti i suoi difetti e i suoi pregi; un riflesso che probabilmente pochi altri avevano intravisto, e che lui aveva carpito di sfuggita.
E ciò che vedeva non gli dispiaceva affatto.
 
 
 

.o0o.

 
 
 
Mancavano un paio d’ore all’alba quando rientrarono a Baker Street.
Da sopra i grattacieli di Londra, il nero della notte cominciava a sfumare in colori più tenui e, sull’orizzonte, pennellate di tinte pastello spruzzavano azzurri e viola scuri qui e là. Si prospettava una giornata serena.
Come sempre dopo ogni caso, la veglia continua di settantadue ore stava prendendo posto nella sua mente, e la stanchezza da essa derivata cominciava ad appesantirgli le spalle. Non era improbabile che si concedesse più di dieci ore di sonno, una volta conclusi tutti gli strascichi – burocratici e non – del caso.
Erano spariti dalla scena del crimine prima che arrivassero troppe pattuglie della polizia e i giornalisti. Dimmock era stato prevedibilmente concorde a far sì che non dovessero testimoniare, così erano saliti su di un taxi ed erano tornati a casa.
Dopo aver riaccompagnato Sarah, per la precisione.
« Ti ho mai detto quanto mi piace questo posto? Soprattutto quando torno a casa dopo essere stato minacciato con un arma da fuoco » ironizzò John, lasciandosi andare su una delle sedie libere in cucina. Il salotto era ancora disseminato di contenitori e libi, poltrone e divano compresi. Ci sarebbe voluto un pomeriggio intero per ripulire tutto e riconsegnare tutto alla polizia.
Sherlock non commentò, togliendosi il cappotto e appendendolo all’attaccapanni dietro la porta. Si tolse anche la giacca nera e, dirigendosi in cucina a passo calmo, si arrotolò le maniche della camicia oltre i gomiti.
« Girati » disse poi a John, indicandogli con il dito di rivolgere lo sguardo al tavolo e mostrargli il lato della testa.
John, ricordandosi solo dopo pochi istanti di avere una ferita alla testa, fece un cenno vago con la mano. « Non preoccuparti, non fa più male... la disinfetterò prima di fare la doccia » disse.
Ma Sherlock non demorse. « Girati » ripeté, questa volta afferrando con le dita il mento di John e forzandolo a girare il capo. Watson non poté far altro che ubbidirgli (Holmes sapeva essere fin troppo testardo, a volte).
« Ti ho detto che va tutto bene » provò di nuovo John.
« Ti hanno messo K.O. con il calcio di una pistola. Potresti avere un trauma cranico ».
« Non ho un trauma cranico, Sherlock » rispose John con calma, senza tuttavia impedirgli di osservare la ferita: « avrei anche altri sintomi, come la nausea, cosa che non ho. È solo una semplice botta in testa » disse.
« Taglio ».
« Cosa? ».
« Hai un taglio in testa » corresse Sherlock: « resta qui » disse poi, allontanandosi in direzione della propria camera.
Quando tornò indietro, portando con sé disinfettante, cotone idrofilo e un beauty case rigido di pelle marrone, notò che gli occhi di John erano fissi sulle finestre del salotto, ancora marchiate con i numeri cinesi 15 e 1 in vernice gialla.
Il detective spostò uno dei vassoi rimasti sul tavolo da quella sera, vi appoggiò l’attrezzatura medica e cominciò a disinfettare con precisione la ferita fra i capelli di John.
« Ci vorrà un intero flacone di acquaragia per togliere quella vernice... sempre che non ci tocchi cambiare direttamente i vetri... » borbottò John, storcendo il naso quando Sherlock passò il batuffolo di cotone bagnato di disinfettante sul taglio ancora lievemente sanguinolento.
« Pensavo di lasciarli così, in realtà » rispose Sherlock, troppo concentrato per suonare ironico come invece voleva.
« No, Sherlock. Non lascerò una minaccia in cinese sulle finestre del mio salotto » rispose subito John.
« Nostro salotto. E tecnicamente è un codice numerico espresso in ideogrammi dialettali ».
« Quello che è ».
L’angolo delle labbra di Sherlock si arricciò verso l’alto.
Terminò di ripulire la ferita e la pelle circostante, posando il batuffolo sporco sul tavolo e raggiungendo la cassettina marrone. Facendo scattare il gancio la aprì, selezionando attentamente una delle boccette di vetro in essa contenute. Ne svitò il tappo, bagnò abbondantemente un altro pezzo di cotone idrofilo – tenendolo con le pinze – con il liquido trasparente al suo interno, e picchiettando leggermente cominciò a passarlo sulla ferita.
« Che roba è? » domandò il medico, voltando l’ampolla per poterne leggere l’etichetta. Sobbalzò. « Morfina? » domandò poi, scostandosi dalle cure di Sherlock che roteò gli occhi.
« Stai fermo » lo redarguì lui, riportando con la mano libera dalle pinze la testa di John nella stessa posizione di prima.
« Sherlock, Morfina? » chiese però ancora il medico, sconcertato.
Holmes sospirò. « Lieto che tu sappia ancora leggere le etichette » ironizzò distrattamente, tutta l’attenzione concentrata sul bagnare la cute di John il più possibile con l’anestetico.
« Non scherzare. Se Lestrade ti trova con questa... ».
« Ho smesso di usarla per scopi ricreativi anni fa » gli rispose Sherlock, conscio di dove il dottore volesse andare a parare. Dall’ultima retata antidroga, quei due si erano messi d’accordo per tenerlo d’occhio come due pessimi complici in un altrettanto pessimo delitto. « E comunque, se Lestrade trovasse quella cassetta, la Morfina sarebbe l’ultimo dei suoi problemi. E ora sta fermo » aggiunse, sottolineando le ultime parole con la voce.
Cosa che John, ovviamente, non fece. Anzi, si sporse per osservare il contenuto del beauty case.
« Daphne cneorum... » lesse John, spostando con attenzione la ventina di piccole ampolle di vetro chiuse con tappi di sughero e ceralacca. Alcune avevano etichette farmaceutiche, altre erano scritte a mano in grafia ordinata e fine. « Ricinus communis, Datura stramonium... Digitalis purpurea?! » esclamò il medico: « Sherlock, la Digitale è una pianta velenosa! » aggiunse poi, osservando controluce il contenuto liquido e semi-scuro della boccetta.
Sherlock, posando il cotone imbevuto di morfina, cominciò a disinfettare un ago da sutura e il relativo filo. « Già. Immagino dunque che tu non voglia inavvertitamente far cadere quell’ampolla » rispose, come se il fatto non fosse neanche suo.
John lo fissò con tanto d’occhi, ma sospirò come se, ormai, da Sherlock potesse aspettarsi di tutto senza rimanerne eccessivamente sorpreso. « Sembrano fatte in casa » osservò solamente.
« Lo sono » confermò Sherlock.
« Dove hai trovato le piante per farlo? Alcune non crescono nemmeno in queste zone ».
« Me le sono fatte inviare » glissò Sherlock, per poi aggiungere: « la mia adolescenza è stata molto noiosa. E ora immobile » disse, alzando l’ago con i relativi attrezzi per la sutura chirurgica.
John adocchiò con la coda dell’occhio l’ago da sutura, e questa volta rimase davvero fermo mentre Sherlock lavorava.
« Sai anche suturare... » disse dopo qualche istante, per riempire il silenzio.
« Evidentemente » rispose Sherlock.
« Come hai imparato? ».
« Sui cadaveri ».
Chissà perché non ne era sorpreso. « Da Molly? ».
« All’università » corresse Sherlock. Normalmente non avrebbe aggiunto altro, ma con John era diverso.
Non era come tutti gli altri. Sembrava una persona normale ma c’era qualcosa, in lui, che gli altri non avevano.
Ascoltava senza giudicare. Forse fu per questo che continuò a parlare, raccontando qualcosa di sé a qualcun altro di sua spontanea volontà per la prima volta nella sua vita. « Al secondo anno rubai la chiave dell’obitorio all’associato di Medicina Legale. Di notte andavo a cucire insieme le dita delle mani e dei piedi dei cadaveri che avrebbero usato a lezione il giorno successivo » disse.
Sentì John ridacchiare e, di riflesso, sorrise.
« Poveri insegnanti » commentò Watson, divertito.
« Erano degli incapaci in ogni caso » disse Sherlock.
Era una situazione particolare. Qualcosa era diverso, nell’aria forse, o in loro, non lo sapeva. Completamente a suo agio, totalmente rilassato. Una sensazione strana e nuova ma piacevole, quasi inebriante. Conosceva altre persone, Sherlock – Lestrade, Mike, mrs. Hudson, Mycroft – ma con nessuno era così, o lo era anche solo stato in passato.
Nemmeno con Victor. E a Victor lui aveva permesso cose come a nessun altro. Victor aveva toccato e visto e assaggiato e reclamato ogni centimetro di pelle, di corpo, di aria respirabile. Lo aveva visto nella situazione in cui era nudo e scoperto per eccellenza, slegato dalla realtà e dalla ragione; lo aveva posseduto.
Ma Victor non aveva mai avuto la sua mente, la chiave per carpirne i segreti e comprenderne il funzionamento, una cosa che John sembrava essersi semplicemente preso senza rendersene conto. Forse non era intelligente, o particolarmente acuto o furbo, ma John lo attraeva intellettualmente in un modo che nemmeno Sherlock sapeva spiegarsi, ma a cui non prestava molta attenzione.
Ma John fece la domanda sbagliata non appena Sherlock annodò il primo punto, e qualcosa in quella quiete si incrinò.
« Non potevi semplicemente fare come tutti gli altri? Andartene in giro, trovarti qualche ragazza o ragazzo? Magari la tua Anima Gem– ».
Si fermò in tempo, interrompendo la frase, ma troppo tardi. Le mani di Sherlock si fermarono di conseguenza.
« Scusa » disse subito John, ma Sherlock parlò comunque. Fu volontariamente crudele.
Forse per ripicca.
« Non ho mai avuto l’opportunità di dedicarmi a questi svaghi » sputò risentito, lasciando convenientemente fuori il fattore Victor Trevor (il quale era stato comunque solo un esperimento a lungo termine, si disse).
Come previsto, John se ne risentì. « Ti ho chiesto scusa. E comunque non sono svaghi, sono relazioni consensuali fra due adulti... sarebbe normale. È normale. Pensare di non fare sesso se non con la propria Anima Gemella è superato » precisò, divagando leggermente.
« Non devi giustificarti con me per le tue relazioni, John. Sono sicuro che Sarah ha dei buoni motivi per ignorare il nome che ha sul dito » disse, il tono duro, chiudendo velocemente anche il secondo punto di sutura.
« Chi ti dice che Sarah non sia la mia Anima Gemella? » domandò John.
Oh, ma per favore!, pensò Sherlock prima di rispondergli. « Quale persona sana di mente instaurerebbe rapporti con il proprio SIN in una situazione come la tua? » domandò retoricamente, citando quasi letteralmente ciò che John stesso aveva detto quella sera al ristorante cinese.
Sentì John fare scattare la mascella e stringere i denti. « Pensi ancora che il nome sul mio dito sia il tuo? » domandò poi, palesemente teso ed irritato.
Come in uno specchio, la rabbia di John fece agitare anche lui. « Se non è vero fammelo vedere » rispose.
La cosa più sbagliata che potesse dirgli.
John si alzò di scattò dalla sedia, allontanandosi di due passi e girandosi verso di lui. « No, Sherlock. Perché è privato e comunque non sono cazzi tuoi! » esclamò, stuzzicato su di un nervo scoperto: « ma tu cosa ne sai? Cosa ne puoi mai sapere di cosa vuol dire essere come me? Tu non hai mai dovuto cominciare la Ricerca, e come minimo te ne sei persino fregato! Non ti sei mai sentito solo, o abbandonato, non è vero Sherlock? » chiese a voce alta, facendo calare nuovamente il silenzio solo quando si accorse che Sherlock non aveva risposto, ma lo stava guardando con espressione neutra ed immobile.
Si guardarono per un tempo che parve infinito, dilatato dal silenzio dell’appartamento, occhi negli occhi.
Finché con fu John a chiudere gli occhi, e sospirare. « Senti, sono stanco, io... non volevo... ».
« Hai ragione » lo interruppe però Sherlock, senza mai distogliere lo sguardo da lui: « è tutto vero. Sono un Bondless, questo logicamente vuol dire che da qualche parte potrebbe esserci una persona con il mio nome sul dito, un BCE con il mio nome sul dito, ma non m’importa. Sono io che ho rotto il legame, sempre secondo logica; l’avrò fatto per un motivo. E se c’è una persona di cui mi fido in questo mondo, quella sono io » disse, alzando il mento con supponenza: « dunque sì, John, hai ragione. Tutto sommato non me ne frega niente. Sono libero più di quanto tu lo sarai mai » terminò, lasciando tutto sul tavolo e oltrepassandolo velocemente, andando a stendersi sul divano.
John, ancora in piedi davanti alla porta, rimase in silenzio. Sherlock lo sentì deglutire rumorosamente ma non lo guardò, deciso a non replicare a qualunque cosa fosse uscita dalle sue labbra. Perché c’erano diversi modi per sentirsi soli e rifiutati, e John avrebbe dovuto saperlo più di tutti gli altri.
« Mi dispiace... » sussurrò poi il medico, la voce bassa, apologetica. « Vado a dormire un paio d’ore... » aggiunse, dirigendosi verso le scale.
Sherlock non rispose.
Sapeva già che l’indomani mattina avrebbero entrambi fatto finta di niente.
Ed era la cosa che lo innervosiva di più.
 
 
 

.o0o.

 
 
 
Si risvegliò sentendo nel naso un odore forte e sgradevole.
Cloroformio. Lo riconobbe ancora prima di aprire gli occhi.
Ricordarsi cosa fosse successo non fu difficile, le immagini accorsero da sole. Lui e Sherlock avevano appena risolto il caso dei progetti missilistici e recuperato la chiavetta USB, così come avevano superato tutte le prove del dinamitardo. Era appena uscito dal 221B diretto a casa di Sarah quando era stato affiancato da un paio di uomini abbastanza robusti all’entrata della stazione di Baker Street; uno di loro gli aveva premuto un fazzoletto sul naso approfittando della folla che andava e veniva, poi il buio. Era riuscito a sentire l’eco di qualche parola, gli sembrava di aver visto una divisa da poliziotto mentre forti mani lo accompagnavano a terra con la scusa di un malore improvviso, e si ricordava di aver pensato a qualcosa come “cazzo, non è ancora finita” prima di perdere completamente i sensi.
In quel momento, con un diffuso mal di testa ed una lieve nausea dovuta all’anestetizzante, si rendeva finalmente conto di essere caduto in una trappola.
Si impose di restare calmo e, ancora senza aprire gli occhi, tentò di scrollarsi di dosso gli effetti del cloroformio e affinare i sensi.
Oltre al proprio battito cardiaco, accelerato a causa dell’agitazione, sentiva pochi altri rumori. Respiri, un’unica serie di passi in lontananza, uno scroscio come di acqua ma non corrente. Aveva caldo. Si sentiva il petto e la schiena pesanti – forse aveva qualcosa addosso – ma a parte quello l’aria stessa era umida e afosa. Era seduto, le mani legate dietro la schiena, e avrebbe giurato che i listelli di legno sotto le proprie dita fossero quelli del poggia schiena di una panchina. L’olfatto era completamente fuori uso a causa dei residui dell’odore caratteristico del cloroformio, dunque non riusciva ad annusare nient’altro.
Se ci fosse stato Sherlock, avrebbe capito subito, probabilmente. Ma lui non aveva la minima idea di dove si trovasse.
Lentamente, lottando contro la pesantezza delle proprie palpebre ancora reduci da un’anestesia improvvisa, aprì gli occhi.
Mattonelle azzurre, piccole. Proseguivano per tutto il pavimento fino al muro, dipinto di bianco ma rigato di grigio in alcuni punti, dove le punte delle scarpe avevano lasciato il segno. Davanti a lui, diverse panchine di legno chiaro erano allineate lungo tutto il muro e, sopra di esse, attaccapanni di plastica neri seguivano la linea delle panchine lungo la parete.
L’indizio rivelatore, però, fu l’interruzione del piastrellato in favore ad un altro tipo di mattonella, ruvida e bianca, cesellata con disegni romboidali. Antiscivolo, avrebbe detto. Le riconobbe e, come se qualcuno avesse premuto un grilletto immaginario nella sua mente, in quel momento gli sembrò di sentire il tipico odore di cloro.
Era negli spogliatoi di una piscina.
Non fu necessario sollevare del tutto la testa perché la persona dietro di sé, seduta sulla panchina schiena contro schiena, si accorgesse che era sveglio.
« Ben svegliato, Johnny-boy » disse quello, con una voce maschile ma alta, un tono che aveva già sentito da qualche parte (ma ricordare dove non sembrava possibile, in quel momento).
Cercò di mantenere la calma. « Con chi ho il piacere di parlare? » domandò, la voce bassa e il tono duro.
Quello ridacchiò. « Se si rivelasse un piacere ne sarei sorpreso » ribatté, prima di alzarsi e cominciare a camminare avanti e indietro, sempre alle sue spalle.
« Fra poco avrai le mani libere, Johnny, ma mi sembra giusto avvertirti prima di un fatto di non secondaria importanza. Per motivi tecnici, oserei aggiungere » disse, fermandosi e battendo a terra i tacchi delle scarpe come seguendo un motivetto. « Sotto il piumino indossi una quantità di PE4(2) sufficiente a radere al suolo l’intero edificio. Una mossa falsa e di te non rimarrà nemmeno il DNA » disse, il tono allegro e persino canticchiante.
A John non servì abbassare gli occhi per confermare la versione dell’uomo: alcuni fili elettrici spuntavano dal colletto di fianco al suo orecchio sinistro e sentiva distintamente l’esplosivo contro il petto.
Prese un profondo respiro, che rilasciò tremante. « Perché liberarmi le mani? » chiese poi.
« Oh, devi sembrare volontario. Cioè, so che lo sarai, ovviamente. Tutti lo sarebbero con la quantità di plastico che in questo momento porti addosso. Ma tutti gli altri erano liberi e volenterosi e voglio che Sherlock ti veda così. Voglio che dubiti, per un istante, che dietro tutto questo ci sia tu, per poi capire che no, tu sei solo un altro povero stolto che si è fatto catturare come una falena da un neon » disse, senza dare ulteriori spiegazioni.
All’improvviso, John sentì una lama passare fra i suoi polsi e recidere la fascetta di plastica che li teneva legati. Si limitò poi ad appoggiare, lentamente, le mani sulle proprie ginocchia.
« Bravo soldatino » lo sfotté l’altro. Di tutta risposta gli passò di fianco fino a fermarsi di fronte a lui. Sorrise, ferino, su di un volto che tutto si sarebbe potuto dire fuorché che sembrasse malvagio, e che John aveva decisamente già visto.
Aggrottò le sopracciglia quando lo riconobbe. « Tu sei... ».
« Jim del Barts? Sì! » esclamò quello, le mani nelle tasche del costoso completo blu scuro che indossava, compreso di fermacravatta in argento. « Una delle mie interpretazioni migliori » aggiunse, sedendosi davanti a lui e stendendo le gambe fino ad incrociarle a livello delle caviglie.
Poi lo guardò, in silenzio, sorridendo a labbra chiuse, per un tempo che poteva essere lungo qualche secondo o qualche minuto, John non sarebbe comunque riuscito a dirlo. Anche se non voleva ammetterlo, una buona parte della sua concentrazione era slittata all’esplosivo sul suo petto, tanto che faticava persino ad imporsi di respirare con un ritmo regolare.
Si fissarono in silenzio.
« Jim Moriarty » si presentò poi quello, sussurrandoglielo come se fosse un segreto.
« Avevo intuito » rispose John.
Quello finse un’espressione sorpresa. « Vorresti uno zuccherino? » lo sfotté: « suppongo che la vicinanza a Sherlock ti faccia bene. Gli hai già detto di essere la sua Anima Gemella? » domandò Jim, senza mai distogliere lo sguardo, profondamente divertito.
John sgranò appena gli occhi, che volarono subito al proprio anulare sinistro. Lì, libero sia dal cerotto che dall’anello d’argento regalatogli anni prima da sua madre, il nome di Sherlock pulsava di dolore e macchiava la pelle di sangue.
Quando rialzò lo sguardo, Jim era tutto concentrato a farsi passare l’anello d’argento con le sue iniziali da un dito all’altro della mano destra, giocandoci.
John represse la tentazione di scattare verso di lui, così come quella di urlargli contro. « Se pensi che Sherlock accetterà la sfida... ».
« Accettarla? Mi ha invitato lui » gli rispose subito Moriarty, quasi elettrizzato all’idea. « Ha i piani missilistici Bruce-Partington. Vuole che esca a giocare con lui... lo accontento » disse, cominciando a pendere con il corpo verso destra fino a stendersi supino sulla panca, le ginocchia piegate ed accavallate con un piede a penzoloni. La sua attenzione era ancora tutta per l’anello e fu solo quando lo tenne fermo con entrambe le mani che John notò la fede d’oro che portava all’anulare sinistro, sotto la quale era chiaramente visibile un cerotto bianco.
Un BCE. Come lui.
Forse avrebbe dovuto aspettarselo.
« Allora, come ha reagito Sherlock? » domandò ancora Jim, facendo ondeggiare il piede e provandosi l’anello di John in tutte e dieci le dita per vedere in quale entrasse meglio.
Watson arricciò il naso. « Parli molto per essere uno che prende il prestito le voci altrui » disse.
Quello gonfiò le guance, sbuffando. « Mi annoio » si lamentò: « mi sono preso la serata libera per giocare con Sherlock, ma non è ancora arrivato e io non ho niente da fare ».
« Smettila di parlare come se lo conoscessi » non riuscì a trattenersi John.
James, inarcando le sopracciglia, tornò a guardarlo. « Parli come se lo conoscessi meglio di me! » osservò, sembrando francamente sorpreso.
« Convivo con lui ».
« Irrilevante ».
« Siamo amici » continuò John.
« Eppure ha aspettato che tu fossi uscito di casa prima di invitarmi a giocare con lui, lasciandoti all’oscuro di tutto. Oppure pensi che lo abbia fatto per... per cosa, per proteggerti? Per non coinvolgerti? Sherlock è in grado di avere questo tipo di considerazione per te? » domandò, aggrottando poi le sopracciglia quando un pensiero lo colpì. Si girò sul fianco, squadrandolo da capo a piedi. « Chi sei tu, John Watson, per avere il nome di Sherlock sul dito? Che utilità hai tu? » domando retoricamente: « così malandato da essere rispedito a casa persino dall’esercito, così ingenuo da cadere in trappole elementari, così mediocre da dover nascondere che sei un Ribbon... sono molto, molto deluso dal tuo livello di inutilità, e se c’è una cosa che mi assilla è il chiedermi come fa uno come te ad essere l’Anima Gemella di Sherlock Holmes » spiegò.
John attutì il colpo in silenzio, osservandolo mentre posava a terra il suo anello in equilibrio sul dorso, fissandolo pensieroso. « Quanto avrei voluto avere il suo nome sulla mia pelle al tuo posto... » mormorò, dando una lieve spinta al cerchio argenteo, che rotolò fino ad impattare contro la scarpa di John.
Watson deglutì, chiudendo gli occhi sopraffatto da un moto di impotenza. Sospirò pesantemente, tornando poi a guardarlo. « Suppongo che tanto sia inutile, per me. Hai una chance » ironizzò amaramente.
Jim lo fulminò con lo sguardo. Poi, scoprendo i denti, rise.
« Io ho già preso ciò che mi appartiene, Johnny-boy » disse, senza però approfondire oltre.
Dalla stanza adiacente allo spogliatoio, un “bip” spezzò il silenzio. Jim si rimise velocemente seduto, osservando un punto oltre la porta che John non riusciva a vedere. « Seb? » chiamò.
« È arrivato » confermò una voce profonda dall’anticamera.
Moriarty sorrise compiaciuto. « Si va in scena! » esultò, alzandosi in piedi pronto ad uscire. « Rimettiti l’anello e segui le istruzioni che ti darò dall’auricolare. Una parola in più o in meno e... beh, suppongo tu sappia come finisce la frase » gli disse, facendogli l’occhiolino.
Fece appena in tempo a nascondere il nome “Sherlock” sotto l’anello, prima che l’auricolare gli gracchiasse nell’orecchio il primo ordine.
 
 
 
Avevano dovuto chiamare Lestrade.
Lasciare dell’esplosivo al plastico sul bordo di una piscina pubblica non era il caso, avevano convenuto, e l’Ispettore aveva, a sua volta, dovuto tirare giù dal letto gli artificieri per poter recuperare e mettere al sicuro i panetti di PE4 che John si era portato addosso fino ad un’ora prima.
Nel frattempo, ovviamente, lo Yarder volle il resoconto di tutto ciò che era successo. Quando arrivò anche Mycroft la situazione passò, per Sherlock, da noiosa a decisamente seccante. Chiuse senza indugi il discorso con entrambi gli uomini e, facendo cenno a John di seguirlo, si diresse a passo svelto in direzione della strada principale con l’intento di fermare un taxi.
Durante l’attesa e la corsa in taxi verso Baker Street, John aveva (prevedibilmente) cominciato a risentire degli effetti collaterali dell’inalazione di cloroformio. Aveva tentato di parlare al telefono con Sarah, ma era palese che non riuscisse a seguire la conversazione. Sembrava avesse mal di testa, dal modo in cui si massaggiava la tempia sinistra con le dita della relativa mano, e più volte lo aveva visto far ciondolare la testa sul petto a causa di un’attesa sonnolenza.
Non era sua intenzione coinvolgerlo, per questo aveva aspettato. Per quello, e per il fatto che probabilmente John si sarebbe lamentato del suo piano, cercando di convincerlo a desistere, a consegnare i progetti Bruce-Partington a Mycroft e lasciar perdere Moriarty... e lui semplicemente non poteva farlo. Non poteva ignorarlo.
Moriarty era una perla rara. Un individuo di spiccata intelligenza e furbizia; era... un gioco meraviglioso, un’occasione succulenta. Ed era Jim stesso che voleva giocare, non importava che lo avesse minacciato, lo scopo non era realmente quello. Si erano corteggiati per mesi, cercando l’uno tracce dell’altro, e lui semplicemente doveva vederlo, stanarlo, invitarlo al banchetto per vedere il suo avversario, studiarlo, riconoscerlo, associare un volto al nome gracchiato da un uomo morente e da lì riecheggiato fra le alte volte del suo mind palace. Non poteva evitarselo.
Aveva sperato che Moriarty ignorasse John. Che si concentrasse solo su di lui.
Speranza vana.
« Siamo arrivati » interloquì il tassista, rallentando e fermandosi davanti alla famigliare porta scura.
Sherlock alzò gli occhi sullo specchietto retrovisore, strisciò la carta di credito nel POS per pagare la corsa e, una volta che lo strumento gli ebbe confermato il pagamento, scosse la spalla del medico, ora del tutto abbandonato sul sedile.
« John » chiamò, svegliandolo con irruenza: « siamo a casa ».
Watson gemette di fastidio e sbuffò, faticando a tenere gli occhi completamente aperti. Tuttavia biascicò un ringraziamento al tassista e, aprendo lo sportello, uscì dal mezzo.
Sherlock lo precedette, aprendo il portone con le chiavi e tenendolo per fare entrare l’altro. John lo ringraziò con un mugugno, afferrando con forza il corrimano e cominciando a salire le scale lentamente. Sherlock lo seguì.
Non avevano ancora parlato di quanto accaduto, e conoscendo John lo avrebbero fatto di sicuro, prima o poi. Si era aspettato di sentirgli cominciare la predica in taxi, o appena congedati Mycroft e Lestrade, ma non era successo.
Forse, passare la serata a stretto contatto con dell’esplosivo era in grado di smorzare qualsiasi intenzione di dialogo. Non ne sarebbe stato troppo sorpreso.
Tuttavia, lasciare le cose così lo inquietava. Non sapeva bene come spiegarsi quel sentimento, quella reazione zittita e seppellita in profondità nel suo petto, ma il silenzio stanco che John stava trascinando su per le scale insieme al suo corpo era la cosa che più disturbava Sherlock, in quel momento.
Non Moriarty, non il pericolo, non l’adrenalina. Non il timore che aveva provato nel vedere John sotto tiro (il dubbio di un istante al pensiero che fosse un complice). Semplicemente, il silenzio.
« John... » provò dunque a cominciare una volta arrivati al pianerottolo. L’altro, però, era di un altro avviso.
« Domani, Sherlock » lo interruppe. « Ora voglio solo dormire. Stendermi e dormire... » disse a voce bassa, rinunciando persino a fare l’ultima rampa di scale e dirigendosi invece verso il divano, sul quale si buttò supino senza nemmeno togliersi il giubbotto.
Sherlock seguì l’esempio, sedendosi sulla propria poltrona dopo aver gettato il cappotto sullo schienale di quella di John. Il salotto era buio, solo la luce del lampione esterno filtrava dalla finestra, ma il fascio chiaro illuminava il tavolinetto e parte del divano, facendo sì che la stanza fosse sufficientemente illuminata da poter riconoscere gli oggetti che la riempivano. Nessuno dei due aveva acceso il camino quella sera, dato che prevedevano entrambi uscire, dunque la temperatura era sensibilmente più bassa del solito.
Portandosi le mani unite alle labbra, Sherlock rifletté.
Moriarty non era uno sprovveduto. Aveva già intuito che avesse mezzi e possibilità di poter fare ciò che più gli aggradava, che avesse le mani in pasta nelle maggiori organizzazioni criminali, addirittura che fosse un’organizzazione criminale a sé. Era già riuscito ad intuire tutto questo. Ma alla vista... oh, alla vista sembrava ancora di più. Qualcosa di indecentemente attraente. Pianificazione, faccia tosta, presunzione. Dal primo all’ultimo minuto aveva avuto entrambi loro nel palmo della mano e l’intera situazione sotto controllo, ma anche quando non era più stato così, anche quando Sherlock aveva ribaltato la situazione e aveva minacciato di farli saltare tutti in aria senza distinzioni, Moriarty non si era scomposto. E non perché pensasse che Sherlock non ne avesse il coraggio.
« È un avversario complicato, John » non riuscì a fare a meno di dire a voce, la necessità impellente di avere un pubblico che gli accartocciava le viscere. « Temibile. Gli piace stare sul filo del rasoio, e se è coinvolta la morte è meglio. Quella degli altri o direttamente la sua, non ha importanza. Questo fa di lui una persona pronta a tutto, disposta a fare tutto. Ha davanti a sé infinite possibilità » considerò, concentrato.
« Mh... » fu l’unica risposta di John, gli occhi chiusi e le braccia piegate sull’addome.
« È una situazione complicata, rende difficile riuscire a prevedere la prossima mossa. Ma credo di poter riconoscere i segni, lo schema. Probabilmente sarà comunque lui a fare la prima mossa, la prossima volta, il tutto sta nell’essere pronti a rispondere adeguatamente. Come in una partita a scacchi » disse.
Quando non ricevette risposta, però, i suoi occhi chiari saettarono su John.
Era profondamente addormentato. Gli occhi non si muovevano sotto le palpebre, dunque non aveva ancora raggiunto la fase REM, ma il respiro era profondo e regolare e l’espressione rilassata. Probabilmente sia il cloroformio che il picco d’adrenalina avevano contribuito a svuotarlo di tutte le energie, uniti ai giorni passati a seguirlo nel caso. Troppi avvenimenti per quella serata.
Sherlock, abbassando le mani, rimase a guardarlo.
Non poteva evitare a se stesso di considerare quell’uomo una parte fondamentale del proprio presente. Non poteva evitarsi di volerlo proteggere, a modo suo, di volerlo preservare. Voleva essere il solo avversario di Moriarty, in buona parte per egoismo, ma ciò che rimaneva era... per John.
Senso d’appartenenza, questo voleva dire avere accanto John. Un luogo da chiamare “casa” e qualcuno a cui fare riferimento. Cose che aveva sempre avuto ma che non aveva mai davvero posseduto, non volontariamente, ora erano lì: fra le mani gentili di un soldato rimesso insieme alla bene e meglio che però aveva avuto il coraggio, l’intelligenza, di provarci.
Da quando John Watson era apparso nella su vita, in silenzio e per puro caso, lui aveva capito cosa significasse avere un amico e quale sforzo comportasse esserlo a sua volta. Ed era tutto... confuso. Complicato.
A volte si faceva delle domande. Suo padre gli aveva insegnato quel trucco. “Sherlock” gli aveva detto un giorno: “tu sei intelligente, ma ti capiteranno di sicuro cose che non comprenderai del tutto, non subito. Porsi delle domande aiuta a trovare le risposte”.
Si era chiesto se valesse la pena proteggerlo, la risposta era stata “sì”. Si era chiesto perché volesse farlo, la risposta era stata “perché è mio amico”. Si era chiesto se gli bastasse.
Non aveva saputo rispondersi.
C’erano troppe variabili, troppe conseguenze per ogni azione, troppe parole. Ogni mossa prevedeva decine di scenari diversi. Aveva dei dubbi, delle indecisioni, cose che non aveva il coraggio di dire e azioni che non aveva la volontà di compiere.
Tenere agli altri era una fregatura dall’inizio alla fine. E non poteva impedirselo.
Fu mentre lo guardava dormire che, scorrendo con gli occhi la sua figura distesa, il suo sguardo fu attratto dal luccichio argenteo dell’anello sul suo anulare sinistro.
Legame. Anima Gemella. Sherlock aveva smesso di preoccuparsi di quelle cose da piccolo, quando era palese che lui non avrebbe mai avuto nessuno da chiamare tale, consapevole che non ci sarebbe stato nessuno ad aspettarlo alla fine della Ricerca, e che nessuno lo stava cercando a sua volta.
Il suo dito non aveva mai ospitato anelli di nessun genere, o nomi di sorta. La pelle era rimasta candida ed immacolata, nessun insieme di lettere l’aveva mai sporcata.
Oh, c’era stato un tempo in cui lo aveva voluto, sì. Con tutto se stesso. Due volte nella sua vita in cui aveva ceduto, e aveva pregato un Dio in cui non aveva mai creduto perché comparisse qualcosa, su quel dito vuoto, anche solo un’ombra.
Un’ombra qualsiasi, la prima volta. Un’ombra di nome Victor, la seconda (un pensiero che aveva subito cancellato).
Un’ombra di nome John... ?
Con lo sguardo fisso alla mano del medico, illuminata dal fascio di luce lattea proveniente dalla finestra, aggrottò la fronte in un pensiero ingiusto ma allettante.
Per quanto John lo negasse, gli stava nascondendo qualcosa.
Era un tarlo, un sussurro continuo nel retro della sua mente che continuava a tentarlo, a stuzzicarlo.
C’è il mio nome, sotto quell’anello?
La logica lo rendeva possibile. John era un BCE, lui un Bondless. L’interpretazione comune voleva che fossero i Bondless quelli ad aver rinunciato al Legame, in una qualche vita precedente, e che invece fossero i BCE a portarne addosso le conseguenze; loro erano quelli che non avevano avuto occasione di scegliere, che erano stati abbandonati da chi avrebbe dovuto rappresentare la metà esatta della loro anima e di tutto il loro essere, e il dolore fisico di una ferita destinata a non chiudersi mai si riteneva essere la punta dell’iceberg di una lesione interiore ancora più grande.
Secondo questa interpretazione, e ammesso che trovasse la volontà di crederci, era stato lui a recidere il Legame con John.
Perché?
Non lo sapeva (non poteva saperlo). L’unica cosa di cui era sicuro, era che John mentiva.
Un riverbero d’argento colpì i suoi occhi quando John, nel sonno, mosse le dita della mano.
C’era solo un modo per scoprirlo. Per esserne sicuro.
John non lo avrebbe mai fatto volontariamente. Ma ora dormiva, esausto, e non si sarebbe svegliato.
Alzandosi dalla poltrona e scivolando piano in ginocchio ai piedi del divano, Sherlock si avvicinò in silenzio alle mani del medico, poggiate sopra il proprio stomaco.
Fece scivolare con delicatezza la mano destra sotto la sinistra di John, sfiorandogli la pelle del palmo fino a poggiare i polpastrelli sul suo polso. Il suo battito cardiaco era calmo e lineare contro le sue dita, tranquillo come il suo respiro, e non diede segno di essersi accorto della vicinanza di Sherlock, della sua mano a contatto con la propria.
Se fossero stati Anime Gemelle, pensò Sherlock, e quello fosse stato il loro primo, vero contatto, il Legame si sarebbe attivato. Nessuno sapeva com’era davvero prima di provarlo, e succedeva solo una volta nella vita; in molti dicevano che le descrizioni dei libri non gli rendevano giustizia.
Da piccolo aveva voluto tanto provare quell’esperienza... Poi la speranza gli aveva voltato le spalle.
Trattando la mano di John come se fosse un composto chimico particolarmente instabile, la sollevò leggermente in modo da riuscire ad afferrare l’anello d’argento al suo anulare sinistro. Esitò solo un istante prima di cominciare a tirarlo, togliendolo.
Scivolò via dal dito con relativa facilità. E lo vide.
Era sporco di sangue rappreso, la pelle intorno alle lettere rossa ed infiammata, ma era lì. Innegabile come la pioggia, come il sole. Poteva nasconderlo dietro cerotti e menzogne ma non poteva cancellarselo, non poteva scomparire.
Sul dorso dell’anulare, il nome “Sherlock” lo guardava come a colpevolizzarlo in silenzio.
Strinse i denti, trattenendo il respiro in silenzio. Imprimendosi quell’ultima immagine della mente, poi, infilò di nuovo l’anello al suo posto e coprì il proprio nome, di modo che John non si accorgesse di ciò che aveva fatto.
Infine, con un sospiro, si mise seduto con la schiena appoggiata al divano. Chiuse gli occhi, concentrandosi sul proprio respiro, mettendo in ordine i pensieri.
Se lo era aspettato, ma nelle sue previsioni non doveva essere così. Non avrebbe dovuto sentirsi così. Come se John non se lo meritasse (eppure era ciò che pensava), come se fosse colpa sua (anche se non lo ricordava, e chissà quante vite prima).
Si faceva domande a cui non avrebbe mai potuto dare risposta.
Un movimento alle sue spalle attirò la sua attenzione; John si girò su di un fianco, un sospiro stanco fra le narici, e si passò la lingua fra le labbra.
« Sherlock? » mugugnò, gli occhi chiusi e ancora vittima del sonno, appoggiandogli una mano sulla spalla. « Tutto bene? » chiese.
A Sherlock sfuggì un sorrisetto. Stava bene, fisicamente, e John lo sapeva. Ma era troppo confuso e stanco per prestare davvero attenzione a ciò che stava dicendo, probabilmente.
« Certamente » rispose, appoggiando per un secondo la propria mano su quella del medico.
« Riposa » sussurrò a bassa voce. « Va tutto bene ».
 
 
 

.o0o.

 
 
 
« Spero che questa volta tu non mi abbia stravolto l’ordine dei calzini ».
Sentì la porta della camera da letto di Sherlock chiudersi, e poi il silenzio avvolgere di nuovo la casa. Il fuoco scoppiettava ancora nel camino, diffondendo una luce ed un tepore caldo nel salotto, in stretto contrasto con la neve che continuava a fioccare fuori dalla finestra.
Era stata una bella serata. Conosceva gente che avrebbe pagato per passare una Vigilia così, con gli amici e lo spumante, i regali e un’atmosfera gioiosa. Era la prima volta da quando era giovane che si sentiva così tranquillo, così... a casa.
Ma ovviamente qualcuno aveva dovuto rovinare tutto.
Non si era minimamente accorto di quel pacchetto rosso sul caminetto (ma Sherlock sì). Non aveva fatto caso al significato (ma Sherlock sì). Si era persino dimenticato di quei fastidiosi messaggi, quella sera (ma Sherlock no).
E poi, come al solito, era successo tutto troppo in fretta. La telefonata a Mycroft, Sherlock che prende il cappotto ed esce da solo, Mycroft stesso che telefona dicendogli di setacciare la camera del detective in cerca di cocaina, perché se aveva ragione e avessero davvero trovato il cadavere di Irene Adler, quella poteva essere una “brutta serata”.
Un eufemismo blando per descrivere la paura che Sherlock potesse drogarsi.
E tutto per Irene Adler.
John era un tipo geloso. Poteva controllarsi, fare finta che non gli importasse, sorridere e fingere complicità, ma questo non cambiava nulla. Erano solo maschere, occasioni di circostanza, frasi fatte. Paraventi dietro i quali si nascondeva per non far insospettire Sherlock – e il mondo.
Si era tessuto uno strano equilibrio fra loro da quando era cominciato il caso Adler. Cose non dette, cose lasciate all’intuizione, cose completamente taciute. Domande che John faceva e a cui Sherlock non rispondeva, il mutismo, le porte chiuse in faccia. Era abituato ai modi strani del detective, ai suoi picchi di rabbia e alle giornate di completo silenzio ma questo no, questo era diverso.
Sembrava che ci tenesse. A lei. Alla donna che era riuscita a fregarlo e che continuava a giocare con lui. Come un pavone che si mette in mostra. Come una sirena dalla voce sopraffina il cui unico scopo è stringerti a sé per mangiarti il cuore. Sembrava che ci tenesse, Sherlock, che non teneva mai a nessuno, che dentro al suo cuore non aveva posto che per se stesso.
Che dentro al suo cuore non aveva lasciato entrare nemmeno lui. Lui, che avrebbe dovuto averne il diritto. Lui che possedeva il suo nome scritto col sangue.
Li odiava. Entrambi, ma lei di più. Erano pensieri di cui si vergognava, che teneva per sé e per i momenti in cui, da solo, poteva permettersi di togliere i filtri e analizzare, scartare, sfoltire la mente, liberandosi delle considerazioni scomode, insensate, pericolose.
Liberarsi della voglia di dire a Sherlock la verità. Liberarsi del pensiero che, chissà, sarebbe potuto succedere un miracolo, e...
Chiuse gli occhi, prendendo un profondo respiro, cercando di deglutire il nodo che gli si era formato in gola (senza successo).
Non gli importava nulla di Sarah, o di Jeanette. Usciva con donne che avevano perso la loro Anima Gemella, o non l’avevano mai trovata, e tutte quelle storie cominciavano per capriccio basandosi sulla stessa, infame bugia; raccontava a tutte di non avere più un’Anima Gemella a causa di un incidente, o di non averla mai conosciuta, o di non credere ai SIN, e loro annuivano, compiaciute che un uomo gentile e tutto d’un pezzo come John Watson, romantico e divertente, non credesse al fatto che qualcuno, da qualche parte, lo stesse aspettando.
Non venivano mai a sapere che lui, quel qualcuno, lo aveva già trovato. Ma che era anche una causa persa dal principio.
Riaprendo gli occhi, John osservò la propria mano sinistra, appoggiata in un pugno chiuso sulla copertina del libro che si era messo a leggere in attesa che Sherlock tornasse a casa dall’obitorio.
Aprì le dita, si sfilò l’anello d’argento, cominciò a togliere il cerotto.
Ed eccolo lì. “Sherlock” inciso su pelle viva. Il suo dolorante, sanguinante, piccolo segreto che temeva di aver già rivelato. Il sogno irrealizzabile in fondo al cassetto.
Non aveva potuto odiarlo. Non poteva farlo. Così brillante, così eccentrico, così affascinante, sia mentalmente che fisicamente. Lontanissimo dall’essere l’ideale di uomo perfetto ma era adatto, era la persona adatta a lui, lo sapeva, se lo sentiva. La fiducia che gli aveva subito dato, nonostante sapesse chi fosse e chi rappresentasse, era un sintomo innegabile del fatto che ci tenesse, che lo volesse a discapito di tutto, a discapito del fatto che il destino gli avesse detto “no”.
Ma continuare a ripetersi “lui è mio” non aveva senso, ormai. Nella migliore delle ipotesi, Sherlock sarebbe stato di Irene Adler. Dopotutto poteva. Era un Bondless, così come Irene, e poteva. Potevano entrambi.
E lui, John Watson, avrebbe sorriso, felice per loro – felice per lui.
Nella mente, risuonò per un momento la voce di Moriarty. “Chi sei tu per avere sul dito il nome di Sherlock Holmes?”.
Deglutì, appoggiando l’anello sopra il tavolinetto lì a fianco e riaprendo il libro dove aveva interrotto la lettura, per distrarsi. Al leggere la frase dopo il segno, però, un sorriso amaro gli piegò le labbra.
Perdonami, perdonami di amarti e di avertelo lasciato capire”.3
 
 
 

.o0o.

 
 
 
Gli era capitato di non riuscire a dormire. In svariate occasioni.
Per la febbre e il dolore alla mano, a causa di un’ennesima sbronza di sua sorella, passando la notte in giro con i suoi amici, o chino sui libri all’università. In guerra, la maggior parte delle volte non dormiva ininterrottamente per giorni. Tornato a casa, non dormiva a causa degli incubi.
Da quando aveva incontrato Sherlock, tuttavia, a tenerlo sveglio era stato principalmente il detective. Con indovinelli dipinti in giallo su muri sperduti accanto ai binari della Overground, o con corse spericolate fra le strade della Londra notturna; a causa di un volino suonato sempre troppo tardi (o troppo presto), o svegliato nel cuore della notte perché unico pubblico disponibile all’ascolto di una sua idea, o di una sua deduzione, o di qualsiasi cosa fosse che gli impedisse il sonno – e che di conseguenza lo impediva a lui.
Tuttavia, quella notte non era lo stesso.
La stanza alla pensione di Dartmoor era comoda ed accogliente. Non grande, ma per lo meno pulita. Un letto singolo al centro, un comodino, tende e moquette ben spolverate, lenzuola pulite, TV funzionante, vista sull’adorabile paesino rurale. Silenziosa come solo la campagna poteva essere. Perfetta per la gita fuori casa a cui il caso di Henry Knight li aveva costretti.
E lui era stanco. In un giorno solo era entrato per la seconda volta in una base segreta supertecnologica (dopo essercisi infiltrato illegalmente una prima volta il giorno precedente), era stato drogato, spaventato a morte da una bestia enorme (vera o falsa che fosse, in quel momento non voleva affatto pensarci), avevano scoperto un progetto super-segreto, incastrato il colpevole, era stato drogato di nuovo ed infine aveva visto lo stesso colpevole esplodere in un capo minato. Senza contare il rapporto alle forze dell’ordine, durante il quale Sherlock aveva ovviamente dovuto insultare metà del corpo armato presente (Lestrade sia lodato per la sua pazienza), e il successivo riaccompagnare a casa Henry, già ampiamente sconvolto e sotto shock.
In poche parole, non si poteva dire che non fosse stanco. Non solo, era spossato.
E allora perché non riusciva a dormire?
Erano le tre del mattino e lui, in pigiama e calzini, faceva zapping appoggiato con la schiena alla testiera del letto. Aveva dovuto fare il giro di tutti i canali un paio di volte prima di incrociare le repliche della terza stagione di Doctor Who e si era messo a vederli senza il minimo sentimento, attendendo solo che il meritato riposo lo venisse a prendere. Si era tolto l’anello, come faceva ogni volta che comparivano sulla pelle i primi sintomi di una futura infezione (che sperava di non avere contratto a Baskerville, ad essere sinceri; fosse mai che il suo dito cominciasse a brillare al buio) e stava semplicemente lì, sul letto, aspettando che la crema antisettica venisse assorbita e facesse effetto.
Sobbalzò trattenendo il fiato quando, a metà del secondo episodio, qualcuno bussò alla porta. Due colpi secchi che risuonarono come petardi nel silenzio della notte.
Non si chiese subito chi poteva essere. Il primo pensiero andò al fatto che la televisione accesa avesse disturbato qualcuno, ma il volume era talmente basso che persino lui faticava a seguire i dialoghi. Allora chi...?
Il mistero fu risolto molto in fretta. « So che sei ancora sveglio, si vede la luce della lampada da sotto la porta ».
Sherlock.
John sospirò, strofinandosi gli occhi con indice e pollice della destra. Recuperò velocemente l’anello, che infilò sopra la crema semi-assorbita, e scendendo dal letto aprì la porta.
Anche Sherlock era in pigiama – che nel suo caso consisteva in un paio di pantaloni grigi da tuta e in una maglietta a mezze maniche blu – e i capelli arruffati suggerivano che si fosse rigirato nel letto senza dormire a sua volta.
« Cosa c’è? » domandò John.
« Posso entrare? » chiese Sherlock.
« Perché? Mi sembrava di aver capito che tu non avessi amici » rimbeccò il medico, facendo del suo meglio per mantenere la finta aria offesa.
Sherlock roteò gli occhi. « Per quanto ancora dovrà andare avanti questa storia? Mi sono già scusato ».
« Avevi cominciato, ma non mi risulta che tu abbia finito » continuò John, ma non poté fare a meno di esprimersi in una risatina a labbra chiuse, alla quale Holmes scosse il capo.
« Sì, invece » decretò quello, facendo un passo avanti ed entrando in camera.
Sempre ridacchiando, John richiuse la porta e tornò a sedersi sul letto, raggiunto poco dopo da Sherlock che si sistemò al suo fianco, il cuscino alzato dietro le loro schiene per dissimulare un po’ di comodità.
Ancora si stupiva quanto fossero diventate normali, per loro, cose del genere. Andare l’uno dall’altro, sedersi insieme a guardare la televisione, fare colazione insieme ogni mattina. Non si erano mai messi d’accordo, non avevano mai stabilito regole, ma lo facevano. Un altro modo per sentirsi a casa.
La stanza cadde in un silenzio confortevole.
Il letto a una piazza era troppo piccolo per ospitare entrambi senza che si stringessero, ma a nessuno dei due sembrava dare fastidio. Le loro spalle si toccavano, così come le loro braccia e i loro fianchi, le gambe unite che si separavano solo alle caviglie che Sherlock teneva incrociate, mentre John leggermente divaricate.
L’aria attorno a loro sembrava rarefatta. Era un’atmosfera strana, un po’ come una dimensione parallela dentro la quale erano finiti senza accorgersene; l’attimo infinito prima della risposta definitiva ad un gioco a premi in televisione, prima di sentire il proprio nome chiamato sul podio, il respiro trattenuto prima di un’iniezione. Una sensazione come di restare in bilico, come se il giorno non fosse scandito dalle ore, ma dal sonno; come se le ore prima del sonno rappresentassero l’ultima possibilità per fare errori di cui ti pentiresti – se solo fosse mattina, se solo fossi giudicato dalla luce del sole. Come se potessi sbagliare perché tanto l’incoscienza cancella tutto, dopo una dormita niente è mai successo, si può fare finta di nulla. Come se il sonno cancellasse la realtà trasformandola in un sogno che può essere tranquillamente dimenticato.
Per questo John si prese la libertà di guardarlo.
Il suo torace magro si alzava e si abbassava a ritmo regolare sotto la maglietta, le sue mani erano appoggiate sullo stomaco, le dita affusolate intrecciate l’una all’altra. Nessun anello a coprire un dito anulare che non presentava alcun nome. Tutto di Sherlock era particolare, unico, ma nulla lo era come il suo viso. Zigomi alti dal contorni affilati, folte sopracciglia nere, come le ciglia, come i capelli mossi e mai veramente in ordine. Labbra sottili e pallide. Occhi chiari di un colore francamente indefinibile.
Sherlock Holmes si portava addosso una bellezza che non poteva essere colta subito, ma che maturava con il tempo. Una bellezza di cui faceva parte il suo carattere impossibile e la sua intelligenza smisurata.
Una bellezza che John non si fece problemi ad osservare nella sua interezza nemmeno quando Sherlock se ne accorse e, piegando leggermente il viso, si voltò a guardarlo.
I loro sguardi si incrociarono e, se per John poteva essere decente (se non consigliabile) distogliere il suo, in realtà non lo fece. Mantenne gli occhi fissi su quelli di Sherlock, in quel momento di un azzurro cupo, e l’unica cosa che riusciva a sentire dentro di sé era la sensazione che continuare a guardarlo in quel modo fosse la cosa più giusta del mondo. Sherlock non parlava, non diceva niente nemmeno con quegli stessi occhi che stava fissando da secondi lunghi quanto minuti interi, e anche se normalmente il suo silenzio lo avrebbe innervosito, in quell’istante non aveva nessuna importanza.
Si avvicinarono senza che fosse necessario, o voluto, o programmato. Successe. Per caso o per istinto, si tesero l’uno verso l’altro, abbastanza perché John riuscisse a sentire i riccioli morbidi di Sherlock contro la fronte, e il respiro lieve dell’altro sul viso.
Fu Sherlock ad abbassare gli occhi per primo, facendoli scorrere lungo tutto il suo braccio sinistro fino all’anello d’argento. John sentì sulla pelle la forza di quello sguardo come se fosse stato tangibile, come una carezza, o lo scorrere delicato di una goccia d’acqua. Abbassò gli occhi a sua volta sulla propria mano, abbandonata a palmo in giù sul punto di unione delle loro cosce.
Sherlock sollevò la sua, posando le dita sul dorso della mancina di John come se stesse toccando l’archetto del suo violino, con reverenza; scivolò dal polso alle nocche nel più completo silenzio, arrivando a sfiorare con il polpastrello del medio la fascia di metallo che copriva il SIN.
Non fece forza, non fece pressione. Solo dopo alcuni istanti posizionò le dita in modo da fare presa sulla curva dell’anello e, forse giustificato dal suo silenzio, cominciò a toglierlo.
John trattenne il fiato. « No... » sussurrò, una leggera tensione alle dita prima immobili.
« Sì » ribatté Sherlock, la voce ridotta a solo fiato. « Sì ».
Talmente vicini, ora, da poter sentire il rispettivo battito del cuore. John chiuse gli occhi mentre Sherlock gli toglieva l’anello, vergognandosi come se stesse per essere denudato, come se Sherlock lo stesse spogliando un bottone alla volta; appoggiò la fronte a quella dell’altro e nascose gli occhi nei suoi riccioli neri, la bocca socchiusa in respiri tremanti.
Lo sentì scivolare via con la solita facilità, ma non riaprì gli occhi per osservare la reazione di Sherlock. Sospeso in un secondo infinito di viscerale terrore, aspettò.
Sherlock passò la punta dell’indice sul nome. Una, due, tre volte. Accarezzando pelle e crema, facendolo bruciare in molti modi, nessuno dei quali salutare. Delicato e... gentile, nel toccarlo, nell’accarezzarlo. Come se volesse curarlo. Come se volesse scusarsi.
Non capiva quanto facesse male.
« Ti prego, no... » mugolò disperato John, gli occhi ben chiusi e il respiro alla deriva, nascosto alla vista come se il non vedere ciò che stava accadendo potesse renderlo meno reale.
Ma Sherlock fece scivolare le dita fra le sue, intrecciandole insieme in una presa sottile. Scostò il capo contro il suo, sollevando appena in mento, facendo sì che il naso di John toccasse il suo e che le sue labbra sottili sfiorassero la guancia del medico nel parlare, nel dire di nuovo: « sì, John ».
Con la mente preda della peggiore tempesta, John lasciò che la vicinanza di Sherlock lo ubriacasse. Sospirò prima di avvicinarsi ancora e poggiare le labbra sulla sua tempia in un bacio tremante e casto, indeciso come il primo, dato con le labbra a malapena in contatto con la sua pelle.
Sherlock smise di respirare e, inclinando il viso, gli baciò la guancia. Qualcosa che più che un bacio fu solo uno sfregamento, insicuro e inesperto, dolce proprio per quel motivo.
John ripeté il gesto, baciandogli lo zigomo. Sherlock gli baciò la mascella.
John gli baciò il naso.
Sherlock il mento.
Unire le loro labbra fu solo il passo successivo. Un punto consequenziale a cui nessuno dei due badò, e di cui nessuno dei due si accorse se non quando successe, e le loro labbra erano le une sulle altre.
Il primo fu casto, e breve. Quasi casuale. Come se nessuno dei due lo avesse cercato ma se lo fossero trovato fra le mani così, senza motivo.
Il secondo fu l’esatta copia del primo. Un semplice incontrarsi di labbra a riprova della scoperta. Il terzo fu un assaggio. Il quarto fu un reciproco cercarsi.
Continuarono così per tutta la notte, stesi sul letto uno di fronte all’altro, divisi se non per le mani giunte. Galleggiando fra gli spazi vuoti del silenzio, sull’orlo di un dormiveglia effimero, a turno trovarono uno le labbra dell’altro finché non furono troppo stanchi per separarle ancora, e si addormentarono respirando uno sulla bocca dell’altro.
 
 
Quando il mattino arrivò e John si svegliò, era solo.
Il sole aveva davvero trasformato la realtà in sogno, e nell’assenza di Sherlock lo sentiva scivolare via. Dubitò che fosse vero, per un istante, ma l’anello abbandonato sulle coperte e il sapore dell’altro sulle labbra lo dissuasero dal non crederci.
Ma ciò che era avvenuto fra loro, cioè che era stato scoperto, faceva parte di una notte chiusa fra parentesi che non si sarebbe più ripetuta; questo John lo lesse negli occhi di Sherlock quando si incrociarono nella hall, e non sapendo cos’altro fare accettò lo status quo senza fiatare.
Continuarono la vita come se nulla fosse, e l’argomento non venne più toccato.
 
 
 

.o0o.

 
 
 
Nei mesi successivi non ci fu più tempo per parlare. Moriarty  tornò nelle loro vite sui passi di danza della Gazza Ladra di Rossini.4
Uno spartito perfetto che Sherlock riuscì a capire solo dopo, quando ormai un meccanismo perverso e bene oliato, un intricato insieme di cinghie ed ingranaggi, era già stato messo in moto e non vi era più possibilità di fermarlo.
L’intera sua vita ora faceva parte del gioco di Moriarty e l’unica cosa che si chiedeva, l’unica cosa che riusciva a pensare quando la sua mente non girava a vuoto nel ripetere ogni parola che il suo antagonista aveva pronunciato dal momento esatto in cui aveva messo piede in quell’appartamento a quando se ne era andato, era perché non avesse ancora coinvolto John. C’era qualcosa che gli sfuggiva.
E ancora non sapeva se fosse importante, o quanto.
 
 
 
« Stanno decidendo ».
« Decidendo? ».
« Se tornare con un mandato e arrestarmi ».
John distolse lo sguardo dalla finestra mentre l’automobile con a bordo Lestrade e Donovan si allontanava da Baker Street. « Dici? ».
« Procedura standard ».
« Saresti dovuto andare con lui » disse, facendo schioccare le labbra. « La gente penserà che... ».
Venne interrotto. « Non mi interessa cosa pensa la gente ».
« Ti interesserebbe... » continuò John: « se pensassero che sei stupido. O in errore ».
« No, sarebbero loro stupidi o in errore » contraddisse subito Sherlock.
« Sherlock, non voglio che tutti pensino che sei... » si interruppe.
Il detective alzò lo sguardo dallo schermo del computer, già consapevole del continuo della frase ancora prima che l’altro l’avesse iniziata, forse sapendo già dove sarebbe andata a parare la conversazione stessa.
Un istante di silenzio si dilatò fra loro, prima che Sherlock lo interrompesse.
« Che sono cosa? ».
John deglutì, ma non scostò gli occhi da lui. « Un impostore ».
Sherlock sospirò, appoggiandosi allo schienale della sedia. « Temi che abbiano ragione ».
« Cosa? ».
« Temi che abbiano ragione su di me ».
« No ».
« Per questo sei arrabbiato, non puoi contemplare la possibilità che abbiano ragione. Hai paura che io abbia ingannato anche te ».
« No ».
« Moriarty sta giocando anche con la tua mente. Non riesci a capire cosa sta succedendo?! » sbottò Sherlock, sbattendo il pugno sulla scrivania.
John tornò a guardarlo, osservandolo con serietà, prima di riportare gli occhi alla strada fuori dalla finestra. « No, ti conosco troppo bene ».
« Al cento per cento? ».
« Sì » rispose John.
« Lo dici perché ti senti obbligato a farlo? ».
John esitò al suono di quelle parole, il pollice della mano sinistra che subito andò a stuzzicare l’anello d’argento ben fisso all’anulare. Si voltò di nuovo verso Sherlock, l’espressione decisa come lo era stata dall’inizio di quell’assurda conversazione, ferma nell’intenzione di credere in lui perché lo voleva, non perché un nome gli ordinava di farlo.
« Nessuno può fingere per tutto il tempo di essere un coglione tanto irritante ».
 
 
 
Trovare l’indirizzo di Kitty Riley non fu difficile, bastò consultare l’elenco telefonico.
Così come non fu difficile entrare nel suo appartamento senza chiave, bastò l’abilità di Sherlock di aprire le serrature usando una carta di credito.
Al buio più completo, seduti sul piccolo sofà accanto alla porta d’ingresso, attendevano in silenzio che la giornalista tornasse a casa. Non si sentiva altro rumore se non il loro respiro e, a volte, il tintinnio delle manette quando uno dei due picchiettava le dita sul proprio ginocchio.
Sherlock era completamente perso nei propri pensieri, come da mesi a quella parte. John poteva quasi sentire i meccanismi della sua mente sovrumana girare ed incastrarsi a ritmo serrato, escludendo tutto ciò che non fosse importante, tagliando fuori il resto del mondo.
Chiudendo gli occhi nel buio più completo, sospirò piano. Solo nelle ultime due ore aveva preso a pugni un alto funzionario di Scotland Yard, era stato arrestato, ammanettato, era diventato ufficialmente un fuggitivo ed era scappato mano nella mano con Sherlock fino a tendere un’imboscata ad una persona che non conosceva, solo perché Sherlock aveva visto un indizio di sorta chissà dove e pensava che la giornalista potesse chiarire alcune cose che non quadravano.
Di nuovo, si domandò se era più pazzo il pazzo o il pazzo che lo seguiva.
« Sei ancora arrabbiato? ».
La domandò di Sherlock spezzò il silenzio all’improvviso,  distraendolo dai propri pensieri.
« Dovrei » rispose dopo un breve sospiro.
« Vuol dire che non lo sei? ».
« No, non lo sono ».
« Dovresti ».
« Lo so ».
Di nuovo silenzio. Le attese diventano sempre più lunghe quando non si ha nulla da fare (oppure quando si è ammanettati ad un’altra persona con pochi centimetri di catena a decretare il massimo spazio di libertà di movimento autonomo), e così era anche per loro. Probabilmente erano entrati in quell’appartamento da meno di trenta minuti ma sembravano già delle ore.
Fu di nuovo Sherlock ad interrompere quell’immobilità. « John? ».
« Mh? ».
Ma l’altro non continuò. Completamente immobile nella sua posizione, respirava talmente piano che non produceva il minimo rumore. Emise solo un fruscio, che Watson associò ad uno scuotimento di capo. « Niente ».
Anche se nel buio totale la vista era un senso inutile – tenere gli occhi aperti o chiusi era praticamente la stessa cosa – John voltò il capo alla sua destra, dove era seduto Sherlock. Fece schioccare la lingua fra labbra e, facendo tintinnare le manette, allungò la mano a prendere quella del detective.
Non si chiese se fosse giusto, sbagliato, adeguato o se la tempistica fosse corretta. Non si fece domande perché voleva farlo e basta, perché aveva una sensazione sgradevole in fondo allo stomaco che, seppure ragionevolmente infondata, non voleva lasciarlo in pace.
Era come se Sherlock si stesse perdendo.
Sorprendentemente – o forse no – Sherlock non si ritrasse al tocco, così come non lo rifiutò. Intrecciò anzi le loro dita in una presa lieve ma salda.
John si lasciò sfuggire un sorriso.
« Mi sarebbe piaciuto » mormorò poi Holmes, uscendosene dal nulla (o forse da un proprio muto pensiero).
« Che cosa? » chiese infatti Watson.
In risposta, Sherlock mosse il pollice in cerca del suo anulare, che accarezzò piano, una sola volta. « Mi sarebbe piaciuto » ripeté poi.
E John capì.
« Anche a me, Sherlock » rispose. « Molto ».
Possiamo riuscirci comunque, pensò John, possiamo andare avanti comunque; passare la vita insieme come se io fossi ancora tuo e tu non avessi mai smesso di essere mio.
Abbiamo tutto il tempo del mondo.
 
 

.o0o.

 
 
 
Lo guardi da lassù e ti chiedi quanto ne soffrirà.
Se capirà.
Se si chiederà perché.
Se indagherà.
Se ricorderà per autolesionismo.
Se dimenticherà per il suo bene.
È tutto preparato. È tutto un trucco, una magia.
Non ti farai del male (non davvero).
Non morirai (non davvero).
Non cadrai, non davvero. Mai.
Moriarty ti ha spinto sul ciglio del baratro ma ha fatto l’errore di buttarsi prima di te.
Ma anche così, ti resta l’amaro in bocca. Ancora non riesci a capire se hai vinto o perso la tua personale battaglia con il lato oscuro di te stesso che lui rappresentava, con l’avversario che ha tenuto viva la tua immaginazione, la tua sete.
Tu l’hai aspettato per tutta la vita, uno come lui.
Ma lì, in piedi sulla cima di qualcosa che non sa né di vittoria né di sconfitta, ti chiedi se fosse davvero Moriarty colui che hai atteso così ardentemente.
Perché c’è qualcuno, laggiù, che te ne fa dubitare.
 
Avresti davvero voluto che fosse tutto più semplice.
 
Lo guardi da lassù e sai già che soffrirà.
Che non capirà.
Che si chiederà perché ogni giorno,
ma non indagherà.
Che non vorrà ricordare per autolesionismo.
Che, infine, deciderà di dimenticare per il suo bene.
 
Lo guardi da lassù e ti chiedi se alla fine di tutto lui sarà ancora lì.
 
« Addio, John »
« Sherlock! »

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
____________________________________________________
 
1. Esiste davvero, sì. L’arredamento interno però è inventato XD
2. Il PE4 è un tipo di esplosivo al plastico simile al C-4, con la differenza che in UK è più diffuso.
3. William Shakespeare, Romeo e Giulietta.
4. “La Gazza Ladra” di Gioacchino Rossini è il titolo della colonna sonora in sottofondo a Moriarty quando, in The Reichenbach Fall, entra alla Tower of London.
   
 
Leggi le 22 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Yoko Hogawa