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Autore: rawrpayne    14/03/2013    5 recensioni
«carino il tuo amico.», ammiccò Henriette, in direzione del riccio che stava ballando sulla pista colorata.
«non ci provare, è inutile.», sbottai, serrando i pugni.
«un pensierino ce lo faccio.», continuò, liquidandomi con la mano.
«ho detto di no!», scandii ogni parola, prendendo la ragazza per il colletto della camicia bianca e sbattendola contro il muro freddo della discoteca, vidi la paura nei suoi occhi, la mollai di scatto e presi il riccio per un polso.
«andiamocene.», dissi fredda, trascinandolo tra la gente ubriaca e tremendamente sudata, lui si fermò.
«non voglio andare a casa.», disse, io strinsi i pugni e sospirai, cercando di mantenere la calma.
«fai come vuoi, allora.», borbottai, voltandomi e andando a casa.
[..]
«voglio che voi scriviate cos'è l'amore.», disse il professore.
"non ci siamo mai chiesti perchè cupido lanciasse le frecce al cuore, le frecce fanno male, l'amore fa male e ti fotte, anche.", scrissi velocemente, alzando lo sguardo e osservando lui e Henriette che ridevano. Mi maledissi perchè quella sera sarei potuta rimanere in discoteca e impedire il loro incontro, ma avrei finito per far male a lui, nel disperato tentativo di proteggerlo dai pericoli, di proteggerlo da me.
Genere: Comico, Drammatico, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Harry Styles, Zayn Malik
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Danger.


poggiai i gomiti sulle cosce e soffiai sul tavolo in legno d'acero che avevo davanti, facendo scivolare sulla superficie della polvere, poi alzai gli occhi, facendo una smorfia, per via del soggetto che si era fermato davanti a me.
«Jade.», sibilò, facendo un cenno con il capo, per poi aggiustarsi la divisa blu notte della polizia, alzai le sopracciglia, sbattendo più volte le palpebre.
«Agente Cox.», ricambiai, alzandomi e serrando i pungi. Quella donna non mi era mai andata a genio, era giovane, bella, ma sopratutto era uno sbirro*, e “loro” non mi erano mai piaciuti.
«cos'hai combinato questa volta?», chiese lei, mettendo le manette d'acciaio ai miei polsi, feci una smorfia, dopo si sarebbero intravisti i segni, ne ero certa.
«niente, sono solo venuta a trovarla.», risposi sarcastica, ruotando gli occhi azzurri, lei sorrise.
«un motivo deve pur esserci se sei qui per la quarta volta in un solo mese.», osservò lei, chiudendo le manette intorno ai polsi, che strattonai dalla sua morbida presa e misi dietro la testa.
«solita cella?», chiesi, mentre lei annuì.
«allora faccio da sola.», risposi ferma, superandola e iniziando a camminare tra i corridoi sporchi e terribilmente grigi del carcere di Holmes Chapel, cittadina sperduta nel Chesire, mi chiedo cosa avessero in mente i miei genitori, prima di venire a vivere qui.
Non che non mi piacesse vivere ad Holmes Chapel, solo non potevo sapere come si vivesse realmente, passavo le giornate intere tra i quartieri più isolati e quando rimanevo nel mio appartamento era perché ero in semi-libertà o semplicemente non mi andava di uscire, i miei genitori non potevano dirmi cosa fare o non fare, non più.
Erano morti in una rapina in banca, tre anni fa, quando avevo sedici anni, non sono mai stata in orfanotrofio, nemmeno in carcere minorile, sono riuscita a sfuggire dalle grinfie di ogni tipo di assistente sociale per due anni, poi compiuti i diciotto anni, ho iniziato a “vivere” allo scoperto, nessuna paura di essere scoperta e portata in una cella, cosa che adesso, accade spesso.
«che ci fai qui? Esci!», sbraitò un ragazzo moro, con i capelli brizzolati e gli occhi color nocciola, io scoppiai in una fragorosa risata.
«non rompere, questa è la mia cella, lo è sempre stata.», risposi, aggrappandomi alla scaletta del letto in ferro, sedendomici sopra.
«avevo detto a quel deficiente niente compagni di cella.», borbottò, cacciando una sigaretta dalla tasca, io mi guardai intorno, poi spalancai la bocca.
«qui non si può fumare, sono le regole.», dissi con un pizzico di gelosia, era da troppo che non fumavo qualcosa, ed era davvero difficile resistere davanti a delle sigarette come le malboro.
Il ragazzo fece spallucce e accese la sigaretta con un accendino rosso laccato, poi fece un lungo tiro e lo soffiò fuori, sul mio volto.
«l'ho sempre fatto, non si sono mai lamentati.», mi provocò, strinsi i pugni e sorrisi ironica.
«abbiamo un figlio di papà qui, vedo.», replicai, facendolo allontanare, infastidito.
Colpo basso, vai così Jade!
«senti biondina, dobbiamo condividere la cella, non c'è bisogno che io sappia qualcosa di te e tu di me, facciamoci i cazzi nostri e tutto andrà bene, okay?», sbraitò, buttando il mozzicone di sigaretta fuori le sbarre della finestra della cella.
«come vuoi, malik.», borbottai, lo vidi irrigidirsi, sorrisi.
Ce l'ho in pugno!
«non mi chiamano più così da tempo, biondina.», disse, prendendo un bel respiro, «fallo anche tu, se non vuoi finire male.», continuò, risi.
«cos'hai fatto per farti sbattere al fresco?», chiesi, lui mi mandò una frecciatina.
«non sono affari tuoi.», mormorò, lo liquidai con una mano.
«io ho fatto tante di quelle cose, ragazzo. Per esempio ho spacciato droga nei quartieri malfamati, poi ho fumato qualcosa di illegale e mi sono fatta beccare in una rissa, fuori un pub o una discoteca, non ricordo ero stra fatta e poi..niente.», borbottai, mentre lui annuiva interessato.
Lo vidi sedersi sul letto, dandomi una spallata poco elegante, si aggiustò il ciuffo con una mano e poi si guardò le scarpe, erano delle Blazer blu, della nike, gli dovevano essere costate una fortuna.
«ho ucciso una persona.», nessuna espressione, nessun sentimento traspariva dal suo volto, dopo aver pronunciato quelle parole, rabbrividii al solo pensiero di essere in cella con un assassino.
«legittima difesa, ma non c'è niente che lo provi, purtroppo.», continuò, annuii con foga e lui se ne accorse, poi mi guardò.
«non potrei mai farti del male, tranquilla.», mormorò, io scrollai le spalle.
«anche se tu mi uccidessi, non cambierebbe un gran che, credimi.», risposi calma, guardando intensamente il pavimento grigio della cella, poi silenzio, solo quello si udiva, un silenzio che mi fece gelare il sangue nelle vene, non mi era mai piaciuto, ogni volta che c'era il silenzio succedeva sempre qualcosa di negativo, sempre.
«Jade Jonson.», urlò la voce stridula dell'agente Cox, aprendo la porta della cella, mi alzai e con molta nonchalance alzai la mano.
«eccomi.», risposi goffamente, facendo ghignare il moro.
«mi segua.», ordinò, togliendo le manette dai miei polsi, che furono subito massaggiati dai miei polpastrelli, me le aveva strette di più quel giorno.

«cosa? Non se ne parla, lasciatemi morire in cella.», urlai in disappunto con il giudice, sbattendo con un tonfo secco le mani sulla stessa scrivania in acero delle ore precedenti.
La signora Cox si avvicinò al giudice e gli sussurrò qualcosa all'orecchio, che riuscì a decifrare con il labiale. “ve l'avevo detto che non sarebbe mai venuta, giudice.”, compresi velocemente, per poi sbuffare sonoramente.
«Jade, non fare la bambina, andrai a vivere con l'Agente Cox, che ti piaccia o no.», tuonò l'uomo anziano dietro la cattedra, ovvero, mio zio.
«che rottura di palle, non mi vuole nemmeno lei, perchè dovrei farlo?», risposi, serrando le labbra, arrabbiata.
«lo farai, basta.», sbottò di nuovo, battendo il martelletto sulla superficie marrone, io sbuffai, meglio non farlo arrabbiare, l'ultima volta mi aveva privato delle sigarette, anche quelle normali e mi aveva tenuto in cella per un paio di mesi, digiuna, visto che la mensa del carcere faceva schifo.
Mi alzai stufa di quella situazione e infilai il giubbotto di pelle nera, accesi una sigaretta e dopo un lungo tiro parlai.
«okay, ci vediamo a casa Cox.», la vidi irrigidirsi, con la pelle d'oca, io ghignai.
«Jade, tu verrai con me a casa, non puoi ancora uscire, non da sola.», rispose il poliziotto in gonnella, stringendo tra i pugni chiusi un pezzo delle maniche della sua divisa, sbuffai e annuii lentamente, dopotutto era meglio che una cella puzzolente. Mio zio ci liquidò con un gesto della mano e iniziai a camminare al fianco di quella che sarebbe stata la mia coinquilina, a tempo indeterminato.
«chiamami Anne, comunque.», spezzò quel silenzio, rendendo il suono della sua voce piacevole alle mie orecchie, che non ne potevano più di quegli stupidi silenzi.
«quand'è che potrò uscire?», sbottai, ignorando il suo stupido tentativo di stringere ogni tipo di rapporto di conoscenza con me, lei scrollò le spalle, poi si morse un labbro, gesto che non capii.
«uscirai solo se accompagnata.», rispose.
«non uscirò mai con una quarantenne come te, ne sei consapevole?», chiesi, guardandola e per la prima volta il pensiero di diventare una brava ragazza sfiorò l'anticamera del mio cervello.
«non uscirai con me, -si morse nuovamente il labbro, in difficoltà- uscirai con mio figlio, ha la tua stessa età.», rispose.
Ecco perchè si tortura quel cazzo di labbro, ha paura che possa fare qualcosa a suo figlio.
«non picchio, né torturo la gente, io.», risposi, distogliendo gli occhi dal suo volto e posandoli sul paesaggio che mi si ritrovò davanti, lei alzò la testa di scatto.
«n-on v-olevo dire quello, i-io..», mormorò balbettando, feci un mezzo sorriso.
«le parole fanno male come un pugnale in pieno stomaco.», cantilenai, lei aggrottò le sopracciglia, annuii lentamente, «quel pugnale è diventato parte del mio stomaco, Anne.», continuai, lei mi guardò con compassione, io con durezza.
«quando cazzo si arriva alla macchina?», sbottai, lei frugò nelle tasche color oro della divisa e poi afferrò un mazzo di chiavi, pigiando su un tastino verde e facendo aprire le porte della Range Rover nera davanti a me, spalancai gli occhi.
«bella, vero?», ghignò, io annuii lentamente, aprendo la porta e fiondandomici dentro, «me l'ha regalata mio figlio.», continuò, feci un gesto di approvazione con la mano, poi incrociai le braccia al petto e mi sedetti goffamente sul sediolino, aggiustando il pantaloncino a vita alta che avevo indossato la mattina stessa.
«siamo partite con il piede sbagliato.», disse, con lo sguardo fisso sulla strada, poi mi mandò una veloce occhiata, io alzai gli occhi al cielo.
«continuiamo ad andare nel piede sbagliato, allora.», risposi fredda, lei si aggiustò sul sediolino mentre io la osservai.
Era bella, molto, con capelli neri che gli ricadevano sulla schiena, postura perfetta, petto in fuori, schiena dritta e braccia magre sul volante, stretto dalle sue dita affusolate.
«ci sono delle regola a casa mia, se vuoi te le può spiegare mio figlio.», sorrise maliziosamente, io portai una mano sulla fronte, oltre ad essere bella era anche pervertita, risi.
«non ce n'è bisogno, io non ho regole.», risposi, lei mi liquidò con un gesto della mano.
«non fare tardi il sabato sera.», iniziò ad elencare, tenendo il conto con un le dita della mano. «già violata.», borbottai.
«quando si va a scuola il giorno dopo, preparare tutto il necessario prima.», continuò, io poggiai bruscamente le mani sul cruscotto della macchina e scossi la testa, chiudendo gli occhi.
«s-stai bene?», mi chiese la donna, poggiandomi una mano sulla spalla, che subito spostai.
«mai stata meglio.», risposi, «a scuola non ci vado.», continuai, lei schioccò la lingua sul palato.
«a scuola ci andrai che ti piaccia o no.», rispose, «sennò te ne torni in carcere.», concluse, scendendo dalla macchina, io feci lo stesso per poi squadrare la grande villa che mi si ritrovava davanti, accendendo una sigaretta.
«qui non si fuma.», mi sgridò Anne, togliendomi la sigaretta da bocca e spegnendola a terra.
Che la guerra abbia inizio, allora!


*saluta*
Habemus Papam...no, ok lo sappiamo tutti, io lo adoro papa kekko,asdfghjk.
coooomunque proprio ieri, mentre aspettavo che il nuovo papa si affacciasse da quel balcone per salutarci,
mi è venuta questa storia, è solo un capitolo di passaggio ovviamente,
dal prossimo in poi ci sarà un pò d'azione, diciamo.
Ora vorrei voi recensiste, anche una critica, eh? vorrei sapere se vi piace, se vale la pena continuare, è la mia prima FF.
* sbirro è il nome utilizzato per identificare un poliziotto in modo dispregiativo, a volte.

  
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