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Autore: KatrinaLennon    26/03/2013    2 recensioni
C’era qualcosa che irrimediabilmente li separava. Forse l’odio, pensava Heechul, forse la paura di non essere accettato, pensava Donghae, ed entrambi sbagliavano, e anche di tanto.
Respirando
il primo dei ricordi che veloce appare
sto fumando
mentre entri nel cervello e mi raggiungi il cuore.
Proprio in fondo al cuore,
senza pudore
per cancellare
anche il più antico amore.
Respirandoti,
io corro sulla strada senza più frenare,
respirandoti,
sorpasso sulla destra e vedo un gran bagliore
Lontano una sirena e poi nessun rumore.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Donghae, Heechul
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nel greto della nostra intimità 
a volte le parole si prosciugano 
e il fiato non ha via d'uscita 
momenti che si perdono così 
un libro aperto quando viene il buio e noi 
colpevoli di troppo aridità


 9 Agosto 2006 – E se ti dicessi come mi sento?

Ci aveva provato a fregarsene, tutti dicevano che era un gran egoista ma non era così. Non era nemmeno spietato come tutti lo definivano. Insomma, la gente non lo conosceva. Ma che la pensassero come gli paresse, una persona spietata avrebbe fatto di tutto per stare vicino a un proprio amico? Eppure non era proprio una persona senza impegni, o problemi. Doveva finire di girare quella sitcom, che, sì, aveva a cuore, ma avrebbe preferito avere un pensiero in meno in quel periodo, poi  scrivere quella canzone per i Super Junior e pensare al SBS Popular Songs. In più aveva la testa da un’altra parte, forse per colpa del troppo stress, o forse per le aspiranti stalker sempre alle calcagna, forse per.. non lo sapeva nemmeno lui.
Dentro la macchina si sentiva quasi bene, quasi una persona libera. Ma la SM spuntava già all’orizzonte, imponente, padrona: “tu mi appartieni” sembrava sussurargli.

Donghae ha bisogno di me.
Si, anche se aveva altri ottomila pensieri doveva stargli vicino. Sentiva il suo dolore penetrargli fino alle ossa. Teneva a lui come un fratello, come.. non sapeva descriverlo, un affetto così, non aveva parole, solo fatti, per essere spiegato.
Sapeva cosa stava passando, glielo si leggeva negli occhi. Quegli occhi così limpidi, trasparenti, non capiva perché gli altri del gruppo non riuscivano a capirlo, solo lui riusciva a leggere con così tanta facilità quello sguardo? Solo lui mentre ci guardava dentro vedeva un mondo diverso?
Heechul uscì dall’auto, mentre Donghae all’entrata dell’agenzia era fisso a guardare il sole nascente. Era l’alba e lui era già lì. Strano. Si avvicinò mettendogli una mano sulla spalla.
- Come stai? -
Donghae di tutta risposta gli rivolse uno di quegli sguardi pieni di parole. Erano un fiume, le vedeva scorrere, così tante che strariparono in due lacrime, grandi, ma estremamente fragili, come lui in quel momento.
Heechul sentì il dovere di abbracciarlo, ma qualcosa lo fermò. Il cuore gli stava battendo troppo velocemente. Non poteva permetterglielo, sapeva che abbracciare Donghae sarebbe significato sentire il suo cuore uscire letteralmente fuori dal petto, così mentì a se stesso.
Un abbraccio è l’ultima cosa di cui ha bisogno.

Donghae vide scendere Heechul dalla sua bella macchina nera, lucida, elegante. I deboli raggi dell’alba si specchiavano su quella carrozzeria, trattata al meglio. Ma riusciva a immaginare le centinaia di bottiglie di alcool sparse sotto i sedili, l’odore di fumo mascherato dal solito profumatore per automobili alla menta che Heechul comprava solo e soltanto da NuriMarket. Tornò a guardare il cielo di quella splendida mattina, non sentendo nessun sentimento in particolare, o almeno era lui che si impediva di provare qualcosa.
 Si distrasse pensando a Heechul. Lui era come la sua macchina: perfettamente curato all’esterno, impeccabile, tutti lo adoravano e molto probabilmente invidiavano, ma dentro Heechul portava tutta la sporcizia che periodicamente si obbligava ad aggiungere a quella che aveva già dentro, cercando di nasconderla, di mascherarla tenendo la testa impegnata in mille altre cose, senza accorgersi che comunque quella merda rimaneva sempre lì, poteva scappare, ma se prima non ripuliva il tutto, la puzza di quei pensieri torbidi sarebbe tornata sempre su.
Vederlo scendere e avvicinarsi lo fece sentire meglio, sapeva che lui lo capiva, si sentiva meno solo quando lui era nei dintorni. Il suo tocco lo faceva sentire alleviato un po’ del peso che si portava dentro. Quando gli chiese come stava semplicemente senti riaffiorare tutte le parole, tutti i sentimenti, tutte le sensazioni che si stava imponendo di trattenere, come quelle lacrime che prepotentemente uscirono senza che potesse fare nulla per fermarle. Stava mettendo il freno a troppe cose.
Avrebbe voluto solo un suo abbraccio, ma Heechul lo guardò con un’espressione indecifrabile ed entrò nell’agenzia.
Si chiese perché avesse deciso di accompagnarlo al funerale se poi non riusciva nemmeno a dargli una parola di conforto.
Ma aveva bisogno di lui, lo sapeva. Sapeva che gli sarebbe bastata quella mano sulla sua spalla per non affondare.

10 Agosto 2006 – No sound, but the wind

Erano andati con la macchina di Heechul, e la puzza di fumo e menta stava letteralmente facendo girare la testa a Donghae. Non sopportava ne il fumo né la menta, e quel mix era qualcosa di distruttivo, ma non aveva il coraggio di parlare, di solamente respirare. Heechul gli faceva uno strano effetto sotto quegli occhiali da sole, sapeva che se avesse parlato avrebbe avuto l’impressione di parlare con una maschera, e, insieme alla menta e al fumo, le maschere erano le cose che odiava di più.
Cercava di tenere impegnata la mente per non pensare al fatto che era in macchina, da solo, con Donghae. Più che altro non osava pensare alle farfalle nello stomaco e al cuore che batteva all’impazzata ogni volta che si concedeva uno sguardo a quelle mani, a quegli occhi, a quel viso, a quella figura, accanto a lui, in quella macchina avvolta da quella puzza orribile che ormai sapeva di casa: somigliava tanto alla puzza dei suoi pensieri.

- Cos’hai Heechul? – gli chiese la madre, preoccupata, mentre vedeva il figlio dall’altra parte della tavola mangiare poco e niente. Non tornava spesso a casa, nell’occasione gli aveva preparato il kimchi con il riso, che sapeva che il figlio amava. Ma aveva toccato sì  e no due chicchi di riso.
- C’è qualcosa che ti preoccupa? – provò. Ma Heechul le rivolse il suo solito sorriso beffardo, quello con cui ti diceva chiaramente che stava nascondendo qualcosa ma che provava in tutti i modi di non farlo trasparire.
- Sei innamorato? – sorrise amorevolmente, provando ancora. Allora Heechul provò le farfalle allo stomaco, riportando alla mente l’unica immagine della persona che poteva farlo stare bene, consapevole che era lontana, lontana chilometri ora. La madre constatò da quel sorriso beffardo che si spegneva lasciando spazio a due guance colorite e uno sguardo perso nei pensieri, che aveva colto nel segno.
Si alzò con una specie di orgoglio nel cuore, felice che finalmente il figlio avesse mostrato amore per qualcun altro in quel mondo oltre che per se stesso. Si avvicinò a lui, prendendo la sedia più vicina, in modo da sedersi e avere quei begli occhi vicini ai suoi, come se la vicinanza avesse potuto permettergli di leggere anche quello che Heechul non le diceva.
- La conosco? – cominciò.
- Non penso – rispose il figlio, lasciando riaffiorare quel sorriso beffardo.
Di nuovo le stava nascondendo qualcosa.
- E’ carina, almeno? E sta bene in minigonna? – scherzò la donna, ricordando quella volta in cui il figlio le disse di volere una ragazza che stesse bene in minigonna.
Heechul rise a quella domanda, non tanto per il senso di essa, ma perchè lo immaginò in minigonna e al solo pensiero di vederlo vestito in quel modo lo fece sentire male dal ridere.
- Mamma… non è… - cercò di spiegare fra le lacrime. Ma all’improvviso si rese conto di ciò che stava per dire e si fermò appena in tempo tornando serio. Come gli era saltato in mente? Cosa voleva? Essere cacciato di casa? Doveva stare più attento.
Spazientita la donna cercò di farlo parlare, la curiosità la stava mangiando. Ma allo stesso tempo un brutto presentimento le era arrivato allo stomaco. Negli occhi del figlio aveva letto qualcosa che non voleva leggere. Un muro, una bugia. Qualcosa che quello sguardo non voleva far trasparire. Paura, forse.
- Forse sai qualcosa che non vuoi dirmi, Heechul? – gli chiese sospettosa, diventando seria. Quegli occhi si erano fatti troppo seri, troppo all’improvviso.
- No, assolutamente, come potrei nasconderti qualcosa madre? Come potrei nasconderti una parte di me per paura di non essere accettato? – rispose sarcasticamente Heechul , tirando ancora fuori quel sorriso beffardo.
Fu allora che capì che cosa quello sguardo nascondesse. Quel muro enorme si crepò da una parte lasciando scorgere una piccola parte di ciò che nascondeva, piccola ma grande abbastanza da cominciare a comprendere.
- Non è forse una lei, Heechul? – chiese minacciosa, inorridita al solo pensiero.
Heechul non rispose, ma il suo sguardo lasciò trasparire la risposta, prima che quest’ultimo l’abbassasse consapevole di essere stato colpito nel profondo.
- Esci fuori da questa casa – furono le ultime parole della donna, sussurrate e articolate lentamente tra i denti, perché non lasciassero uscire le mille varietà di insulti che voleva in realtà dire.
Ma Heechul, oltre quella frase li scorse tutti. Scorse tutto l’odio, il disprezzo, la delusione che non avrebbe voluto vedere, negli occhi e nella voce della madre. Un colpo che da tempo si stava preparando ad accogliere, ma che sapeva non avrebbe mai potuto incassare senza sanguinare.

Tornò alla realtà ma le parole della madre sembravano aver reso pesante l’aria. Le vedeva quasi fluttuare
Esci fuori da questa casa. 

Era l’alba e il sole era davvero fastidioso, la strada fortunatamente era libera, anche se da una parte avrebbe preferito essere distratto dal traffico, quella strada lasciava che la scia dei suoi pensieri vagasse libera.

Non poteva fare a meno di lanciare occhiate furtive a Heechul, sentiva il bisogno fisico di sentire la sua voce, del suo tocco su di lui. Era come una calamita, non poteva non sentire quell’attrazione farsi sempre più forte quando la vicinanza aumentava. Ma allo stesso tempo aveva paura, paura di quegli occhi che quando lui rompeva le prime barriere si facevano vigili e seri. Ma nonostante questo non riusciva a tenere a bada quelle maledette farfalle nello stomaco, era un turbinio di ali ogni volta che Heechul contraeva i muscoli delle braccia, o contraeva la mascella per chissà quali pensieri che lo torturavano. Lo capiva. Sapeva che quella strada libera lasciava vagare i suoi pensieri senza freni, perché così stava succedendo a lui. Tutto quello che in quei giorni era riuscito a tenere a bada, come lampi nella notte nera, venivano a galla all’improvviso, luminosi come non mai, fino a che con fatica li riportava al loro posto, nascosti nell’ombra, sotto chiave.

Era dal debutto che non lo vedeva, ormai più di un anno. Non avevano mai avuto buonissimi rapporti, ma gli voleva bene, in fondo era sempre suo padre, in fondo nel suo corpo c’erano ventitré dei suoi cromosomi. Ma lui non era mai stato capace di accettarlo così com’era. Aveva sempre cercato di far si che fosse simile a lui, non era riuscito ad accettare il fatto che lui volesse fare il ballerino, non l’avvocato,l’ingegnere, il meccanico, qualcosa di più virile,insomma, e per questo non lo aveva mai considerato un uomo (non era venuto nemmeno il giorno del debutto, nemmeno una parola di conforto, o un “fightin’”, il nulla). Durante il periodo che partiva dal debutto fino a quel giorno non era riuscito a mantenere i contatti, mentiva a se stesso dicendosi che era colpa di tutti gli impegni avuti con i Super Junior, ma quell’odiosa vocina tornava a tormentarlo accusandolo di non aver voluto trovar tempo, nemmeno per due minuti di telefonata, perché aveva paura. Perché sapeva che in fondo suo padre aveva ragione.
Non era mai stato capace di fare l’uomo.
 Appena entrato a casa provò diverse sensazioni, una dovuta alla felicità di respirare l’odore che lo aveva cresciuto, quello dei meravigliosi piatti cucinati ininterrottamente dalla madre, quello delle rose della nonna sul davanzale di ogni stanza, quello della pelle dei suoi famigliari, quell’insieme di odori che ti dicono “sei a casa, finalmente”; ma dall’altra parte il timore, il timore di ciò che sarebbe potuto uscire fuori in quei due giorni che poteva passare con loro. Fu accolto dalla madre con un abbraccio che sapeva anche di lacrime (l’aveva chiamato il giorno prima. “Donghae, per favore, ascoltami” aveva detto, con voce spenta “tuo padre… tuo padre.. sta male. Gli hanno diagnosticato un mal funzionamento del cuore” poi il silenzio. Dei singhiozzi. “N..non sappiamo se arriverà alla fine dell’anno” ancora silenzio. “Ti prego, non affaticare il suo cuore.”). – Tuo padre è fuori, in garage, ti aspetta – gli sussurrò all’orecchio, con un sorriso forzato.
Uscì fuori dalla porta, e si recò al piccolo giardino dietro quella modesta casa. Fu meravigliato nel vedere che era tutto come lo aveva lasciato, il prato sempre perfettamente pulito, l’albero di fiori di pesco all’angolo vicino alla staccionata, che, Donghae osservò con un sorriso, era rotta ancora nel punto in cui ci era finito perfettamente in asse a otto anni, dopo un volo di non seppe mai quanti metri dalla bici troppo grande del padre. E la testa di quest’ultimo ora era china a riparare la catena di quella vecchia bici davanti la porta del garage. Nonostante non avesse fatto nessun rumore il padre si accorse della sua presenza e, con un sorriso enorme, lasciò attrezzi e tutto il resto, per pulirsi le grandi mani sulla sporca tuta da lavoro e ricoprire a grandi passi la distanza che lo separava dal figlio. – Ecco il mio uomo! – disse abbracciandolo. Donghae si godè quel piccolo paradiso finchè durò, domandandosi come avesse potuto avere timore di quel momento per tutto quel tempo. L’uomo sciolse l’abbraccio tenendo il figlio per le spalle approfittandone per guardare finalmente quegli occhi grandi e scuri come i suoi. Ma non lesse quello che avrebbe voluto leggere.

Donghae con estrema difficoltà cercò di ritornare alla realtà, prima che le lacrime potessero sopraffarlo. Se solo avesse… se solo fosse stato capace…

- Come stai? – chiese di nuovo Heechul, con lo stesso tono del giorno precedente.
Donghae seppe solo sorridere, per tirare giù il groppo che aveva in gola.

Andarono a tavola. Era un piacere vedere suo figlio Donghae lì dopo un anno e passa che non lo vedeva, ma quegli occhi… quegli occhi non gliela raccontavano giusta. Non c’era tristezza. C’era… c’era forse amarezza, forse timore, o forse solo amore. Sorrise, al pensiero che magari sarebbe riuscito a vedere il figlio sposarsi, prima di..

Finito il pranzo l’uomo decise di portare il figlio al fiume, quel posto dove avevano condiviso tante cose.
- Donghae… - iniziò, mentre gli occhi profondi e senza muri di Donghae si rivolgevano al viso del padre. –C’è qualcosa che vorresti dirmi? -
Donghae fu colpito dalla domanda. Si era scordato quanto il padre potesse conoscerlo.
- Papà.. Non credo valga la pena parlarne – cercò di tagliare corto.


- Heechul… se ti dicessi… che è stata colpa mia? – guardò il suo compagno di viaggio senza riuscire a trattenere le lacrime.

- Vale la pena ascoltare mio figlio – sorrise amorevolmente di rimando alla risposta del ragazzo.
- Papà.. per te… io… io sono un uomo? -
A quella domanda guardò il ragazzo senza capire.
- Certo, figlio mio, e direi che sei anche un gran bel pezzo di uomo! – ridacchiò dandogli una potente pacca sulla spalla –scommetto che hai fatto conquiste lì alla SM eh! – aggiunse sottovoce.
Donghae pensò a l’unica persona su cui avrebbe voluto far colpo, sapendo che quest’ultima fosse sbagliata.
Sorrise amaramente.
- E ti vado bene così, anche se non sono come tu vuoi? E ti andrò bene lo stesso anche se ora ti dirò qualcosa che non ti piacerà? – azzardò.
- Donghae… cosa succede? Non mi far preoccupare – ogni traccia di spensieratezza sparì dal suo volto.
- Papà..-
Voleva davvero dirglielo?
Voleva davvero rischiare?
- Papà…-
Si, ne sentiva il bisogno.
- Sono innamorato di un uomo. -


Heechul sorrise, comprensivo.
- Ma cosa dici Donghae. Sai benissimo che non è così. Tuo padre stava male, non avresti potuto fargli niente, è stato un infarto, tu non c’entri nulla. – sorrise ancora, e ignorando tutte le sue promesse, accarezzò la gamba del ragazzo accanto a lui.
- Tu non sai… Heechul… Heechul è stata colpa mia, solo… solo colpa mia – scoppiò in lacrime, quelle lacrime che rompono ogni barriera, come si rompe una diga, senza freni.
Cercò di tenere al freno almeno quel ricordo, ma no, non ci riuscì, e un’ondata di pensieri, suoni, immagini lo sopraffò di nuovo.

La puzza di ospedale, sua madre che piangeva, suo fratello che senza versare una lacrima abbracciava la madre, scandendo il tempo con le sue carezze, davanti la sala operatoria, in attesa che un dottore uscisse e gli dicesse “suo padre è ancora vivo”. E poi c’era lui, lontano da quel quadretto famigliare, nell’angolo più buio del corridoio, seduto su quelle sedie fredde e sporche, raccoglitrici di lacrime e attese. Guardava fisso davanti a sé senza vedere in realtà nulla, solo la figura di suo padre che, dopo la sua stupida dichiarazione, perdeva i sensi.

Non aveva mai potuto sentire le parole del padre che gli dicevano  “Si, ti amo così come sei Donghae, non importa, tu sei il mio uomo, e sono fiero di te”. Gli sarebbe bastato solo quello…


“Benvenuti a Mokpo” recitava il cartello davanti ai loro occhi. Erano arrivati.
Il funerale sarebbe iniziato tra qualche ora.

Avevano passato la maggior parte del viaggio in silenzio, c’era qualcosa che irrimediabilmente li separava. Forse l’odio, pensava Heechul, forse la paura di non essere accettato, pensava Donghae, ed entrambi sbagliavano, e anche di tanto.

La chiesa era quella che Donghae era stato costretto a frequentare fino a che non era riuscito ad essere autorevole e imporre la sua libertà di pensiero ai genitori. In realtà non gli dispiaceva quell’edificio, quel posto in generale, era semplice, accogliente, una piccola costruzione di legno chiaro in mezzo a un giardino bellissimo, decorato con fiori di colori variopinti e forme diverse e affascinanti, lo aveva odiato per così tanto tempo forse per un capriccio adolescenziale, o forse solo perché sapeva che quella stupida religione non avrebbe mai ammesso quello che lui sentiva di essere.
Abbracciò la madre e il fratello, e poi tutti gli altri famigliari. I membri dei Super Junior, i suoi compagni, si alzarono per stringergli la mano per poi tornare ai loro posti. Sentiva lo sguardo della madre farsi accusatorio, nonostante gli avesse ripetuto più volte che lei sapeva che non era sua la colpa.

Il medico che tanto aspettavano arrivò. Ma non portò buone notizie. Con freddezza li accompagnò in una sala e li informò che suo padre non ce l’aveva fatta, che l’infarto era stato fatale. Fece firmare delle stupide carte a sua madre, e li lasciò da soli mentre le sue parole logoravano l’anima di ognuno, specie quella di Donghae.
Tornati a casa la madre preparò in silenzio la valigia del figlio più piccolo. – Non torturarti, non è stata colpa tua – gli disse (a Donghae sembrò di cogliere una strana  freddezza in quel tono), mentre il ragazzo scendeva dalla macchina per recarsi alla SM.


Non voleva pensarci. Semplicemente non riusciva a capacitarsi che suo padre non sarebbe più stato lì. Si sentiva uno stupido ad averlo evitato per così tanto tempo. In quel momento avrebbe desiderato anche solo due minuti con lui, almeno per dirgli che gli aveva voluto bene, tanto bene, e avrebbe voluto sentirsi dire altrettanto.
Dopo il funerale la gente cominciò a disperdersi, i suoi compagni andarono via ognuno con le proprie macchine, mentre famigliari e amici si disperdevano o si fermavano a parlare con la madre e il fratello, lui invece si allontanò da tutti. Sapeva di essere lui la causa di tutto. Non aveva bisogno di condoglianze, ma di essere schiaffeggiato e strillato e maledetto, perché avrebbe potuto semplicemente stare zitto e lasciare vivere suo padre fino all’ultimo. Lasciare un marito a sua madre. Lasciare un padre a suo fratello. Lasciare nella mente del padre un’immagine di lui di un vero uomo, virile, magari anche sposato, come desiderava lui.
Tutto questo per cosa poi? Per un uomo che amava, ma che sapeva solo illuderlo e poi guardarlo con distacco. Per un uomo che ora se n’era andato, con la sua maschera e la sua macchina tirata a lucido.
(Per quell’uomo che ora era l’unica cosa che desiderava).
Si recò sulla riva del fiume, a guardare quello che ormai era il sole che stanco tornava a dormire, lasciando dietro di sé scie rosse e arancioni. Tirò a sé le ginocchia, poggiandoci sopra la testa, cercando di non pensare a Heechul, o al padre o a tutto quello.
Avrebbe voluto essere come quel sole. Poter tramontare ogni giorno, e poi rinascere più forte di prima il giorno successivo, per poi morire e di nuovo rinascere. Voleva poter non pensare, voleva poter essere libero. Come quelle rondini che si dirigevano all’orizzonte. Ma un tocco caldo, famigliare lo distrasse dai suoi pensieri. Si girò di scatto e la figura che tanto stava cercando di dimenticare in quel momento, se la ritrovò accovacciata a pochi centimetri da lui.
Con estrema forza di volontà, si allontanò da quel viso (così bello) e da quella mano (così rassicurante) e continuò a guardare il cielo come prima, stavolta senza riuscire a formulare niente. La presenza di Heechul non gli permetteva di pensare lucidamente, di nuovo quel turbinio di ali nello stomaco tornò ad essere presente, giurò quasi di sentirlo salire fino al cervello.
- Pensavo te ne fossi andato con gli altri -, disse, cercando di non guardarlo, sapeva che qualsiasi cosa avesse provato a dire guardandolo gli sarebbe rimasta in gola.
- Pensi davvero che io sia “gli altri”, Lee? – rispose Heechul, con una nota di rabbia nella voce. Possibile che quel ragazzo non riusciva a capirlo?
- Non saprei, ultimamente sei forse più distante degli altri. E non capisco il perché -
- Se fossi distante ti avrei accompagnato qui?- disse con una certa tristezza. – Se fossi davvero distante, avrei dato la precedenza a te mettendo al secondo posto tutti i miei impegni? – continuò, alzando leggermente la voce.
- Pensi che basti questo, Heechul? Pensi che darmi un po’ del tuo tempo possa farmi sentire accettato da te, o mi possa far capire che mi vuoi bene? Che –mi vuoi bene quanto io te ne voglio a te, un bene che forse non conosci, Kim.
- “Che” cosa Donghae? Cosa?  - finì per urlare.
- TU NON CAPISCI, HEECHUL, TU NON CAPIRAI MAI, TU SEI SOLO UN EGOISTA! – si alzarono entrambi in piedi, Heechul sovrastava Donghae. Heechul sentiva le parole di Donghae attraversarlo e colpirlo al centro del cuore, l’aveva ferito, nel profondo.
- Cosa non capisco? – disse allora piano, quasi in un sussurro, tra le lacrime.
- Sai perché mio padre è morto? – rispose tremante Lee, cercando di riacquistare il controllo di se stesso.
- Cosa c’entra ora? -
- Rispondi. Lo sai? -
- Per un infarto. -
- Esatto. – sorrise amaramente Donghae, mentre le lacrime gli rigavano il viso. – E sai chi c’era mentre si accasciava per terra e perdeva i sensi?
IO.
Io, Heechul. E sai perché? – continuò con le sue domande retoriche, mentre Heechul continuava a non capire il senso di tutto quello.
- Perché non l’ho reso fiero. Perché non l’ho mai reso fiero. – si avvicinò al suo interlocutore, facendo diventare la sua voce un sussurro. – Perché non sono stato nemmeno capace di innamorarmi della persona giusta. – rivolgendosi più a se stesso che a lui.
Heechul cominciò a capire. Una lampadina si accese nel suo cervello, ma cercò di soffocarla. Non era possibile. Non potevano. Non sarebbero. Non gli sarebbe mai stato permesso.
- Non dire stupidaggini Donghae. Non può essere morto per questo, lo sai, stava male. -
Donghae si trascinò in una risata isterica. – Cosa ne sai tu, cosa ne puoi sapere – disse fra le risa e le lacrime.
Ma a quel punto Kim fu sopraffatto dalla rabbia. Lui ne sapeva e come.
Prese Lee per le spalle e lo strattonò forte. – Tu. Non. Sai. Nulla. Di. Me.- disse scandendo ogni parola.
- Illuminami, allora- gli fece Lee di rimando. – Ti prego-  supplicò poi, mentre la sua voce si fece più dolce; cercò di accarezzargli il viso.
Ma come ogni volta Donghae aveva oltrepassato le barriere. Heechul si staccò di colpo.

Il tocco della mano di Donghae fu come un carbone ardente. Avrebbe voluto che quella sensazione lo pervadesse per sempre, come in quel nanosecondo, ma la sua stupida barriera non glielo permise.
Trovò davanti a sé non più il viso di Donghae, ma gli occhi pieni di disprezzo della madre.
- Scusa, non posso… non posso – riuscì solamente a dire. E scappò in direzione della sua macchina.     
        Perché si stava comportando in quel modo? Tutto quello che voleva era stare con lui, e ora che lui si era fatto avanti, ora che sapeva che Lee, come lui, aveva distrutto ogni rapporto con la famiglia per dichiarare al mondo che voleva stare con lui, stava scappando. Di nuovo, in quella macchina, piena di pensieri torbidi.
Forse una cosa in tutto quello poteva essere definita ‘buona’: finalmente era capace di riconoscere a se stesso che il motivo per il quale non riusciva a stare con la testa a posto quell’ultimo periodo, era solo perché era innamorato. Innamorato, pazzo, di Lee Donghae.

 Vide Heechul scappare, scivolargli dalle mani, senza che potesse fare niente. Restò immobile, con la mano a mezz’aria, dove prima c’era il viso del ragazzo.
Poi cercò di tornare in sé. Si accorse che lui se ne era andato davvero. E si stava facendo buio. E sapeva che Heechul non era del tutto lucido.
La paura si impadronì di lui. Non avrebbe permesso al fato di portargli via anche Lui. Mai.
Corse il più veloce possibile verso casa, prese le chiavi della macchina della madre e partì, per rincorrere quel pezzo di lui che per troppo tempo aveva lasciato andare.

Non stava facendo caso al contachilometri, non stava facendo caso a nulla. Si sforzava solo di mantenersi il più diritto possibile sulla strada, non riusciva a vedere niente. Fortuna che la strada era libera.
L’unica cosa a cui riusciva a pensare erano le mani di Donghae, i suoi occhi, così tormentati, così profondi… Il solo pensiero di lui così intenso e palpabile gli fece nascere un brivido, dal collo fino a tutta la schiena. Perché lo amava?
Ma la domanda che più lo tormentava era: perché non era stato capace di dirgli che lo amava?
Era cresciuto sotto le decisioni della madre. Dalla madre era passato alla S.M.
Niente relazioni omosessuali, possibilmente niente relazioni in generale.
Possibilmente niente amici.
Possibilmente niente famiglia.
Possibilmente diventate solo dei miseri burattini nelle nostre mani.
Interruppe quei pensieri.
In fondo chi lo stava obbligando a stare sotto quell’agenzia? L’aveva scelto lui. Ma poteva benissimo andarsene.
Ma aveva il coraggio di rinunciare a tutti i suoi sogni? Al successo, la fama, le fan, i soldi?
Ne aveva?
Con un nodo allo stomaco si rispose di Sì.

Ma perso tra i pensieri, tra le decisioni, tra le confessioni, non si accorse che un paio di fari dalla parte opposta lo stava raggiungendo velocemente, nella sua stessa corsia.

Tutto accadde velocemente, Heechul sentì solo tanti pugnali oltrepassarlo. Poi solo il nulla.

Stava correndo a una velocità impressionante, tutto era una macchia indistinta, ma non gli importava niente, doveva raggiungere Kim, sentiva nelle viscere che sarebbe successo qualcosa se non si fosse sbrigato. Poi, all’improvviso, un gran rumore. Talmente forte da farlo saltare dal sedile. Spinse il freno istintivamente, con troppa forza, finendo quasi contro il vetro, nonostante la cintura di sicurezza. Il botto fu talmente forte che nonostante fossero passati una manciata di secondi e Donghae fosse sceso dall’auto, l’eco era presente, terribilmente vicino e minaccioso. Il suo cuore aveva già capito tutto, lui sperava solo che si sbagliasse.
   Corse, corse senza fermarsi per un tempo che gli sembrò infinito, poi, dietro la curva, vide la macchina di Heechul a pochi metri di distanza. O almeno ciò che ne era rimasto. C’erano fiamme, e puzza di plastica e gomma bruciata. Nonostante fosse abbastanza lontano quell’odore gli fece girare la testa. Ma non si preoccupò per lui.
Heechul.
 Chiamò subito l’ambulanza. Poi si avvicinò a quell’ammasso di rottami. La macchina con cui si Kim era scontrato era a fuoco, non voleva immaginare che fine avessero fatto i passeggeri. 
Heechul invece era disteso, a terra. Immobile.
Si inginocchiò vicino al suo corpo, sollevandogli il capo con una mano e cercando il battito con l’altra. Lo trovò, ma era debole, troppo debole.
- Heechul, ti prego – sussurrò, più volte. – HEECHUL, HEECHUL, NON LASCIARMI – cominciò a piangere, in preda al panico. Se l’era promesso, non poteva lasciarlo andare così.
In lontananza le sirene dell’ambulanza. 
- Heechul resterai con me vero? – lo accarezzò dolcemente. Heechul con immensa fatica cercò di aprirsi in un sorriso. Non riusciva ad aprire gli occhi. Avrebbe voluto dire a quell’angelo che lo stava cullando che si, sarebbe rimasto per sempre con lui. Perché lo amava, ora lo sapeva. Avrebbe voluto gridarlo al mondo, ma le sue forze lo abbandonarono ancora, e il tocco dell’angelo sparì.
  Gli infermieri lo caricarono sull’ambulanza in fretta, e Donghae non staccò mai le proprie mani dalle sue.
Arrivati all’ospedale lo intubarono e misero in una stanza prima di poterlo operare. Donghae lo osservò, sfiorandogli le dita, poi il viso, il collo, le labbra. Voleva sentirlo, sotto la sua pelle.
Heechul riuscì a riacquistare conoscenza, ad aprire gli occhi quel poco che gli bastava per poter vedere Donghae. Sentiva le sue mani esplorarlo, e quel tocco lo faceva sentire meglio, era un elisir. Lasciava scie di corrente elettrica, scie di calore, scie di vita.
Ma quel tocco non cancellava del tutto tutti quei pugnali che sentiva trafitti in ogni parte del corpo. Avrebbe voluto dire a Donghae di portarlo via da lì, da tutto quel dolore. Avrebbe voluto chiedergli scusa.
Ma soprattutto avrebbe voluto dirgli quello che si era tenuto dentro per troppo tempo.
- D…don….. – sussurrò. Donghae si avvicinò alle sue labbra, felice di sentire la sua voce.  – Donghae -, un sorriso, - Io...-
sono quasi sicuro al cento per cento che ti amo, che faccio quel che faccio perché non ho mai potuto accettare questo lato di me ma soprattutto che qualcuno di importante come la donna che mi ha generato non riesca a guardarmi negli occhi perché non amo ciò che secondo lei sarebbe giusto. Scusa per tutto, ma sono Heechul lo sai bene che testa dura, no? 
Ma erano troppe le parole da dire e troppo poco il tempo. La sensazione di sonnolenza che continuava ad essere presente da quanto si era svegliata cominciava a farsi più prepotente, diventando insostenibile. Non ce la fece e lasciò che il corpo si abbandonasse a quel sonno seppur pauroso.

 Donghae assistette spaventato al rallentare improvviso dei battiti di Kim.
- No, Kim, no, ce la puoi fare, Kim resisti! -
Cercò disperatamente le sue mani mentre i suoi occhi erano fissi in quelli chiusi di Heechul.


I try and even though I try
I insist, I insist
Come back to me


- Kim, non mi lasciare – singhiozzò. – INFERMIERI! AIUTATEMI! – suonò con rabbia il campanello vicino al letto di Heechul

You can’t, you can’t, don’t leave like this
Please just one more time, one more time, hold me in your arms again

Glielo strapparono dalle mani.

Quella fu l’ultima volta che potè stringere le dita di Heechul fra le sue, o semplicemente guardarlo.



7 Anni Dopo.

Aveva lasciato i Super Junior dopo quella notte. In realtà ci aveva provato a ritornare alla S.M. ma ogni volta che si girava d’istinto per vedere dove fosse Heechul, per cercarlo con lo sguardo come aveva sempre fatto, e si trovava davanti solo un grande vuoto, non ce la faceva. Le gambe gli cedevano. Gli ritornavano alla mente i suoi ultimi momenti con lui. Si rese conto che non poteva più fare parte del gruppo in quello stato, avrebbe deluso tutti, compreso se stesso.
Ora lavorava part time, nel bar nei pressi di casa, era tornato a vivere con la madre.

Come tutti i 10 agosto, dopo il 2006, andò al fiume. Era il tramonto, come quel lontano 10 agosto di sette anni prima. Sorrise lisciando quel foglietto che quella notte, tornando a casa, trovò nella macchina della madre (mentre scendeva dalla macchina, quella notte, si accorse che qualcosa di bianco sporgeva sotto ai suoi piedi. Sulle prime pensò di lasciarlo lì, ma poi ci ripensò. Lo prese fra le mani.
Quella era la grafia del padre, la riconosceva, impossibile non farlo.


Mokpo                                                                                     6 Novembre 2005
Ricordati di dire a Donghae che sono fiero di lui e gli voglio bene così com’è. Digli che mi dispiace così tanto che non sono potuto venire, ma una visita dal medico importante me lo ha impedito.
Abbraccialo da parte mia, perché lui è il mio bambino e lo sarà sempre, che lo voglia o meno
”.

 Ormai era diventato così sottile da sembrare quasi trasparente, ma si leggevano ancora le parole del padre. Le avrebbe tenute sempre con se’.
Una folata di vento gli scompigliò i capelli. Alzò gli occhi verso il cielo.
Gli sembrò di vedere le stesse rondini di quel giorno.
Questa volta non pensò di voler essere libero come loro. Non aveva un bisogno di un paio d’ali per volare. Aveva bisogno solo di pensare a lui per poter sentirsi più leggero. Ricordare Heechul non lo faceva più stare male, il suo cuore sapeva benissimo che era stato ricambiato da quel ragazzo. Questo gli bastava. 
 Così lasciò che i ricordi di Kim lo inebriassero.


E anche quando c'è più dolore 
Non trovo un rimpianto 
Non riesco ad arrendermi 
A tutti i miei sbagli 
Sei tutti i miei sbagli.

  
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