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Autore: Marguerite Tyreen    08/04/2013    2 recensioni
"Non seppe spiegarsi come avvenne - dopotutto, gli istanti esatti erano sempre i primi a venire
dimenticati. Semplicemente avvertì Gilmour stretto a sé, come se, con estrema discrezione, avesse trovato nel suo spazio il proprio spazio fisico, allo stesso modo in cui l'aveva già fatto nel cuore. Attese che il respiro di entrambi si abituasse all'idea che tutto fosse naturale, prima di baciargli i capelli. Non riuscì a definire per quanto restarono così, in silenzio, senza bisogno di parlare: lo scorrere del tempo sembrava essersi fermato. Nessuno poteva raggiungerli, nel ticchettio della pioggia distante, nel frusciare ovattato della vita chiusa fuori, nella stanza deserta che odorava di polvere e di primavera vicina."

***
Rick e David: amore, arte e musica. La composizione di "The Great Gig in the Sky": la caducità, il tempo infinito, il tempo presente.
Un po' di introspezione e un tentativo di scrittura "prog".
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un piccolo delirio nato da una giornata speciale, molto più gioiosa di quello che vi è descritto. Un esperimento di scrittura "prog" e per immagini (per non dire terribilmente sflashata!). Un paio di riflessioni che ci tenevo a mettere in una storia. Non è niente di che, ma grazie di cuore a chi vorrà leggere ^^
Marg.

Credits: Salvador Dalì, La persistenza della memoria.



A E.
Per il nostro pomeriggio byroniano,
fonte di ottime ispirazioni e di immensa felicità ♥
 
White is the light that shines
through the dress that you wore.
(Pink Floyd, Green is the colour)
 
Come share my breath and my substance
and mingle our streams and our times.
In bring infinite moments
our reasons are lost in our eyes.
(ELP, The Sage)
 
Your fast river flowing your northern fire fed.
Come, Black Satin Dancer, come softly to bed.
(Jethro Tull, Black Satin Dancer)
 
Our Streams, our Times


 
Hyde Park (Londra), 1972. Primavera.
 
-Rick, vieni! Vieni qui!
Nel sole tiepido di maggio e nel riverbero verdastro che giocava ad inseguire le foglie, la sua voce
gli giungeva irreale, distorta, come in un sogno.
Dietro la variopinta vetrata che gli schermava lo sguardo, anche lui era luce, era colore puro. Il
caleidoscopio di sfumature si infrangeva sulla sua sagoma per poi cristallizzarsi nel fascio candido
della sua veste bianca, capace di assorbire l'iride frammentato dell'universo per restituirne poi
un'unica intangibile immagine.
Non era davvero sicuro che stesse sfiorando davvero l'erba dell'Hyde Park: forse fluttuava senza
carezzarla, come Musica o come Spirito, mentre gli tendeva le mani, continuando a sorridere.
-Coraggio, vieni!
Si ricordò di essersi tolto le scarpe, che ora giacevano a qualche metro dalla coperta sulla quale
era disteso. Cercò di recuperarle, ma gli sembrava di starsi muovendo sott'acqua dove ogni gesto
era rallentato e distorto, proveniente da un corpo che non gli apparteneva più nella sua totalità o
che, comunque, non gli rispondeva.
Un raggio gli ferì gli occhi, tanto da costringerlo a schermarseli con la mano: era stato soltanto un
attimo, ma sufficiente per non riuscire più a trovarlo.
-Dove sei? Dove sei, Syd?
Gli giunse soltanto l'eco di una voce che non era la propria, un'eco impossibile nella piana vastità
del parco. Una bolla contenente suoni sconosciuti, che aveva galleggiato dal mondo del Nulla fino
al mondo del Vero, per esplodere davanti a lui, in un fragore di sapone.
-Syd?
Dimenticò le scarpe, lasciando che i fili d'erba, assieme alle gocce di pioggia che vi erano rimaste
intrappolate, impattassero contro la pelle nuda. Non riusciva a farsi tornare alla mente l'ultima
volta in cui, scalzo, aveva calpestato un prato: doveva essere stato ancora un bambino e i
rimproveri di sua madre, probabilmente, avevano attraversato l'aria immobile di un pomeriggio
estivo di troppi anni prima. Era una strana percezione, a mezzo tra il contatto diretto con il reale e
la libera comunione con la Natura, che tanto di rado gli era concessa. Syd, invece, sembrava farne
completamente parte, in un legame che non prevedeva né controllo né abbandono, soltanto
un'ideale, divina e privilegiata appartenenza al Tutto.
Di nuovo quella risata lontana.
-Sono qui, Rick! Vieni. Vieni da me.
I piedi si mossero da soli, quando si ritrovò a correre verso di lui. Diversamente da come aveva
creduto, era rimasto fermo ad aspettarlo, fino a frenare la sua corsa nelle proprie braccia,
nell'istante in cui i loro corpi si erano scontrati in una stretta delicata. Rick affondò il viso
nell'incavo del suo collo, con l'intento di proteggersi da quella luce che, all'improvviso, si era fatta
insopportabilmente abbacinante.
-C'è il sole. Non è magnifico? Il sole e le nuvole bianche che fanno capriole in cielo. Guarda, Rick!
Quando alzò la testa, le nubi non furono che una visione fuggevole e momentanea, perchè il buio si
addensò di colpo, come un broccato funereo, un sudario nero steso sulla Terra come una condanna.
In distanza, punte di cipressi disegnavano semicerchi nella grafite dell'atmosfera.
-Non lo vedo il sole, Syd. Non lo vedo!
L'unico bagliore rimasto era la figura di Barrett che continuava a brillare di un chiarore proprio.
Cercò di abbracciarla più forte, tra la paura e i brividi, fin quando non ebbe l'impressione di star
abbracciando il vento.
Teneva gli occhi chiusi: non voleva aprirli, non voleva sapere. Ma, anche a palpebre abbassate,
riuscì a vedere che, al posto del chitarrista, era rimasta solo l'ombra pallida di un arcobaleno, che
andava via via riassorbendosi nell'oscurità.
 

 
-E' buio... è tutto buio, qui. Le nuvole non fanno più capriole in cielo. Ho paura, Syd. Ho tanta
paura, aiutami!
-Rick! - sentì una mano fresca posarsi sulla sua fronte – Dai, Rick, svegliati.
Faticò ad obbedire, lottando contro le ultime briglie del sogno, prima di emergervi del tutto.
-Dave?
-Va tutto bene, tranquillo.
Il respiro gli si infrangeva ancora, affannato, sulle labbra socchiuse: - Abbracciami.
Era stata una richiesta spontanea, incurante del fatto che si trovassero sdraiati in una delle radure
dell'Hyde Park. Il chitarrista gli rivolse uno sguardo confuso, nell'accertarsi che non ci fosse
nessuno nei dintorni in grado di vederli: una finezza che a Wright era mancata, perchè si era
rifugiato subito contro il suo petto, strofinandogli la gota contro la stoffa della maglietta. Per
calmarlo era bastato il suo profumo lieve, il calore che dal suo corpo si diffondeva lentamente fino
al proprio, le ciocche bionde che gli solleticavano il viso.
Le dita di Gilmour scorsero i suoi capelli con tenerezza, togliendo una piccola foglia che vi si era
avviluppata: - Brutto incubo, non è vero?
-Terribile. - si raggomitolò come un gatto, quasi avesse voluto fondersi con la serenità dell'altro,
fino a scomparire.
-Lo immagino: tremi ancora tutto.
David evitò di osservarlo troppo a lungo, lasciando scivolare lo sguardo verso la quiete tersa del
limitare del parco, sprofondata nel sussurro soffuso dell'incresparsi delle acque del lago artificiale.
Gli offrì la foglia, abbandonata sul proprio palmo aperto, affinché la soffiasse via, in un gioco
dolcemente infantile. Si distrassero entrambi a seguirne la traiettoria elicoidale, finchè non si smarrì
tra l'erba.
-Cosa c'era di tanto orribile? - Gilmour aveva modulato la voce in un accento empatico – Ti va di
raccontarmelo?
Il pianista scrollò la testa, allontanandosi di poco e tornando a sdraiarsi sul prato, le mani intrecciate
gravemente sul ventre, nel ritratto della spossatezza. Quel sonno l'aveva stremato: una piega
dolorosa gli serrava le labbra, tese sotto l'inquietudine onirica del ricordo: un velo che lo rendeva
quasi inacessibile. Lui, sempre così innocente, sempre così cristallino.
-Rick! - il chitarrista gli scostò una ciocca dagli occhi – Davvero non vuoi dirmi cosa non va?
-L'ho sognato, Dave. Ho sognato Syd, ma era come se il mondo e le tenebre lo stessero
inghiottendo. Ho avuto una sensazione di morte, di fine: un pessimo presagio.
Non riusciva a smettere di rabbrividire. Gilmour si stese accanto a lui, puntellato su un gomito per
riuscire a guardarlo, mentre teneva l'altra mano posata su quella di Wright.
-Lo sai, mi sento in colpa.
-E di cosa?
-Noi siamo qui, insieme, vivi, pronti ad accogliere questa primavera e lui chissà dove sarà. Oh,
Dave, io... io non riesco a immaginarmelo da solo, così fragile, così spaventato e smarrito nei
labirinti della sua follia. Io non... - anche la voce aveva preso a tremare, nonostante David l'avesse
circondato con le braccia, cullandolo appena, protettivo.
-Ma non è colpa tua, se tu e Rog non siete impazziti con lui: a nessuno può essere chiesto questo.
Tormentarti così non ti ridarà quel Syd che conoscevi un tempo. Mi capisci, non è vero?
Ebbe in risposta un lieve cenno del capo: - Sto facendo del male anche a te.
-No, non è vero. Io non sarò mai come lui: è giusto così.
-E se solo non avessi fatto tutto il possibile per tenerlo con noi? Lo rivoglio, Dave. Lo rivoglio
accanto a me, come quando abbiamo fondato i Floyd. Se c'è una giustizia a questo mondo, allora...
-Non c'è. Ne sono sempre più convinto.
Il tastierista si morse le labbra: - Allora non ho paura di morire.
Si accorse tardi di come le sue parole avessero fatto sussultare Gilmour, stretto a lui: ormai le aveva
pronunciate, chissà se poi le aveva pensate davvero.
-Non dirlo, Rick, non pensarci nemmeno.
-Prima o poi tutti dobbiamo farlo.
-Taci! - cominciò a coprirgli il viso di baci, così, alla cieca, senza nemmeno sapere dove stesse
posando le labbra, se sulla fronte, sugli occhi o sulle gote. Raggiunse la sua bocca e gliela chiuse
con la propria: tremavano entrambi, di paura e di desiderio – Taci, taci, taci. Smetti di distruggerti.
Ti proteggo io, Rick, ti proteggo io: non ti lascerò andare.
-Fammi dormire qui, Dave. - gli poggiò la testa sul petto, dove poteva sentire l'agitarsi d'onda del
suo cuore – Qui, vicino a te.
 

 
Dovevano essersi addormentati entrambi, nel tepore del tardo pomeriggio e nel fruscio degli alberi
che li riparavano dagli sguardi dei londinesi e che ne facevano giungere, in un riflesso distante, le
voci fino a loro. Un suono, il piccolo suono metallico di una corda tesa che veniva pizzicata,
costrinse Wright ad aprire un occhio: due bambini – avranno avuto sette o otto anni – osservavano
incuriositi la chitarra di David, distesa anch'essa sul prato, a poca distanza.
Rimase immobile a spiarli, per non metterli in soggezione: se ne stavano lì, inginocchiati a terra,
sedotti dal fascino di quello strumento verniciato in nero. Sorrise, prima di fingere teatralmente un
colpo di tosse che li fece sussultare entrambi.
Lei, una graziosa creaturina bruna con le trecce, strattonò per la manica quello che poteva essere il
fratellino o l'amico, indicando nella sua direzione con un poco di timore.
-Salve. - si ritrovò a dire, ripescando nei meandri del tempo quella serietà che hanno solo i ragazzini
e che credeva di avere perduto.
-Ciao! - la piccola sventolò la manina, rimettendosi in piedi e lisciandosi la gonna.
-La sai suonare, tu, la chitarra? - le chiese con gentilezza, fugando così ogni suo dubbio di un
eventuale rimprovero.
-No. E neanche Frankie.
-Ah, peccato, vi vedevo così interessati...
-A me piace la musica! - sentenziò con orgoglio.
-Oh, bene! E cosa ti piace, miss...
-Hellen! - sorrise, scoprendo i dentini aguzzi – Mi piacciono i Beatles.
-Wow. I Beatles: niente male.
-E a te?
-Uhm, dunque, fammi pensare... Mozart!
-Se è tua la chitarra, allora sei un musicista.
-No. Cioè, sì, lo sono, ma il mio strumento è il pianoforte. La chitarra è sua. - finse un momento di
riflessione – Ma, se non ho dimenticato tutto, penso di saperla ancora suonare anch'io.
Lo sguardo di Frankie parve illuminarsi: - Sì, sì, suonaci qualcosa!
Dovette frugare tra la polvere della memoria dei giorni dell'adolescenza per recuperare qualche
accordo e di quelli più recenti per il testo di Come together.
Hellen doveva essere una vera appassionata, perchè si era messa a cantarne subito le parole assieme
a lui, in un gradevole frastuono di voci infantili e di corde che scricchiolavano sotto il suo tocco
ormai impreciso, capace di riscuotere David dal sonno.
Gli servì qualche minuto buono prima di accorgersi che la sua amata chitarra se ne stava tra le
ginocchia di Wright e lo stesso Wright in mezzo a due bambini festosi, arrivati chissà da dove.
Sembravano divertirsi molto: Rick sbagliava le note, accelerando il ritmo, ma i due ascoltatori non
se ne accorgevano, mentre continuavano a battere le mani in una sorta di adorabile estasi musicale
dipinta sui volti di tutti e tre. Era da parecchio che non lo vedeva tanto felice.
-Dave, vieni anche tu!
Si schermì: - Oh, no. No, ti prego.
-Sei abituato a riempire gli stadi e poi ti vergogni ora? Dai, spicciati! Vieni qui!
Scrollò la testa. La verità era che voleva imprimersi nella mente quell'immagine di lui, sereno,
avvolto dall'ultima luce di maggio e da una brezza lieve che annunciava una pioggia non troppo
lontana ma che, al momento, si divertiva soltanto a scompigliargli i capelli in piccole ciocche
dorate, danzanti attorno al suo viso. Voleva conservare la sua risata, la sua allegria, illudersi che
fosse anche merito suo, quell'attimo di vita che esplodeva prepotentemente, come solo la vita stessa
sapeva fare. Stava scoprendo, all'improvviso, che tutto aveva preso senso, in quell'incastro esatto, in
quel momento di terrena poesia, mentre Rick continuava a ridere, di una risata che faceva bene al
cuore. Si chiese se, forse, non fosse troppo per un comune mortale: troppo in alto, troppo bello per
poter rimanere così a lungo al suo fianco, senza rimanere incastrato in qualche anfratto del cielo o
dell'immaginazione, perchè era là che dovevano abitare le creature lievi e soavi come lui. Ed era
bello veramente, da ammirarlo fino a imparare ogni tratto del suo viso, ogni espressione, ogni ruga,
ogni respiro. Bello da sentire il petto agitarsi come davanti al Sublime, mentre si perdeva nella
disarmante e serena perfezione che aveva davanti.
Una goccia di pioggia gli sfiorò la spalla, eppoi un'altra la mano ed altre ancora le braccia nude,
fino a diventare una cortina fitta e fresca, un canto sordo che si infrangeva sulla superficie del lago.
Due voci attraversarono la fila di cipressi.
-Frankie, piove!
-Hellen! Torniamo a casa!
Fecero per fuggire di corsa, quando lei si voltò per un breve sorriso luminoso: - Ciao, signore! Lo
sai che canti proprio bene?
-Un'altra ammiratrice? - David ripose la chitarra prima di mettersela in spalla, mentre Rick seguiva
l'invisibile scia lasciata dai bambini, ormai spariti dietro il velo d'acqua.
-Vorrei essere di nuovo come loro: libero, innocente, pieno di speranze. Sai, per un attimo ho
creduto che fosse possibile dominare di nuovo quella sensazione. È stato come fossi finalmente in
pace.
Il chitarrista raccolse la giacca dal prato e la tenne spiegata sulle loro teste come un ombrello,
riscuotendo Wright dai suoi pensieri con l'ombra che aveva proiettato su di loro.
-Rick, andiamo, ci stiamo inzuppando!
Il pianista gli si strinse un poco addosso: - Hai ragione, hai ragione, scusa. Mi sono fatto prendere
dalla malinconia, come al solito.
Gli posò un bacio tra i capelli, sperando che fosse sufficiente: ormai la pioggia cadeva con tanta
insistenza da rendere inutile qualsiasi tentativo di mettersi al riparo. Così, mentre tutta la gente
fuggiva, disperdendosi tra portici, negozi e caffetterie, provarono entrambi l'ineffabile sensazione di
camminare senza fretta in una Londra che apparteneva soltanto a loro, limpida e lucida sotto le
nubi, e sospesa nel tempo.
 

 
Quando arrivarono allo studio, letteralmente madidi, trovarono Mason intento a scaldare del caffè
sul fornelletto elettrico nell'angolo della stanza e Roger nella penombra, gli occhiali sul naso e
sommerso dai fogli, in una immagine che in quei giorni stava diventando sempre più consueta.
Qualcosa lo tormentava, come una sorta di fuoco - creativo e distruttivo al tempo stesso - o di
malinconia, ma di quelle malinconie pesanti come un arazzo, che lo opprimevano sempre più spesso
da quando Syd aveva lasciato i Floyd. Scriveva. Scriveva incessantemente, come se avesse avuto
paura che la vena si potesse esaurire di colpo: aveva un nuovo progetto per la testa e stava mettendo
sotto pressione anche lui e David con l'idea di un brano esclusivamente strumentale o, forse,
accompagnato solo da una linea di astratti vocalizzi per proiettare il tutto in una dimensione più
cosmica e spirituale del solito. Una sorta di grande riflessione filosofica in musica.
-Siete in ritardo. - sentenziò in tono distratto, cancellando con decisione un paio di righe. Nemmeno
si era accorto che erano fradici d'acqua.
-Rog, dear, non avevamo un appuntamento: ergo, non siamo in ritardo.
-Giusto, giusto. - continuava ad abitare nei luoghi lontani della sua mente – Ma si può almeno
sapere dove siete stati?
-All'Hyde.
-Con 'sto tempo? - se n'era accorto che diluviava, ma gli era servita un'occhiata attenta alla finestra.
-Rick aveva bisogno di ispirazione.
-Sicuro. E tu di una polmonite.
Un breve cozzare di tazze: - Ho appena fatto il caffè, se volete... - una premura, quella di Mason,
che suonò irrilevante davanti al gesto affettuoso di Waters, che rimpiazzò sulle spalle del pianista la
giacca fradicia di Gilmour con il proprio golf. Istintivamente avevano sorriso un po' tutti davanti a
quel misto di cura materna e di utilitarismo. Difatti, assieme al caffè e al maglione era arrivata
puntuale, sotto il naso di Wright, la scaletta dei brani stilata nella grafia nitida del bassista.
-Qui ci piazziamo quel pezzo che ha scartato il regista italiano: poi al testo ci penserò io. Qui invece
Money eppoi qualcosa sul tempo. Ci verrà qualche idea. E qui, qui mi serve uno strumentale, Rick:
io pensavo che potremmo perfezionare quella bella melodia che hai creato un po' di tempo fa.
Com'è che la chiamavi?
-The mortality sequence?
-Ecco sì, bravo.
-Perfezionarla, Rog... non so, non credo di avere delle idee così eccezionali. Non sono neanche del
tutto convinto che quella cosa sia indicata. - con la penna aveva preso a disegnare linee che
intersecavano gli spazi vuoti tra le parole.
-Sempre troppo modesto, questo ragazzo. - Waters gli lanciò un'occhiata eloquente, ma senza
allegria – Eppure qualcosa mi dice che questa giornata di pioggia l'ispirazione te l'abbia data,
invece. Signori, io torno a casa, ci vediamo domattina. Mi dai un passaggio, Nick?
Il bassista fece tintinnare le chiavi dell'auto.
-Dave?
-Nah, andate. Resto anch'io. Stai tranquillo, Rog.
-Chiudetevi dentro, in ogni caso.
La porta si accostò con un lieve tonfo, seguito da un sospiro di Rick: - Dice bene, lui. Ma l'unica
idea che mi passa per la mente è...
-Cosa? - Dave gli sedette accanto, lasciando che Wright gli posasse la mano sulla spalla, con aria
cupa.
-Niente, lascia stare.
Non seppe spiegarsi come avvenne - dopotutto, gli istanti esatti erano sempre i primi a venire
dimenticati. Semplicemente ritrovò Gilmour stretto a sé, come se il chitarrista, con estrema
discrezione, avesse trovato nel suo spazio il proprio spazio fisico, allo stesso modo in cui l'aveva già
trovato nel cuore. La gota di David sul suo petto, il proprio mento contro il suo capo e le loro mani
unite: il pianista cercò di vincere l'impaccio improvviso accarezzandogli ritmicamente il braccio,
per non sapere bene che fare. Lì, anche se al riparo dal resto del mondo, non erano al limitare dei
sogni, in cui Rick poteva cercare conforto dalle paure accanto a lui, senza pensare che forse chi lo
stringeva era persino più spaventato.
Attese che il respiro di entrambi si abituasse all'idea che tutto fosse naturale, prima di baciargli i
capelli. Non riuscì a definire per quanto restarono così, in silenzio, senza bisogno di parlare: lo
scorrere del tempo sembrava essersi fermato. Poteva essere passato un minuto o un'ora; ad ogni
modo, sempre troppo poco. Nessuno poteva raggiungerli, nel ticchettio della pioggia distante, nel
frusciare ovattato della vita chiusa fuori, nella stanza deserta che odorava di polvere e di primavera
vicina.
Poi la realtà li richiamò a sé, quando David si alzò per recuperare la chitarra e collegarla
all'amplificatore. L'elettricità del giro armonico che usava di solito per esercitarsi riscosse Rick quel
tanto che bastava per accorgersi del tepore lasciato dal corpo di Gilmour sul proprio, nell'esatto
istante in cui aveva cominciato a svanire. Sentì freddo, nel domandarsi se fosse quella la percezione
che si doveva provare: un gelo improvviso capace di strappare l'anima dal suo incastro perfetto,
come una lama che squarciava le fibre purpuree e allineate di un sipario.
-Forza, mettiti al piano. - lo aveva richiamato la voce gentile di David. Nessun'altra parola era
seguita, ma sapeva che quello era il migliore degli incoraggiamenti.
Le dita esitarono sui tasti, mentre la mente cercava di focalizzarsi su immagini sempre più confuse
di prismi trasparenti che ruotavano cozzando nello spazio e proiettando la luce di un sole malato in
iridi assorbite da un velluto nero.
La vecchia melodia riempì l'aria assieme a qualche pesante, indecisa dissonanza.
-A che pensi?
-Che ho paura, Dave.
-Di cosa?
-Di impazzire. Come Syd.
Lo abbracciò alle spalle: - Non succederà.
-Come puoi esserne sicuro.
-Perchè ci sono io con te. Sai, - la voce gli tremò appena – il vantaggio dell'imperfezione è che
posso proteggerti. Non sfioro nemmeno le tue paure: sono troppo in alto anche loro.
-Non scherzare. Io non sono così straordinario.
-Suona, Rick. - gli sussurrò senza allontanarsi – Suona per me.
-Ti prego, resta.
Le mani si mossero rapide, recuperando le sonorità morbide, soavi, che presto li avvolsero
entrambi. Rick era finalmente sicuro o forse non si rendeva nemmeno conto di essere accompagnato
dalle Muse, mentre continuava a suonare ad occhi chiusi, le dita che sembravano aver trovato da
sole la loro strada, nella lunga e dolcissima sequenza di note.
-Pensa, Dave, se si potesse avere l'eternità, dopo.
Gilmour lo baciò con forza sulla tempia, trattenendovi a lungo le labbra: -No, no, non pensarci.
-... Se si potesse avere la felicità senza questo timore, l'amore senza la fine e un grande,
interminabile concerto nel cielo.
-Perchè non possiamo averle qui, tutte queste cose? Rick, hai sempre me. Mi uccide sapere che non
riesco a bastarti.
-E' giusto. Scusami, Dave.
-Non togliere importanza a tutto questo: è la mia luce, la mia ispirazione. Tu lo sei: che farei senza
di te?
Il pianista non riuscì a replicare nulla, limitandosi a stringere le mani di Gilmour, che gli
carezzavano le spalle.
L'immanenza, ecco cosa contava: forse aveva ragione lui ad essere spaventato dall'eternità, da uno
scorrere fluido di un unico e infinito momento che non lasciava possibilità di individuare nel buio
uniforme qualche punto luminoso. Contava il bisogno di attribuire senso ad ogni attimo, per non
sprecarlo alla ricerca di qualcosa di talmente inafferrabile da risultare banale.
Forse era proprio la consapevolezza di quella finitezza che gli rendeva così cari i baci che adesso
David gli stava prodigando sulle gote, dopo avergli scostato i capelli dal viso, e che gli rendeva
necessaria la sua vicinanza fisica.
-Ti voglio bene, Rick. Lo so che non basta, che non è quello che cerchi ma è tutto quello che posso
darti. Non ti darà tutte le risposte, ma magari... – si interruppe, con la voce incrinata – Ma magari un
po' di calore, no?
-Dave, non starai piangendo? - cercò di spostarsi sullo sgabello prima di scorgere il chitarrista con
gli occhi arrossati.
-E' che non so mai dove sei davvero.
-Sono qui, con te, Dave. Guardami, ti prego. - si alzò, per imprigionarlo tra il pianoforte e il proprio
corpo – Io non sono così distante come pensi. Non voglio esserlo. Che mi importa dell'infinito, se
poi non posso avere questo?
Gli prese le gote nei palmi e lo baciò con la sua consueta delicatezza, in un rapido intreccio di
aroma di sigarette, pioggia, poesia e innocenza. A volte non sembravano nemmeno baci, quelli, ma
un lieve scambio di sogni a fior di labbra.
-E' che mi sembra sempre troppo domandartelo. Tu appartieni ai tuoi tasti. - si voltò nel suo
abbraccio e li sfiorò appena, silenziosamente – Del resto c'è la tua vita, qui dentro, in qualche
mistero che io non riesco ad afferrare.
-Chiudi gli occhi, Dave. - gli afferrò dolcemente i polsi per portargli le mani sulla tastiera.
La schiena del chitarrista premuta contro il petto, le dita sotto le proprie, lo guidò a formare gli
accordi e a produrre qualcuno di quei suoni incantevoli che Gilmour aveva udito poco prima.
-Rick, è meraviglioso...
-Continua a tenerli chiusi, lasciati condurre da me.
Ma ormai non stavano più suonando: i palmi di Rick accarezzavano il dorso delle sue mani,
provocandogli fitte scie di brividi piacevoli lungo le braccia.
-Restiamo così per sempre, Dave. - le labbra dell'organista erano scivolate sulla sua gota,
sfiorandola ad ogni movimento e ad ogni parola.
-No. - scrollò appena la testa – Ti amo. Ti voglio, Rick. - abbandonò il capo contro l'incavo del collo
di Wright per soffiargli: - Ho bisogno di te e non nel modo platonico che ci lega. Non sempre, non
solo: non riesco a farmelo bastare come fai tu. I need you. I need to feel you, Rick.
Quando David si voltò nuovamente, Richard si accorse che quei suoi occhi così blu erano colmi di
un'apprensione che non gli aveva mai visto, di un'attesa che gli faceva tremare la bocca socchiusa.
Gilmour lo accarezzò a lungo, con urgenza non di possedere ma di accertarsi della sua presenza.
-Ti devo sentire, devo sapere che sei qui. Che non sei un sogno, non sei un'illusione. Stringimi,
baciami, fammi quello che vuoi, Rick, ma giurami che ci sei. Giurami che abbiamo questo
momento, che conta anche per te, che...
Le parole vennero interrotte dal tastierista, quando cominciò ad esplorare con baci lievi il lobo del
suo orecchio, scendendo fino al collo; lì, a labbra aperte, scivolò sulla sua gola, costringendo David
a reclinare la testa e ad accelerare il respiro in maniera incontrollata. Ad abbassare le palpebre,
inumidendosi ripetutamente il labbro inferiore e premendo il volto dell'altro contro la propria pelle.
-Dio mio, Rick...
Il chitarrista gli affondò le dita tra i capelli, lasciandosi sfuggire un gemito.
-Va meglio, così?
-Sì, sì. Tienimi stretto.
David cercò di metterci quanta più delicatezza possibile, mentre lo spingeva contro la parete dello
studio, trovando la sua bocca e cominciando a imprimervi sopra la propria, in un crescendo di baci
sempre più appassionati a cui Rick rispondeva esattamente come non si sarebbe aspettato. Il
tastierista aveva preso ad assaporarlo lentamente, ad assecondare i suoi movimenti ed, anzi, con i
palmi sulle sue guance, ad approfondire il loro contatto. Reso sicuro dalla passione che riusciva a
percepire attraverso i suoi gesti, gli slacciò la camicia senza guardarlo, temendo che, se avesse
incontrato i suoi occhi, la gentile soggezione esercitata da Wright sarebbe tornata a farsi presente.
Posò le labbra tra il collo e la clavicola, dove poteva avvertire i sospiri e il cuore pulsare
incontrollato.
-Siamo vivi, Rick. - gli sussurrò, la voce roca ma rassicurante – Lo senti anche tu, non è vero?
L'altro annuì in silenzio, mentre Gilmour proseguiva la strada di carezze lungo il suo ventre. I baci
si erano fatti umidi e urgenti e la sua bocca era tiepida e piena, così meravigliosamente piacevole da
sentire sulla pelle, sui muscoli tesi nel respiro trattenuto, nel desiderio che si faceva spazio con
insistenza. Si liberò della giacca e della camicia, lasciandole cadere ai loro piedi, per agevolarlo nei
movimenti. Sentì Dave scivolare lungo il suo corpo fino ad inginoccharsi sul pavimento, le mani sui
suoi fianchi, possessive, e il viso ancora premuto contro il suo addome. Gli passò le dita tra le
ciocche bionde, ve le trattenne con tenerezza.
-Dave, Dave... - lo implorò, smarrendosi nella voluttà di quel momento. Vedendo l'espressione
interrogativa del chitarrista che lo guardava, adesso, con una luce di esitazione negli occhi, si
affrettò ad aggiungere – Non credevi che mi potessi fare quest'effetto, vero?
Gilmour scrollò la testa: - Sei sempre così irraggiungibile, così poetico... - armeggiò con la cintura
dei suoi jeans, slacciandogliela, ma il tastierista si affrettò ad abbassarsi fino a ritrovarsi anch'egli
alla stessa altezza, abbracciato a lui, le dita di nuovo intrecciate e le labbra di nuovo fuse.
-Piano... piano. - gli sussurrò – Abbiamo tutto il tempo. Abbiamo tutta la notte. Sei così bello, Dave,
così bello! Lasciati guardare.
Il chitarrista si impossessò di nuovo della sua bocca, con un impeto che li fece scivolare entrambi
sulla moquette dello studio, Rick sotto di lui, che sorrideva e lo osservava con calma contemplativa.
Potè riprendere le carezze dove le aveva interrotte, sul petto del tastierista, che ora si affannava
sotto il suo tocco.
-Non andar via, Rick.
Aveva l'impressione che ogni volontà, che non fosse quella di essere sfiorato dalle sue dita, lo stesse
abbandonando: - E dove vuoi che vada?
-Non so, ma non lasciarmi.
-Sono qui con te.
-Posso amarti, Richard? - gli chiese in un soffio che lo fece tremare.
Sentì lo stomaco stringersi nel nodo della paura di guastare tutta la perfezione di quel momento. Ma
lo voleva, Dio se lo voleva! E sembrava così assurdo negarlo in nome di qualche astrusa filosofia,
finendo per perdere ancora una volta la possibilità di essere felici, anche solo per un istante.
Annuì: - Sono tuo. Ti appartengo, Dave.
Poche parole sussurrate erano state sufficienti per ritrovarsi uniti. Lasciarsi amare da David era
come farsi avvolgere dalla corrente di un fiume: tentava di controllarsi, di incagliarsi nel suo corpo
per dargli piacere, di considerare ogni gesto, ogni bacio, ogni soffio perchè non gli giungesse
l'impressione che fosse soltanto passione priva di ogni sentimento quella che dava e prendeva. Poi
per un suo sospiro, per un nome invocato in un gemito, la corrente ricominciava a turbinare sempre
più incessante e travolgente e allora gli atti perdevano di perfezione e di definizione.
Le unghie del chitarrista gli graffiarono le spalle: - Scusami. - balbettò, nascondendo il viso contro
il suo collo.
-Va tutto bene, Dave: lo vogliamo entrambi.
Rick maledisse in un minuto tutto il contegno, la grazia e la raffinatezza di una vita, che ora stavano
impedendo a entrambi di perdere il controllo, prima di decidere di muoversi sotto di lui con una
punta di malizia e di impazienza finchè il desiderio non prese il sopravvento sui timori, scacciandoli
dalla mente e dal cuore. Finchè i fuochi del corpo e dello spirito furono saziati, come quando il
vento del Nord riempiva ogni angolo, ogni atomo di un paesaggio estivo, privandolo a poco a poco
di quel calore bruciante e irrespirabile. Finchè le loro voci non si chiamarono ed inseguirono in una
trama voluttuosa e accesa, eppure così simile a quella di Echoes. Ma fu solo un attimo, perchè poi
tutto divenne improvvisamente confuso, straniante: un biancore vorticoso in cui sprofondare senza
esitazione.
Dopo che fu scivolato al suo fianco, David lo abbracciò, coprendogli di baci la fronte accaldata: -
Perdonami, Rick. Mi... mi dispiace.
-Ti prego, smetti di scusarti, Dave. - gli tracciò qualche arabesco astratto con i polpastrelli sul
braccio, per rassicurarlo.
-Sono sempre io che ti trascino in questa ferialità, che ti riporto sulla terra, quando forse tu...
Wright gli chiuse le labbra con le proprie: - Non sai quanto bene mi fai, Dave, ogni volta che mi
stringi. Ogni volta che mi ricordi che è questa la dimensione in cui devono scorrere i nostri flussi. -
si accoccolò sul suo petto, respirando a fondo il suo profumo – Che è questo il nostro tempo, il
nostro infinito.
   
 
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