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Autore: Mrs Teller    11/04/2013    9 recensioni
Ed è in questo momento che lo vede, che vede la creatura.
Una lama di luce, più affilata dei raggi del sole afghano, lo colpisce dritto negli occhi e si addensa progressivamente, formando una sorta di aura all’interno della quale si materializza una figura maschile.
Volto affilato ed armonico, incorniciato da una folta massa di ricci neri e dominato da due zigomi sporgenti, con al centro delle labbra che devono essere state disegnate direttamente dalla mano di Dio.

Due volte in cui John viene salvato da una strana creatura.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Maywand, Afghanistan.
 
Il colpo di mortaio lo coglie all’improvviso, nel bel mezzo di un’azione di copertura per recuperare un gruppo di commilitoni accerchiati dai talebani.
John è nel pieno della linea di fuoco, coi proiettili delle mitragliatrici amiche e dei kalashnikov nemici che gli passano accanto e gli sfiorano le orecchie, alimentando senza sosta l’adrenalina all’interno delle sue vene.
Sembra non esserci più il sangue all’interno dei suoi vasi sanguigni, ma solo energia e forza brutale.
Quella stessa forza che gli sta consentendo di reggere ancora in mano il suo fucile, a dispetto del leggero dolore diffuso all’altezza della spalla sinistra, poco più che un fastidioso pizzico in quel caos supremo che è la guerra, la battaglia per la vita.
Un’inezia, una cosa da niente, che non inficia la sua capacità di piantare con precisione chirurgica tre proiettili in altrettanti crani talebani, ad una medio-lunga distanza.
 
Non sente, John, la sensazione di umido che gli si sta diffondendo sotto la maglietta e la giacca della divisa; non sente il braccio iniziare a formicolare piano, il cuore pompare ancora più velocemente di quanto già non faccia.
Non sente niente, tranne il suo istinto di soldato e i rumori dello scontro, in progressivo smorzamento.
Forse ce l’hanno fatta, anche questa volta.
Dopo un tempo che non sa calcolare, i proiettili e le esplosioni, più o meno lontane, cessano del tutto e John realizza che i talebani si sono dati alla fuga, portandosi via i loro AK47 [1] e le loro granate di infima qualità.
E’ finita.
Anche questa scaramuccia si è spenta, come una sigaretta lasciata a marcire in un posacenere.
John spera solo che si sia spenta senza troppi danni, ossia senza troppo dispendio di vite umane.
 
Appena prova a fare un passo, però, qualcosa dentro di lui cede, affonda, e le gambe crollano, facendolo finire a terra in ginocchio tra le urla dei suoi commilitoni che chiamano il suo nome.
Non sa cosa sia successo, continua ancora a non sentire nulla, come se l’infuriare della lotta avesse anestetizzato tutto il resto, compreso il suo senso del dolore.
A fatica, riconosce una sostanza liquida scorrergli lungo il petto – un posto dove, sicuramente, non dovrebbe stare- e abbassa istintivamente lo sguardo: solo in quel momento si avvede dell’ampia macchia di sangue che gli imbratta la divisa al centro del petto, sotto la clavicola sinistra, e il dolore arriva tutto insieme all’improvviso.
Gli basta muovere piano l’articolazione per sentire il bruciore di un proiettile – anzi no, una scheggia, a voler essere precisi- che gli sta trafiggendo la carne.
 
C’è troppo sangue, troppo rosso e i suoi commilitoni sono troppo preoccupati, mentre gli si affollano intorno urlando per far arrivare una barella il più presto possibile.
Non va bene. Non va affatto bene.
Non serve molto, a un chirurgo esperto come lui, per capire che quella fottuta scheggia ha fatto molti più danni di quanti credesse.
Arteria succlavia, se è fortunato.
Se gli dice male, cuore o polmoni.
A giudicare dalla fatica con cui inizia a respirare, è altamente probabile che gli sia andata male e la scheggia abbia perforato un polmone, alimentando in modo pressoché determinante l’emorragia interna partita dalla succlavia.
 
Quando la barella arriva, il suo respiro è ormai ridotto a un rantolo basso ed affannato e John inizia ad avvertire un fastidioso ronzio nelle orecchie, le voci dei suoi commilitoni che si fanno sempre più lontane ed indistinte, soffuse quasi.
Quindi questa è la fine..
Non che non se l’aspettasse: quando vai in guerra, per quanto tu sia un chirurgo da campo, devi mettere necessariamente in conto la possibilità di tornare all’interno di una bara, con l’unico conforto della Union Jack avvolta intorno al tuo simulacro.
Solo, non si aspettava che arrivasse così: per caso, durante uno dei tanti raid senza infamia e senza lode con cui i talebani stanno dissanguando le loro riserve di personale e mezzi.
Un modo davvero triste di morire.
John si aspettava dalla vita qualcosa di molto meglio, o comunque sperava di lasciare questo mondo compiendo un gesto più significativo, che lo facesse distinguere dalla massa quanto meno nel momento della morte.
A quanto pare, il destino non era del suo stesso avviso.
Sa che sta per perdere i sensi, sa che questi potrebbero essere i suoi ultimi istanti di coscienza prima di addormentarsi, per non svegliarsi mai più, ed è la sensazione più orribile che abbia mai sperimentato.
 
Ed è in questo momento che lo vede, che vede la creatura.
Una lama di luce, più affilata dei raggi del sole afghano, lo colpisce dritto negli occhi e si addensa progressivamente, formando una sorta di aura all’interno della quale si materializza una figura maschile.
Volto affilato ed armonico, incorniciato da una folta massa di ricci neri e dominato da due zigomi sporgenti, con al centro delle labbra che devono essere state disegnate direttamente dalla mano di Dio.
La cosa che più lo ammalia, però, sono gli occhi: mai uguali, di un colore così intenso e cangiante che John non saprebbe neanche darvi una definizione precisa, probabilmente perché non ci può essere definizione per qualcosa che proviene da un’altra dimensione.
Una figura bellissima, eterea e con due enormi ali bianche ricoperte di piume.
 
Un angelo.
John non ha altre parole per definire quella creatura celestiale, avvolta dalla luce, che lo sta fissando con un sorriso vagamente malinconico.
“Chi sei tu?”
Vorrebbe allungare una mano per sfiorare quell’essere, ma le forze sembrano averlo del tutto abbandonato e le dita neanche accennano a muoversi, figurarsi tutto il braccio.
La creatura si sporge verso di lui e scuote in capo, posando con dolcezza estrema una mano sulla sua guancia, accarezzandola.
“Rilassati John, va tutto bene. Ci sono io qui, va tutto bene.”
“Io non.. Vattene, o gli altri ti vedranno. Non puoi stare qui, non..”
 
L’indice della creatura si sposta sulle labbra, secche e aride, del soldato per imporgli di tacere.
“Loro non mi vedono, John. Solo tu puoi. Io non corro alcun pericolo. Ora devi fidarti di me e lasciarti andare..”
“No.. Non posso, io..”
“Ti fidi di me?”
La voce di quell’essere, così bassa e vibrante, gli rimesta qualcosa dentro e John si trova ad annuire automaticamente, come sotto l’effetto di un incantesimo.
Sì, si fida di quell’angelo dai capelli ricci con tutto sé stesso, nonostante le voci spezzate dei suoi commilitoni, che gli arrivano ovattate al centro del cervello, dicano cose come sta delirando, lo stiamo perdendo, l’emorragia sta diventando incontrollabile.
“Bene. Allora lasciati andare..”
Alla fine, John lo fa: abbassa le palpebre e lascia che il buio lo avvolga.
 
Quando riapre gli occhi, John è in una stanza vuota, completamente dominata dal bianco: pareti bianche, pavimento bianco, luce bianca.
L’unica macchia di colore è rappresentata da lui stesso, stranamente in piedi, sulle sue gambe, e dalla creatura, che gli sta davanti in tutta la sua maestosa bellezza.
Ora che può osservarlo meglio, John realizza quanto siano ampie le sue ali e l’insano desiderio di sfiorarle, per saggiare la consistenza delle piume, lo coglie all’improvviso facendolo sentire uno stupido.
Gli sta ancora sorridendo, con quel suo sorriso sghembo costituito essenzialmente da un lato delle labbra carnose sollevato verso l’alto.
John dubita che possa essere definito un sorriso a tutti gli effetti, ma resta ugualmente la cosa più bella che abbia mai visto.
Il vestito della creatura, nero dal taglio sartoriale, abbinato ad una stravagante camicia viola, è l’unica cosa che impedisce a John di mettersi a urlare e stropicciarsi gli occhi, per colpa del biancore estremo che invade quella stanza.
 
“Dove sono?”
Il tono della sua voce è basso e timido, quando riesce a trovare la forza di spezzare il silenzio ed iniziare a porgere qualcuna delle domande che gli affollano la mente.
Ha quasi paura di mandare in frantumi qualcosa di profondamente sacro, ponendo fine all’atmosfera silenziosa e sospesa, ma non può proprio fare altrimenti.
Deve sapere quanto meno se è ancora vivo, oppure se è già morto e quello è il meraviglioso Caronte [2] che lo condurrà ovunque sia destinato ad andare.
 
La creatura reagisce in modo del tutto inatteso: alza gli occhi al cielo e lascia andare un sospiro tanto delizioso quanto infastidito, arricciando le labbra in un’espressione di vaga noia.
“Guardati intorno: dove pensi di essere?”
John lo asseconda ma l’ambiente in cui si trovano non lo aiuta, visto che è fatto solo di bianco.
“Non ne ho idea.. Se l’avessi saputo, non te l’avrei chiesto.”
Quella specie di particolare sorriso torna a tendere un angolo delle labbra della creatura, apparentemente compiaciuta per la risposta battagliera.
Qualcosa, nei suoi occhi ora verdissimi e luminosi, suggerisce a John che non se l’aspettava, che l’ha colpito in un certo qual modo, e la cosa gli provoca un lungo brivido di piacere lungo la schiena.
“Andiamo John, so che sei un uomo intelligente.” Piccola pausa “Beh, mediamente intelligente.. Guarda me, guarda l’ambiente e pensa. Non è difficile.”
Un angelo scontroso e saccente.
Cristo, John Watson è sfortunato anche nell’aldilà.
 
“Sono morto e sono in Paradiso?”
La creatura scuote in capo, facendo danzare i riccioli neri con una grazia che ha il potere di annodare gli organi interni di John e spegnergli quel poco di attività cognitiva ancora rimasta nel suo cervello.
Sarà anche scontroso e saccente, ma è l’essere più bello che abbia mai visto e John ha la sensazione che innumerevoli farfalle gli stiano danzando nello stomaco.
“Io non parlerei propriamente di Paradiso, no. Parlerei più che altro di limbo.”
“Limbo? Mi hai portato in un limbo?”
“Sì, John, è esattamente così. Al momento, ti trovi in una zona grigia a metà tra la vita e la morte. A quanto mi risulta, voi umani la chiamate limbo.”
“Perché mi hai portato qui?”
 
La creatura alza di nuovo gli occhi al cielo, apparentemente infastidita da quella banale sequela di domande.
Anche così, accigliato e con le sopracciglia aggrottate, John ne è completamente soggiogato.
“Ti ho portato qui perché devo rimandarti indietro, ed è l’unico posto in cui posso farlo. Non è ancora giunta la tua ora, ma per rispettare i tempi dovevo portare la tua essenza -o anima, se preferisci- in questa zona neutra. Non posso operare sulla Terra, posso solo apparire a chi è destinato a vedermi. Spero di aver soddisfatto ogni tua curiosità, così la smetterai di annoiarmi con le tue stupide domande e mi farai fare ciò che devo..”
Stavolta è il turno di John di alzare gli occhi al cielo e sbuffare appena, eppure non riesce a trovare irritante quel modo di fare.
“Cosa devi fare?”
“Semplicemente, questo..”
 
La creatura si avvicina al soldato e allunga la mano destra sul suo petto, al centro esatto della macchia di sangue che imbratta la maglietta verde militare della sua divisa.
Dopo qualche istante di assoluto silenzio, una leggerissima luce scaturisce dalle dita, affusolate ed eleganti, dell’angelo, e John avverte una sensazione di calore invadergli il petto, mista a puro benessere.
Vorrebbe abbassare lo sguardo e fissare quella mano meravigliosa, che gli staziona esattamente sul cuore, ma lo sguardo della creatura è troppo profondo ed ipnotico per poter essere abbandonato, anzi per poter anche solo pensare di abbandonarlo.
C’è qualcosa, nelle iridi ora azzurre dell’angelo, che scava un solco nella mente di John, perché non sono piatte e neutre, ma sono animate da un sentimento che il soldato non riesce a qualificare compiutamente.
Preoccupazione?
Dolcezza, forse?
Tenerezza?
Affetto?
 
Tutto ciò che sa è che la potenza di quello sguardo, più puro e cristallino del ghiaccio, lo sta spezzando dentro e John darebbe qualsiasi cosa pur di sapere cosa passi per la mente dell’angelo, mentre allontana la mano dal suo petto e si ferma a fissare la sua opera.
“Una scheggia era arrivata dove non doveva arrivare. Ora è sistemato, starai bene.”
Anche la voce dell’angelo è carezzevole come il tocco delle sue dita, e John non trattiene l’ennesimo brivido lungo la spina dorsale.
C’è qualcosa di inusuale in quella creatura, qualcosa di diverso, di troppo umano per essere ciò che è.
Qualcosa di meravigliosamente stonato.
Dio, John darebbe volentieri via la sua vita se questo significasse passare il resto del suo tempo lì, in quel limbo assurdo con quella creatura ancora più assurda e divina.
“Cosa sei, tu?”
Il soldato ha capito che all’angelo non piacciono le domande ovvie e banali, ma ha bisogno di avere la conferma definitiva.
“Tu cosa credi che io sia?”
“Un angelo custode..”
La creatura sorride mentre annuisce, ma stavolta non è il suo solito sorriso con mezzo angolo delle labbra sollevato, no, stavolta è un sorriso vero, con le labbra piene aperte in una curva sincera.
“Sì, è così. Io sono il tuo angelo custode, John Watson.”
 
“Perché non ti ho mai visto prima?”
La mano destra della creatura si allunga di nuovo, ma stavolta si posa sulla guancia del soldato, per sfiorarla con una carezza più delicata del tocco di una delle sue piume, più tenera del gesto di un amante verso la persona amata.
Una carezza dolce, come di chi sfiora la cosa più preziosa che ha al mondo.
“Perché non ti sei mai trovato così in la da aver bisogno di vedermi. Ma io ci sono sempre stato, ti ho sempre osservato da lontano.”
John manca un respiro, quando le dita dell’angelo gli sfiorano la guancia in quel modo, e cerca di alimentare il contatto strofinando appena il viso.
“Non voglio tornare indietro.”
“Non hai scelta, John. Il tuo posto non è qui e il tempo si sta esaurendo. Devo riportarti indietro, non posso fare altrimenti.”
“Ma io non voglio perderti.”
Sa di essere patetico come un liceale alla prima cotta, ma non può farci nulla: la sola idea di non rivedere mai più quell’essere sublime lo distrugge, lo annienta.
 
La creatura scuote il capo, lasciando indugiare la mano esattamente dove si trova, senza alcuna intenzione di allontanarla.
“Tu non puoi perdermi, John: io esisto per te. La mia vita è funzionale a te, ogni battito di quello che voi chiamate cuore è tuo, ogni piuma sulle mie ali porta inciso il tuo nome. Il mio destino è quello di proteggerti e tenerti sempre al sicuro.”
“Non puoi venire con me?”
Un lampo di dolore attraversa gli occhi della creatura, mentre scuote il capo mordendosi appena il labbro inferiore.
“No, non posso. Le mie leggi me lo proibiscono. Ma io ci sarò sempre, quando sarai in difficoltà, quando avrai bisogno di essere salvato, io sarò lì, perché è ciò che sono, è il mio compito. Anche se non mi vedrai, come hai fatto fino ad ora, io sarò li per te.”
“Suppongo di dovermi accontentare..”
Uno scossone sotto i loro piedi fa tremare il soldato, che si aggrappa istintivamente al braccio sinistro che la creatura gli ha teso.
“Suppongo anche che tu debba portarmi indietro.”
L’angelo annuisce, costernato.
“Supponi bene. Se non lo faccio, la tua anima resterà intrappolata in questo limbo per sempre e non è così che deve andare.”
“Dimmi solo un’ultima cosa.. Come ti chiami?”
Un altro accenno di sorriso, malinconico e triste, incurva le labbra della creatura.
“Non te lo ricorderesti comunque. Non ricorderai nulla di tutto ciò.”
“Perché no?”
Il tono di John è quasi disperato.
L’angelo stringe ulteriormente la presa sul braccio del soldato, mentre il pavimento vibra una seconda volta, con maggiore intensità.
“Perché questa è la regola. Non potete avere alcuna conoscenza di noi, a meno che non sia strettamente necessario. Tu ce l’hai avuta, ma ora devi dimenticare. Mi dispiace.”
Non hai idea di quanto vorrei che tu mi ricordassi, ma non posso..
Non lo dice, l’angelo, perché sa che renderebbe solo le cose più difficili per entrambi.
“Ok, ho capito.. Tu però dimmelo lo stesso, almeno per qualche secondo voglio sapere come ti chiami.”
“Non ho un nome, perché posso essere tutto ciò che tu desideri che io sia, posso essere qualsiasi etichetta tu deciderai di attribuirmi.”
“Sherlock..”
“Per te sarò Sherlock.”
Sono le ultime parole dell’angelo prima che il bianco scompaia e sia sostituito di nuovo dal nero.
 
Londra, Inghilterra.
 
Mike Stamford, suo vecchio compagno di corso al Bart’s.
Dio, quanto può essere piccolo il mondo, a volte.
John non avrebbe mai immaginato di poter incontrare, tra le innumerevoli persone che ha conosciuto nel corso dei suoi quarant’anni di vita, proprio quel medico ormai grassottello e con un lavoro molto più stabile del suo.
L’unico motivo per cui ha accettato quel caffè è stato la cortesia, pura e semplice cortesia in memoria dei bei vecchi tempi che lui e Mike hanno condiviso al Bart’s.
Non che avesse effettivamente voglia di trattenersi a parlare e raccontare della guerra, del congedo forzato, della sua situazione di reduce storpio con una misera pensione che non può più nemmeno permettersi di vivere a Londra.
Non ne aveva voglia, ma la cortesia è un valore che gli hanno insegnato fin da bambino, quindi eccolo qui, seduto su una panchina a parlare con una persona che gli sembra di aver conosciuto una vita fa.
In effetti, per lui, è esattamente così.
 
Alza gli occhi al cielo, John, quando Mike gli propone di trovarsi un coinquilino.
Lui? Con tutti i suoi problemi di reduce di guerra affetto da post traumatic stress disorder?
Chi lo vorrebbe come coinquilino?
Ed è esattamente in questi termini che esprime il suo punto di vista.
“Chi mi vorrebbe come coinquilino?”
C’è tutto in quella domanda retorica: tutta la sofferenza di un’anima alla deriva, di una persona che ha smarrito la via e il suo scopo nella vita, tutto il dolore di chi è uscito da un inferno di fuoco solo per entrare in un altro, addirittura molto peggiore.
C’è la dichiarazione di resa di un soldato coraggioso ma allo stremo, unita a un silenzioso quanto disperato bisogno di essere salvato.
Di nuovo.
Da sé stesso, dai propri fantasmi, dalla propria vita priva di senso e scopo.
Salvato da qualcuno, perché da solo è semplicemente impossibile uscirne.
 
Ma Mike non sembra capire, perché lo guarda con l’espressione furbetta di chi la sa lunga e sembra avere una proposta sulla punta della lingua.
“Sei la seconda persona che me lo dice oggi..”
“Chi è stata la prima?”
Il sorrisetto sulle labbra di Mike si fa più divertito.
“Se ti va di concedermi mezz’ora del tuo tempo, vieni con me e lo scoprirai.”
John riduce gli occhi a due fessure, riflettendo: provare non gli costa nulla, e poi non ha comunque molto da fare per impiegare il suo tempo. Se non dovesse andare, potrà sempre dire di aver passato un paio d’ore in compagnia di un vecchio amico ed aver fatto qualcosa di diverso dalla monotonia della sua solita giornata priva di eventi.
Senza contare che una strana sensazione, come una sorta di sesto senso, gli sta suggerendo di alzarsi da quella panchina e seguire il suo amico, dovunque lo voglia portare.
Qualcosa gli sta imponendo di farlo, sta pizzicando le corde della sua anima per condurlo verso un punto che John non riesce ad immaginare, ma che non si sente di ignorare.
Avverte un senso di pace mentre si alza e si avvia, zoppicando, dietro Mike Stamford: non sa perché, ma sa che sta facendo la cosa giusta.
 
 
“Molto diverso dai miei tempi..”
E’ il primo commento che John si lascia scappare mentre si guarda intorno, lasciando vagare lo sguardo nel nuovissimo laboratorio del Bart’s.
A quanto pare, il suo potenziale coinquilino si trova lì, almeno stando alle parole di Mike.
Ed effettivamente c’è un uomo all’interno del laboratorio, capelli ricci e profilo regale, vestito con un elegante completo nero, di pregevole fattura, e una camicia bianca appena aperta sul collo.
John lo osserva da lontano, mentre ha ancora il capo chino su alcune provette, e una sensazione di vertigine lo assale costringendolo ad aggrapparsi con forza al suo bastone.
Non ha mai sperimentato di dejà vu, eppure è convinto che la sensazione che si prova sia esattamente quella: testa che scoppia, repentina sovrapposizione di immagini, fulmineo ritorno al presente accompagnato da una certa dose di confusione.
Ha come l’impressione di conoscere quell’uomo, conoscerlo bene, eppure non sa dire perché, né ricorda quando possa averlo incontrato in precedenza.
 
“Mike mi presti il telefono? Non c’è segnale sul mio..”
L’uomo continua a tenere lo sguardo basso, ma la sua voce è calda, baritonale, e John deve combattere con forza contro un altro capogiro, aggrappandosi stavolta con la mano libera direttamente al tavolo.
Cristo, ha già avuto a che fare con quell’uomo, ne è praticamente sicuro, ma non sa dire come e quando e la cosa lo innervosisce.
Tutto, in quella figura snella, alta e maestosa, gli è familiare e questo non fa altro che alimentare la sensazione sgradevole al centro del suo petto, che gli sta divorando piano piano ogni centimetro di carne.
Mike si fruga nelle tasche e si stringe nelle spalle: ha lasciato il cellulare nel cappotto e non può aiutarlo.
John infila istintivamente una mano nel taschino interno della giacca e ne tira fuori il suo cellulare, regalo di sua sorella Harry: ancora non sa perché si ostini a tenerlo, forse per lo stesso senso di cortesia e correttezza che gli ha imposto di assecondare Mike.
Si avvicina di qualche passo all’uomo coi capelli ricci e gli allunga il cellulare, per il puro gusto di catturare la sua attenzione e poterlo guardare, finalmente, in faccia.
“Tenga, usi il mio.”
 
L’uomo lo osserva brevemente, con un accenno di sorriso ironico che gli increspa le labbra, e si avvicina a sua volta, allungando la mano per afferrare il telefono, facendo in modo che il dottore la veda bene.
Un flash attraversa la mente di John: quella mano, quella stessa mano grande ed elegante, posata sul suo petto.
Cristo, che mi sta succedendo?
Se non avesse vissuto orrori terribili, probabilmente John a quest’ora avrebbe già iniziato a spaventarsi per quei piccoli flash, accompagnati da continue contrazioni della bocca del suo stomaco.
Spaventarsi soprattutto per la tenuta della sua salute mentale, non del tutto eccelsa di suo.
“Oh, grazie..”
Ancora una volta, la voce dell’uomo lo porta in un’altra dimensione e John fatica a restare concentrato, per rispondere alla domanda che gli è stata appena rivolta.
“Afghanistan o Iraq?”
Gli basta sentire Afghanistan per avere un altro flash, stavolta più intenso dei precedenti, e vedere due enormi ali comparire per un attimo sulla schiena dell’uomo davanti a sé.
E’ solo un attimo, un frammento infinitesimale di tempo che basta, però, per smuovere definitivamente qualcosa negli strati più profondi della coscienza di John.
Due ali.
Un angelo.
Sherlock.
“Afghanistan..” Si sente rispondere, come se fosse qualcun altro e non lui a parlare “Ma tu questo già lo sai, vero?”
Per la prima volta da quando John ha messo piede nella stanza, l’altro lo guarda negli occhi e le sue iridi, intense e cangianti, gli danno un ennesimo, potente, capogiro.
Il sorrisetto dipinto sulle labbra dell’uomo si fa più ampio, più divertito, ed è lo stesso sorriso di chi sta facendo una cosa che non dovrebbe fare eppure la fa lo stesso, godendo nell’infrangere le regole.
Ma io ci sarò sempre, quando sarai in difficoltà, quando avrai bisogno di essere salvato, io sarò lì, perché è ciò che sono, è il mio compito.
Per un attimo, è lo stesso sorriso carico di dolcezza che John ha sognato per mesi, da quando è stato congedato, e una sensazione di pace lo invade, mentre l’altro inizia a declamare tutta la sua vita con una semplicità disarmante.
Un solo nome si fa strada, di nuovo, nella sua mente.
Sherlock.
Il suo angelo custode.
 
 


[1] AK47 è il nome tecnico del kalashnikov.
[2] Il traghettatore dell’Ade: trasportava le anime lungo il fiume Stige, facendole passare dall’altro lato.
 
 
 
 
 
 
   
 
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