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Autore: Megan___    15/04/2013    1 recensioni
Una volta conoscevo un bambino.
Non ci avevo mai pensato prima, ma era davvero un tipo strano, di quelli che ti chiedi se arrivino a cento.
Che, poi, non è che lo conoscessi, più che altro mi limitavo ad osservarlo da lontano, con interesse.
[...]Un po’ lo invidiavo; ero così gelosa di quella spensieratezza che sembrava far parte della sua vita.
Genere: Malinconico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NON SCORDERO’ MAI QUEI GIORNI DORATI D’ESTATE

Una volta conoscevo un bambino.
Non ci avevo mai pensato prima, ma era davvero un tipo strano, di quelli che ti chiedi se arrivino a cento.
Che, poi, non è che lo conoscessi, più che altro mi limitavo ad osservarlo da lontano, con interesse. Una volta lo vidi parlare da solo... Penso non si fosse accorto di me, ma questo poco importa. Lui era lì, su una panchina di legno a rispondere e ridere in una conversazione con chissà chi... Rideva davvero, parlava sul serio con qualcuno, ma io non vedevo nessuno di fianco a lui: era solo su quella panchina.
Un po’ lo invidiavo; ero così gelosa di quella spensieratezza che sembrava far parte della sua vita. Non che io non fossi felice, anzi, tutt’altro: in fondo stavo bene con la mia famiglia: mia madre mi dava le giuste attenzioni, avevo i miei amici, anche i regali non mancavano e di certo potevo permettermi molte cose, forse non tutte, ma molte; ma dopotutto non c’era mai niente di nuovo. Mi piaceva davvero la mia vita, eh, ma ogni volta che vedevo da lontano la sua figura mi chiedevo cosa provasse, con chi stesse discutendo per essere così felice o a cosa stesse pensando per essere così concentrato. Ero attratta dalla sua libertà, ero attratta da quel suo “essere strano” che sembrava così lontano dalla mia realtà.
Solitamente la gente diceva di non avvicinarglisi troppo, che era un ragazzino cresciuto male... Forse perché non aveva una famiglia vera, ma quelle erano solo dicerie del paese. Io l’avevo vista la sua famiglia; l’avevo vista quando lo avevo seguito in un pomeriggio di primavera. Non si dovrebbe fare, lo so, la mamma lo diceva sempre che non ci si deve impicciare degli affari degli altri, ma ero curiosa di sapere chi fosse, ero curiosa di scoprire di più su di lui; in cuor mio speravo di avvicinarmi almeno un pochino al suo mondo. In ogni caso lo avevo seguito fino alla periferia del villaggio. Non sapevo realmente dove stesse andando o per fare cosa, ma lo vidi entrare nel cimitero, aveva un mazzolino di fiori di campo in mano e sembrava stesse parlando con qualcuno, anche se, come sempre, io non vedevo nessuno di fianco alla bicicletta che trascinava. Lo seguivo restando a distanza, come se stessi osservando un raro esemplare di farfalla: non potevo permettermi di lasciar fuggire quella meraviglia che si trovava di fronte a me. Dopo qualche minuto di cammino lo vidi fermarsi davanti a una pietra bianca e posare i fiorellini bianchi e rosa su di essa; io decisi di stare ferma qualche metro più in là, ad osservarlo silenziosamente. All’inizio non capivo la situazione, non avevo mai capito neanche cosa fosse un cimitero né a cosa servisse; la mia mamma mi aveva sempre raccontato che quando le persone non vivono più vanno in cielo, in paradiso, ma in quel posto la gente era sotto terra, o così dicevano i miei compagni di classe. Loro dicevano che dal terreno, in quel posto, la notte uscivano le persone morte e che se qualcuno si trovava per caso lì durante quelle ore, bhè... era peggio per lui, perché non sarebbe più uscito da quel luogo. Io sapevo che lo dicevano per spaventarmi perché ero sicura che mia mamma non potesse dirmi le bugie, mi voleva troppo bene per raccontarmene; però i loro racconti mi confondevano: non capivo davvero perché quel bambino era lì. Ora, a ripensarci, quei pensieri mi sembrano così stupidi e infantili.
Quella volta lo vidi lasciare giù il mazzolino e poi andarsene. Fu quando mi sentii sicura che fosse abbastanza lontano da non notarmi più che corsi verso la pietra... e lì vidi la sua famiglia: c’erano due nomi scolpiti nel bianco ed entrambi portavano il cognome di quel bambino. C’era anche una fotografia di una coppia sorridente; i loro volti sembravano davvero gentili. Non capivo bene perché avesse messo una fotografia lì, ma me ne curai poco; la mia attenzione era rivolta a quei fiori sfatti e appoggiati vicino all’immagine. Li raccolsi e li portai al viso chiudendo gli occhi, sperando di scoprire chissà cosa di sovrannaturale che mi avvicinasse a quella persona; ma, in realtà, l’unica cosa che percepii fu il delicato profumo che emanavano i petali colorati.
Da quella volta non smisi più di guardarlo con ammirazione. Non avevo capito un accidenti da quella visita al cimitero, se non che i suoi genitori si trovavano lì per qualche strano motivo –e che quindi le voci che giravano per il paese erano false– ma dentro di me era cresciuto il forte desiderio di conoscerlo, dato probabilmente dal fatto che non avevo scoperto nulla su di lui nonostante lo avessi seguito. Nella mia testa lui era diventato una specie di modello: era così bravo a nascondere tutto quello che lo riguardava che neanche a stare a un passo da lui si poteva capire qualcosa della sua vita.
D’altronde le chiacchiere continuarono a girare tra i vicoli della piccola cittadina e lui restava sempre solo –solo, ma felice nella sua “solitudine”. Ho sempre creduto che in fin dei conti non si sentisse abbandonato: nonostante io non gli vedessi nessuno attorno, ero convinta che ci fosse qualche presenza che gli faceva compagnia rendendolo felice e che lo aiutava ad andare avanti.
Non credo di poter mai scordare, poi, il giorno in cui si accorse di me. Era estate e come sempre era al parco seduto su quella panchina malmessa a parlare con qualcuno di invisibile, lo vedevo dondolare i piedi mentre chiacchierava amabilmente di chissà cosa con il solito nessuno; quando lo vidi voltarsi verso di me lentamente, per poi tornare ad osservare subito l’aria e infine girare nuovamente il volto verso il mio, con ancora più calma, come se qualcuno lo avesse avvisato della mia presenza e gli avesse raccomandato di non farsi notare. Credo che il mio cuore mancò un battito quando i nostri sguardi si incrociarono. Scorsi del miele nei suoi occhi illuminati quanto bastava da qualche raggio di sole, anche se non posso dire di esserne stata certa perché ero troppo lontana, ma ciò di cui sono sicura è il sorriso che mi rivolse. Un sorriso gentile e comprensivo, come quello che avevo visto nella foto al cimitero. Aveva inclinato piano la testa e a quel movimento i ciuffi castani si erano mossi dolcemente, incorniciando il viso d’angelo che aveva. Ora come ora credo che mi compatisse: devo esser sembrata davvero strana ai suoi occhi a osservarlo così sfacciatamente, o forse era solo il suo modo gentile di dirmi che non dovevo aver paura di lui... Ma qualunque fosse il suo intento, io non lo capii e, imbarazzata, scappai sentendo le guance in fiamme.

Non riuscii mai a rivolgergli la parola, non perchè fossi particolarmente timida, solitamente la gente avrebbe detto il contrario di me, e, anzi, io avevo tutta l’intenzione di parlargli, ma ogni volta che ero lì per lì di farlo, qualcosa mi frenava e nella mia testa una voce mi diceva di fermarmi, di stare ad osservarlo ancora un po’, di guardare con quanta semplicità si rivolgeva a quelle figure inesistenti che gli stavano accanto, fino a che non finivo per perdere ogni volta le occasioni che mi si presentavano.

Poi non lo vidi più.

Non so cosa successe, ma la sua presenza scomparve dal parco del paese. Inizialmente pensavo che sarebbe ritornato, ma passò una settimana, due, tre... E lui non tornava. Girai spesso per le stradine del villaggio in cerca di quel bambino solitario, andai anche al cimitero, ma non trovai niente se non la fotografia sorridente dei suoi genitori.
Gli anni scivolarono via e io ormai avevo smesso di cercarlo. Mi trasferii e iniziai la mia nuova vita ma, in fondo al cuore, rimase sempre il sorriso delicato che vidi in quel giorno d’estate.

Chissà chi vedeva nei suoi occhi quando parlava da solo.

  
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