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Autore: Lady Viviana    26/04/2013    2 recensioni
Un antico proverbio sostiene che le gocce di pioggia siano le lacrime delle donne. E se fosse vero? Se davvero il tempo, che sia sole o pioggia, dipendesse da una persona cui è stato affidato un dono prezioso quanto pericoloso? E c'è davvero posto per questo nel mondo?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Tony, il Poeta, il Narratore e il Filosofo
Al Paese, quello vero, che in comune con quello della storia ha solo le ambientazioni


 

Un goccia scivolò lenta e silenziosa sulla verde foglia e i fragili steli d’erba si piegarono sotto il peso di quella lacrima salata. Una ragazza piangeva, solitaria e, mentre il cielo le faceva compagnia, la terra riceveva quell’acqua amara.  Cos’era successo? Perché il mondo viveva solitario e solo un giovane donna popolava le sue strade?

(Circa un mese prima)

Risate allegre e spensierate si levarono dal campo di granoturco dirette verso il cielo, mentre un gruppo di ragazze s’inseguiva ai piedi di un imponente gelso, scivolando sull’erba che ricopriva il dolce pendio del campo. Di tanto in tanto staccavano una mora da un ramo e l’assaporavano all’istante, il succo violaceo e zuccherino che scivolava giù, nutrendo la terra che ne era già intrisa, mentre il sole le osservava, come un padre severo, ma indulgente, dall’alto del cielo azzurro. Nessuna nube solcava il cielo e, quando la sera scese sorprendendole in quell’angolo di paradiso, furono le stelle e la Luna, madre e sorelle, compagne a rischiarare le tenebre, ad accompagnarle nel viaggio di ritorno verso il vecchio borgo. Solo una ragazza, la più giovane e la più piccola di tutte, camminava pensierosa per le vecchie strade, giocando con un filo d’erba appena strappato e incantandosi davanti ai fiori chiusi; si distrasse a tal punto che il vociare delle sue compagne s’allontanò sempre di più nei piccoli vicoli e lei rimase lì, con il solo finire dei grilli e delle cicale a farle compagnia: si era persa e all’inizio nemmeno se ne accorse, la strada la sapeva, sarebbe solo giunta in ritardo.  Ma la notte e le ombre cambiarono qualcosa e lei, benché lontana dall’essere una piccola fanciulla, iniziò ad avvertire qualcosa, un inizio di paura e a sperare che qualcuna delle sue amiche si accorgesse della sua assenza. Si fermò, immobile, sul ciglio della strada, proprio sotto un altare, di quelli che si trovano nel centro dei rioni nei vecchi paesini di campagna e lì si sedette, nella pozza di luce di un lampione. Pianse lacrime amare, di rabbia, di frustrazione, sentendosi stupida e infinitamente piccola per essersi persa nelle strade della sua infanzia. E, nello stesso tempo, nuvole scure e minacciose coprirono la Luna e le stelle e il buio si fece totale, mentre una pioggia sottile e infida cadeva dal cielo, finché non si asciugò gli occhi e, preda di una nuova consapevolezza, riprese e ritrovò la strada di casa.

Nessun collegò quella piccola vicenda o si fermò a riflettere sull’episodio singolare, finché molti altri non seguirono il primo e il tempo divenne suggestionabile e fragile come una piccola margheritina di prato: così come la ragazza passava dal riso, alla rabbia, al pianto, alla gioia reagendo agli stimoli del mondo, così il sole splendeva nel cielo, presto soppiantato dalle nubi, dalla pioggia o, nei casi più gravi, da un vento fortissimo che faceva sbattere porte e persiane e che per poco non portava via qualche ignaro passante, sorpreso per la via da tale evento.

Ma, sul finire di aprile, quando le rose già sbocciavano nei giardini e iniziava il conteggio dei giorni mancanti all’estate, qualcuno, un vecchio del posto, per nulla saggio e molto stolto, un uomo che non era mai uscito da quelle quattro contrade, nemmeno quando la vita gliene aveva data la possibilità, iniziò a parlare e a diffondere dicerie fra gli ancor più sciocchi abitanti del piccolo paese. Sedeva composto, altero e superbo come un vecchio re, assiso sul suo personalissimo trono (in realtà una comunissima sedia), il nodoso bastone di legno agitato come un trono, arringando la folla  di avventori. Gli uomini lì intorno, quella domenica mattina, erano tanti, giovani, vecchi, ricchi, poveri, insomma c’era tutto il paese o quasi seduto ai quei tavolini e ognuno di loro teneva in grande considerazione, da stolto paesano di provincia, le idee e le opinioni del vecchio, che mai era andato oltre il vecchio bosco di castagni all’estremità del borgo.
“Vi dico, signori, quella ragazza è demoniaca. Non avete notato come cammina, come parla, come ragiona? In tutta la mia vita non ho mai visto nulla di simile..quando lei piange, il cielo piove, quando lei ride, il sole brilla sui nostri campi. Io dico che quella è Magia Nera, dobbiamo portarla dalla parte dei Giusti oppure cacciarla. Rovinerà i nostri campi, travolgerà le nostre famiglie e ci metterà contro i nostri figli.”
“Ha ragione il vecchio, c’è qualcosa di malvagio in lei. Dobbiamo riportarla sulla retta via o sarà il Signore stesso a chiederci di cacciarla per salvare tutti noi”
– disse il vecchio prete dietro il suo solito bicchiere di buon vino.
E la voce dell’ignoranza, più forte, prevalse sulla ragione e i pochi, i più giovani, che ritenevano il discorso una follia, tacquero e si sottomisero, come i loro padri, i loro nonni e tutti i loro progenitori, alle regole che gli abitanti di quel paese s’imponevano, nel vago tentativo di tenere fermo e immobile un ordine che invece era in continuo mutamento, un mondo che cambiava più in fretta delle stagioni e che non aspettava chi si perdeva lungo la strada. La giovane ragazza fu così portata, dopo la funzione religiosa cui assisteva con la famiglia e le amiche di sempre, al bar e sottoposta al giudizio del vecchio, un processo alle intenzioni  senza che niente, nemmeno la fragile opposizione della madre  e della nonna, riuscissero a fermare il masso che, lentamente, stava rotolando giù dalla collina e le cui conclusioni erano coperte da quello strato pesante come il piombo di ignoranza che avvolgeva le menti dei compaesani.
“Sappiamo che sei tu a cambiare il tempo, che puoi decidere quando deve piovere o deve esserci il sole. Solo il Male può averti dato questo e noi, per il tuo Bene, dobbiamo cacciarlo. E l’unico modo per farlo è importi come cambiarlo, così da travolgere i Suoi piani di distruzione.”
E il discorso folle, assurdo, fuori dal mondo fu l’apice di quella pazzia, figlia dell’ignoranza e della superstizione: la ragazza non poté più muovere un passo senza che gli occhi di tutti fossero puntati su di lei, sul suo umore, sul suo essere, occhi indagatori, controllori che, come famelici avvoltoi, l’aspettavano al varco, pronti a scacciarla. Ma il potere di quella figlia della stelle, amante della Natura nel suo aspetto più puro, era qualcosa che andava oltre ciò che la ristretta mente umana può comprendere, quella ragazza figlia della Madre non poteva controllare ciò che era, semplicemente perché quella era lei, il suo essere.

E non fu più felice e la pioggia si abbatté notte e giorno, senza sosta sul piccolo borgo, mentre il suo volto scavato dalle lacrime dimenticava cos’era la felicità, com’era sorridere  al sole nascente. I campi, le strade, tutto si tramutò in fango e la rabbia montò nel cuore nero degli stupidi abitanti e quando  l’acqua che cadeva dal cielo diminuì e un vento forte prese il suo posto, essi si recarono nella piccola casa, furenti, pronti a cacciarla fuori dalle loro strade per colpa di un Male che nemmeno esisteva. Ma trovarono l’abitazione vuota, seppur in ordine e così si sparpagliarono per il paese alla sua ricerca, mentre i meno stolti fra loro iniziarono a presagire il peggio. Finché,  all’estremo del paese, la trovarono, nel campo che aveva dato inizio a quell’assurdo vicenda, mentre una pioggia fitta e terribile cadeva dal cielo, cercando di lavar via le colpe e i peccati insanabili di quella gente stupida:  non sopportando di dover forzare l’ordine della Natura che tanto amava e sapendo quale sarebbe stato il suo destino, si era impiccata a un ramo di quel gelso, le tasche piene di more, le lacrime salate che ancora cadevano, bagnando l’erba ai piedi del maestoso tronco che ora giaceva, senza vita, pronto a crollare a terra al primo soffio di vento.
 


 


 

  
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