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Autore: rosie__posie    30/04/2013    11 recensioni
John, orfano zoppo. Sherlock, giovane lord. Un amore impossibile in un'epoca in cui la sodomia era punita con la morte.
Lord Sherlock non aggiunse altro. Si limitò a fissarmi con quel suo sguardo enigmatico e indagatore, mentre io mi sentivo paralizzato, quasi incapace di respirare o addirittura pensare. Tuttavia, avrei giurato di sentire di nuovo quella sorta di connessione tra noi, come un invisibile filo di lana che qualcuno nel Cielo, magari un angelo dalle ali soffici e maestose, stava pian piano tessendo per unire la mia anima alla sua.
Note: AU!Medieval, hurt/comfort, amore proibito, accenni a stregoneria
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Essere cavalieri o di nobili natali non significa essere nobili o importanti. Essere nobile significa mostrare senza orgoglio le proprie virtù mettendole al servizio di Dio e del prossimo  [Anonimo templare]

 
 
 
 
 


ATTO II. LA SCIENZA DELLA STREGONERIA
 
 
 
I sette giorni che mi separavano dalla domenica trascorsero rapidi.
 
Lavorai, lavorai e ancora lavorai. Immerso sino alla fronte negli odori forti dei tannini, quando aiutavo mastro Michael in laboratorio, o in quello pungente del pesce, al mercato.
 
Alla sera, invece, scrivevo, scrivevo e ancora scrivevo. Mi esercitavo il più possibile, a volte cancellando persino quanto avevo scritto grattando via l'inchiostro [1], in modo da non sprecare i preziosissimi fogli donati da madonna Molly. Rimanevo alzato sino a tardi, a imparare. A migliorare. Per lui, soltanto per lui. Lord Sherlock mi aveva catturato – stregato, invero – con la sua bellezza e la sua peculiarità ammaliatrice, degna di quella che supponevo possedessero gli stregoni delle favole. Se non addirittura il Diavolo in persona.
 
Gli erano bastati solo pochi sguardi e ancor meno parole per conquistarmi. Non esisteva nulla di più ambito, per me, se non potergli parlare di nuovo. E poter essere suo, per servirlo, sebbene ciò suonasse alle mie orecchie tanto impossibile quanto essere ricevuto alla corte di Sua Maestà il re in persona.
 
Ricordo che, una sera, avevo riempito un foglio intero scrivendo il nome Sherlock più e più volte. Ero rimasto a osservare il risultato della mia opera con quello stesso sguardo che mastro Michael avrebbe riservato a una borsa tascapane appena nata dalle sue abili mani.
 
Sono certo che la luce che animava i miei occhi in quegli attimi non aveva nulla da invidiare a quella che li aveva fatti brillare la prima volta in cui si erano posati sui seni nudi di Mary.
 
"Sherlock..." bisbigliai, solamente per lasciare che le mie orecchie si cibassero di quel suono. "Sher-lock" ripetei un attimo dopo, con tono più alto di una nota. Mi piaceva la sensazione che lasciava quel nome così strano e magico sulla mia lingua.
 
"Come hai detto, John?" domandò di soppiatto madonna Molly, inginocchiata davanti alla madia dentro cui stava riponendo le pentole, solo pochi passi più in là dal tavolo da pranzo dov’ero seduto io. Mi sentii avvampare, mentre il sangue ribolliva dentro me. Il cuore prese a scalciare al centro del petto, dalla paura di essere scoperto, mentre farfugliavo un “Nulla, signora” poco convinto.
 
Madonna Molly mi sorrise e, sistemando le pieghe del grembiule bianco che le cingeva la vita, si alzò in piedi. “Desideri una mano, John, con il tuo alfabeto?” domandò cortese, avvicinandosi. Mi sforzai di trovare qualcosa di plausibile da dire, in quel metro e mezzo che la separava dalla mia sedia, mentre con finto disinteresse sistemavo i fogli davanti a me e pregavo qualsiasi entità ultraterrena che fosse disposta ad ascoltarmi affinché mi risparmiasse dall’imbarazzo di dover giustificare a madonna Molly il fatto di aver riempito un intero e preziosissimo foglio con il nome del figlio minore del conte Holmes.
 
Conte.
 
Figlio.
 
Maschio.
 
Qualcuno, lassù, fu incredibilmente magnanimo nei miei confronti, facendo sì che, a un paio di passi dal tavolo, il piccolo Andrew si scontrasse con le gonne della madre, durante il suo maldestro tentativo di rincorrere la sorellina. “Oh, eccolo qui il mio ometto!” squittì di gioia madonna Molly, inginocchiandosi ad abbracciare il figlioletto. Dal canto mio, sospirai e mi voltai verso il focolare. Un attimo dopo, le alte fiamme lambivano il mio prezioso foglio.
 


 
§§§
 


 
Madama Molly si stupì quando le domandai la cortesia di rammendare la mia tunica di lana, ormai pesantemente logora all’altezza dei gomiti. Questo perché non avevo mai attribuito troppa importanza alle condizioni delle mie vesti, poiché reputavo già un mezzo miracolo solo il fatto di possederle (calze e addirittura stivali [2], regalo della famiglia Stamford per il primo compleanno trascorso sotto il loro tetto, l’unico capo a cui dedicavo ogni mia cura). Ricordo che non prestai molta attenzione alle mie vesti nemmeno in occasione del mio primo vero appuntamento con Mary, quando la portai al Cross Keys [3], la locanda del villaggio. L'unica cosa che feci, e che facevo sempre, fu coprire in tutti i modi il segno lasciato tra collo e spalla dall'ustione risalente al giorno della morte di mia madre, di cui mi vergognavo terribilmente.
 
Ma lo stupore di madonna Molly non fu nulla in confronto a quello che provò quando le domandai se domenica, prima di recarci alla funzione, avessi potuto fare un bagno [4]. Ricordo che, in successione, sgranò gli occhi, trattenne a stento un sorriso, infine distolse lo sguardo, arrossendo lievemente sulle gote.
 
Poco più tardi, mi pregò di raggiungerla nel laboratorio, dove trovai ad attendermi la tinozza del bucato colma d’acqua fatta bollire, pronta per il mio bagno. “Ti lascio questi stracci per asciugarti” aveva detto la madonna, appoggiandoli su una pertica orizzontale. La ringraziai e le diedi le spalle, pronto per sfilare le mie vesti. Udii la porta del laboratorio cigolare; una pausa, poi madonna Molly parlò di nuovo.
 
“Come si chiama?” disse dolcemente. Io mi paralizzai, con la stoffa della tunica tra le mani. “A chi vi riferite, signora?” chiesi io, voltandomi a guardarla, preso da un reale smarrimento. Il viso di Molly era addolcito da un tenero sorriso. “La ragazza per la quale ti stai facendo bello, John” rispose, gioviale, con una mano sulla porta e l’altra lungo il fianco. Annaspai in cerca d’aria, mentre capivo di essere arrossito sin sulla punta delle orecchie. “Io non... non c’è nessuna... ecco” farfugliai, sentendomi sprofondare in un’inesorabile miscela d’imbarazzo e panico.
 
Madonna Molly si avvicinò, sfiorandomi teneramente una guancia con la mano. “D’accordo, John caro, ma ricorda che se mai avrai bisogno di qualche consiglio, mi troverai sempre qui” disse, prima di voltarsi e lasciarmi solo. Un attimo dopo, la porta del laboratorio cigolò di nuovo, chiudendosi e lasciando fuori i raggi di una splendida mattinata di sole. Boccheggiai più e più volte. Avevo la pelle ancora in fiamme quando immersi il mio corpo nudo nell’acqua calda e profumata di spezie.
 


 
§§§
 


 
La bellezza dei raggi del sole appassì subitamente come una rosa recisa da una cesoia inclemente e il gelo assalì il mio cuore come il più rigido degli inverni. Lord Sherlock non era presente alla funzione quella domenica. Nessun membro della famiglia del conte Holmes era alla cattedrale, invero. Il banco in prima fila era spoglio quanto i rami di un pesco a dicembre.
 
Le parole di padre Lestrade, pronunciate come al solito con tutta la veemenza che lo contraddistingueva dal pulpito al centro della cattedrale, scorrevano via dalle mie orecchie e dalla mia mente, senza lasciare impronta alcuna del loro passaggio.
 
Rimasi immerso nel mio piccolo mondo fatto di rammarico e delusione per tutta la durata della Messa, del viaggio verso casa e del pranzo, impegnato in ogni sorta di congetture circa il motivo della sua assenza.
 
Il mio cuore bramava di conoscenza, di sapere se stesse bene, se fosse partito per un lungo viaggio, se mai lo avessi rivisto.
 
"Lei non c'era?" bisbigliò Molly al mio orecchio, mentre rimuoveva la tovaglia [5] a pranzo concluso. Mi fu impossibile impedire alla mia pelle di arrossire come il più maturo e carnoso dei papaveri. Scossi debolmente il capo, arrendendomi parzialmente all'arguzia di quella donna.
 
"Nemmeno la famiglia del conte era presente alla funzione, quest'oggi" dissi io, cercando di esibire una finta noncuranza e sperando che i miei occhi non mi tradissero. Ma quella speranza durò ben poco quando madonna Molly accostò nuovamente le labbra al mio orecchio, mormorando un "Mi informerò con lady Hudson" in tono complice.
 
Credo che il mio viso assunse tutte le tonalità del rosso – dal rosa pallido al viola acceso – di questo mondo e quell'altro, quando Molly si allontanò strizzando un occhio.
 
La consorte di mastro Stamford aveva scoperto tutte le mie carte.
 


 
§§§
 


 
Due sonori colpi inferti contro la porta del laboratorio di concia. Era lunedì sera; mi ero appena chiuso la porta alle spalle senza, tuttavia, aver ancora indossato la veste da notte, quando bussarono. Era madonna Molly, con un sorriso raggiante e occhi così brillanti da rendere quasi completamente inutile la candela che reggeva in una mano.
 
"Sono in visita presso un cugino del conte, lord Henry. Saranno di ritorno tra pochi giorni" mi informò, con una voce così pregna d'entusiasmo da costringere il mio cuore a smarrire qualche colpo per strada. Inutile aggiungere che, per l'ennesima volta, avvampai.
 
Borbottai un confuso "Vi ringrazio", quindi madonna Molly, con un ultimo sorriso, si lasciò inghiottire dalle tenebre della notte. Mi spogliai di fretta e mi coricai nel mio giaciglio. Chiusi gli occhi cercando di ipotizzare quanto avrei dovuto aspettare ancora prima di rivedere lord Sherlock. Una domenica? Due domeniche?
 
Non dovetti aspettare molto, perché lord Sherlock venne da me.
 
Beh, non proprio da me, ma da mastro Michael al mercato. E non da solo, ma con suo fratello, il visconte Mycroft, per acquistare fodere e borse. Ma andava benissimo così.
 
Quando i miei occhi riconobbero il suo magnifico destriero e quella folta chioma scura, il mio cuore non perse un battito, ma un numero che non fui capace di quantificare.
 
Dopo che vidi i due fratelli Holmes smontare da cavallo e dirigersi verso il nostro banco, la mia testa prese a girare vorticosamente e la mia gamba a richiedere attenzioni. Non riuscivo a credere che stessero venendo da noi, proprio da noi.
 
Non avrei saputo dire con certezza che cosa domandò lord Mycroft e cosa gli rispose mastro Michael, poiché l'eco del mio cuore imbizzarrito rimbombava prepotentemente nella mia testa, che mi costrinsi a tenere china per la maggior parte del tempo, troppo imbarazzato e timoroso per riuscire a guardare il giovane lord in volto.
 
Detti, tuttavia, ben più di una sbirciata, grazie alle quali notai che sul viso del ragazzo moro era dipinta un'espressione attenta e concentrata, con un sopracciglio inarcato e le labbra arricciate.
 
I suoi occhi sembravano assorbire avidamente ogni cosa attorno a lui – i colori, i profumi, la merce in vendita, io – e trasformarla in qualcosa di nuovo, di meraviglioso.
 
Il mio sguardo saltellava dalla punta dei miei stivali al suo viso e, durante uno di questi saltelli, finì per scontrarsi con quello di lord Sherlock, facendomi arrossire al pari di una fanciulla alle prese con il suo primo amore.
 
"John! Le fodere, John, di grazia!" la voce acuta e agitata di mastro Stamford mi fece trasalire e arrossire ancor di più, se mai fosse stato possibile. Mi chinai sotto il banco, iniziando a mio malgrado a cercare le fodere tra le... brigantine.
 
"Credo che le fodere siano laggiù, John."
 
John...
 
Sentì distintamente il mio cuore smettere di battere e i miei polmoni di respirare. Lord Sherlock si era accucciato accanto a me e il mio nome sillabato dalle sue labbra era echeggiato alle mie orecchie meglio delle note suonate da un'arpa celestiale.
 
John.
 
Nessuno mai lo aveva pronunciato con l'intonazione usata dal giovane lord. E nessuno lo fece più dopo di lui.
 
"Sì, giusto..." farfugliai, allungando un braccio verso sinistra. "Le fodere laggiù, sì."
 
"Ovvio che è giusto" borbottò il minore dei fratelli Holmes, piccato, cosa che mi mandò nel panico più totale. Raccolsi una pila di fodere, mi alzai per riporle sul banco e mi riaccucciai a terra, in un'unica mossa fluida. Lord Sherlock non si era mosso di un pelo e mi stava ancora fissando con quegli occhi carichi di curiosità.
 
"Deduco dai tuoi movimenti che la spalla vada molto meglio" disse il giovane, studiando i movimenti del mio braccio. "Oh sì, grazie... Vostra grazia... Volevo dire, signor conte. No, sire..." farfugliai in preda al massimo imbarazzo. Nulla venne in mio aiuto per impedirmi di diventare paonazzo in viso. “Insomma, sì, vi ringrazio, lord Holmes” terminai, scuotendo il capo energicamente.
 
Lord Holmes, signor conte e tutte le altre sciocchezze che hai nominato vanno bene per mio padre. Io sono semplicemente Sherlock” disse il mio sire, il mio principe. Quindi, fece qualcosa di assolutamente inaspettato per una persona come lui nei confronti di una persona come me: mi porse la mano in segno di saluto e io, con il cuore che graffiava e urlava al centro del petto e all’altezza delle mie tempie, gli porsi la mia, tremante. “Io sono... John” borbottai confusamente. “Lo so” disse lui, arricciando le labbra in una sorta di strano sorriso. Mi ferrò l’avambraccio stringendolo fortemente [6] e io sentii una netta sferzata di qualcosa di sconosciuto – qualcosa di vivo – lambire il mio intero corpo.
 
Dopo la stretta di mano, lord Sherlock si alzò, mentre io rimasi un attimo ancora inginocchiato sotto il banco, sistemando il piccolo danno che avevo fatto poc’anzi. “Foglie di cavolo, curioso... Un rimedio che non avevo mai sentito. Ma indubbiamente efficace” dissi, desideroso come non mai di prolungare la conversazione, possibilmente sino all'Apocalisse. Mi tirai alla fine in piedi, la mia gamba capricciosa che cercava di richiamare la mia attenzione con piccole scosse. Lord Mycroft e mastro Stamford erano poco lontani da noi, intenti nella loro trattativa, ma noi non ci facemmo caso.
 
I miei occhi non abbandonarono quelli del giovane lord nemmeno per un attimo, i quali, tuttavia, parevano essere intenti a scandagliare il mio intero corpo, cosa che mi metteva a disagio in un certo qual modo. “E quali rimedi ti avrebbe consigliato il tuo cerusico? Sentiamo!” chiese poi Sherlock, tornando d’improvviso a osservarmi in viso. “Aglio e olio di mandorle” risposi io, iniziando a sentirmi pian piano a mio agio, “e non il mio cerusico, ma mia madre.”
 
Non so perché gli parlai di mia madre: ero troppo piccolo per serbare grandi ricordi della donna che aveva messo al mondo me e mia sorella, ma era come se, prima di morire, ci avesse in qualche modo trasmesso alcune delle sue preziose conoscenze. Il timore che fosse effettivamente una strega come padre Lestrade sosteneva fece per un attimo pulsare di dolore la mia gamba e strattonai il collo della mia veste, giocherellando con i lembi di stoffa, proprio all'altezza della cicatrice lasciata dalla vecchia ustione, come facevo sempre quand'ero nervoso.
 
L’espressione che si dipinse sul viso di lord Sherlock sembrava comunicare che avesse capito in qualche modo ciò che stesse passando per la mia testa. “Tu non sei figlio di mastro Stamford, nevvero?” Fu una constatazione, più che una vera e propria domanda. Scossi il capo in segno di conferma. “No, non lo sono” ammisi.
 
“Sei orfano” continuò, osservandomi con una profondità tale in quegli occhi azzurri da sentirmi quasi trapassato da parte a parte, proprio all’altezza della fronte. “Sei orfano perché tua madre è stata accusata di stregoneria e arsa viva” continuò, con la stessa disinvoltura che avrebbe avuto parlandomi del suo magnifico destriero.
 
Mi sentii mancare, mentre il minore dei fratelli Holmes sembrava essere appena venuto a capo di un difficilissimo rompicapo, i lineamenti aguzzi del viso che finalmente riuscivano in qualche modo a rilassarsi completamente.
 
Si avvicinò a me, con movimenti lenti e densi di aspettativa. Alzò il braccio destro e il suo indice sfiorò piano il mio collo, scostando appena la veste per scoprire un pezzetto della mia pelle, quello che non amavo, che detestavo con tutto me stesso.
 
Quello sul quale miss Adler amava particolarmente sfogare la sua rabbia.
 
Quello davanti al quale Mary aveva arricciato il naso e distolto lo sguardo.
 
L'aria frizzante si scontrò con la mia pelle resa bollente dalla tensione del momento, man mano che le dita lunghe e affusolate di lord Sherlock scendevano giù e più giù, andando a morire poco prima della spalla. Quella splendida creatura stava toccando me, il mio corpo. La mia carne.
 
E io tremai.
 
"Come testimonia questa cicatrice, del resto. Qualche tizzone vagante... È normale, la prole è sempre costretta ad assistere all'esecuzione di una strega" concluse, con una voce calma e profonda, che, sebbene provvista di ben più di una nota di supponenza, riuscì a far vibrare il mio corpo come le corde di una lira bizantina tra le mani del più abile dei suonatori.
 
C'era, tuttavia, una parte di me che avrebbe voluto gridargli con quanto fiato avevo in gola "Ehi, state parlando di mia madre!", ma questa assurda voglia morì sul nascere. Fu schiacciata quasi del tutto da quell'altra parte – quella più forte, quella innamorata – che ordinò alla mia bocca di dischiudersi per lasciare uscire un flebile, ma deciso "Meraviglioso..."
 
Le gote di lord Sherlock si tinsero di una tenue sfumatura di carminio, espressione della sua sorpresa e del suo piacere per il complimento appena ricevuto.
 
"Vogliate scusarmi, se vi sono apparso insolente" farfugliai, nel timore di aver osato troppo.
 
"Non sei insolente, tutt'altro. È che, normalmente, ricevo tutto un altro genere di commenti." Un ghigno, a metà strada tra il divertito e l'indispettito, mentre gli occhi vagavano lontano, verso un mondo in cui non mi era permesso entrare. Ancora...
 
"E cosa vi dicono, di solito, se mi è permesso chiederlo?" mi sorpresi a dire. Il lato di me che era rimasto contrariato dalla sua spiccata supponenza capitolò del tutto, mentre le mie labbra si atteggiarono a un sorriso d'ammirazione. "Di smetterla, se non voglio essere accusato anche io di stregoneria!" C'era ben più di una nota di allegria nella voce del giovane lord, ora; sembrava contento delle mie parole. Quasi felice. E io, inspiegabilmente, mi misi a ridere. E lui con me.
 
Fu il primo momento in anni in cui mi sentivo libero da qualsiasi preoccupazione. Quasi felice anch'io. No... ero totalmente felice. Una risata genuina, sana. Come non ne facevo da tempo.
 
"E chi mai vi accuserebbe, di grazia?" continuai. Mi sentivo inspiegabilmente libero di poter chiedere al giovane Holmes qualsiasi cosa avessi voluto, certo di non ricevere in cambio alcun rimprovero. "Mio fratello, ad esempio" bisbigliò Sherlock, inclinando leggermente il capo verso sinistra. I miei occhi seguirono quel movimento e si accertarono che lord Mycroft fosse ancora fervidamente impegnato nelle trattative con il mastro pellaio. "Oh..." fui capace di mormorare solamente. Iniziavo a percepire una sorta di complicità con lord Sherlock. Ed era bellissimo. "È invero, tuttavia, che voi possediate capacità strabilianti" aggiunsi poi, per dimostrare al mio affascinante interlocutore tutta l'ammirazione che provavo nei suoi confronti, "non stento a credere che possano essere scambiate per stregoneria."
 
"Io preferisco chiamarle in altro modo" ribatté lui. Lord Sherlock aveva negli occhi una strana luce, che mi ricordava molto quella che avevo intravisto negli occhi di Mary la prima volta che le dissi, esagerando deliberatamente, che mai avevo visto creatura più bella [7].
 
"Ovvero?" domandai, accorgendomi di stare sempre più pendendo dalle sue labbra. "Deduzione" un sorriso perfetto che scoprì denti ancora più perfetti, "ed è una scienza!"
 
Ridemmo ancora, sempre più complici. E, in virtù di tale complicità, mi sorpresi a indietreggiare di qualche passo, come se volessi proteggerlo mettendo una certa distanza tra noi e suo fratello. Fu allora che il minore dei figli del conte Holmes mi sorprese di nuovo. "Tu zoppichi" constatò, adottando per l'ennesima quell'espressione seria e concentrata da studioso. Mi sentii sprofondare, mentre le mie gote iniziarono a pulsare con veemenza per la vergogna. Non ero stato abbastanza cauto da nasconderlo. "Già..." borbottai imbarazzato, "dalla nascita, credo." "Credi?" "Sì, insomma, da quando ne ho memoria. Incurabile."
 
Iniziai a sudare e il mio cuore a protestare: temevo che la mia zoppia mi facesse apparire infimo agli occhi di lord Sherlock, esattamente come capitava con la maggior parte delle persone, finendo così per fargli perdere ogni interesse che stava dimostrando nei miei confronti.
 
"Magari lo credi tu, che sia incurabile..." disse invece il giovane Holmes, più parlando a se stesso che realmente a me. "Cos'altro potrebbe essere, di grazia?" La mia voce fu appena più di un sussurro. Un sussurro malinconico, rassegnato e lievemente sarcastico. "Una madre accusata delle peggior cose, arsa viva, davanti ai tuoi occhi. Probabilmente, costretto a vivere per anni in una di quelle case della morte. Senso di responsabilità e debito incolmabile nei confronti della famiglia che ti ha dimostrato clemenza accogliendoti nel proprio focolare domestico..." iniziò a recitare, parlando con un fervore che avrebbe fatto invidia persino a padre Lestrade nei giorni migliori e che stava schiacciando il mio piccolo cuore con un'intensità degna della furia del Signore. "Forse sarebbe il caso che regalassi un po' di respiro al tuo corpo spostando la tua mente su altre cose" [8] concluse.
 
Quelle parole, sparate a raffica da lord Sherlock, mi lasciarono in preda a un bizzarro senso di leggerezza e sbigottimento. Ciononostante, percepivo tutt'intorno a noi qualcosa – qualcosa di davvero speciale – che univa come ben poche altre cose al mondo me a lui e lui a me.
 
Se avevo definito quanto detto da lui prima come semplicemente "meraviglioso", questo era addirittura strabiliante.
 
Il bagliore nei suoi occhi era ora divenuto qualcosa di ancor più indescrivibile, che, come per incanto, pareva riflettere tutt'intorno a Sherlock la sua reale bellezza, quella che proveniva dal profondo e di cui forse lui stesso non era a conoscenza.
 
Ma, qualunque cosa fosse, fu presto ricacciata al suo posto dalla voce invasiva di lord Mycroft, che richiamava suo fratello a sé rammentandogli che era giunta l'ora di rimettersi in marcia.
 
E fu così che lord Sherlock si congedò dalla mia persona; mi lanciò un ultimo sguardo e, prima di montare in groppa al suo destriero, strizzò l'occhio in segno d'intesa.
 
Ancora ignoro come io non abbia fatto a morire lì, quel giorno e in quel preciso istante.
 
Lo seguii con lo sguardo fino a quando lui e lord Mycroft non scomparvero dai miei occhi. 
 


 
§§§
 


 
Erano già calate le tenebre quando "presi in prestito" il castrone baio di mastro Stamford. "Andiamo a fare un giretto, bello" sussurrai grattandogli dolcemente il muso, mentre uscivamo guardinghi dal laboratorio-stalla.
 
Galoppai a perdifiato per i vicoli e le viuzze di Grimpen, fino a raggiungere la signorile abitazione a più piani di sir Hudson. Arrestai il mio baio, scesi e legai le briglie a un cespuglio. Posai gli occhi a terra, alla ricerca di qualche sassolino che avrebbe potuto tornare utile al mio scopo. 
 
Tirai il primo verso la piccola finestrella dietro cui sapevo si trovava la stanza di mia sorella, ma sbagliai completamente il bersaglio.
 
Aggiustai il tiro e il secondo colpì al centro l'imposta di legno [9]. Harry aprì al terzo sassolino.
 
"Harry!" chiamai, senza tuttavia alzare troppo la voce.
 
"John? John, sei tu?" La voce di mia sorella era lievemente impastata. "Sì, sono io! Dovevo assolutamente vederti!"
 
Harry si stropicciò un occhio, poi si sporse di più, per vedermi meglio. "Per tutti i diavoli, che cosa succede?"
 
Io non risposi immediatamente; sorrisi per una manciata di secondi mentre cercavo nella mia mente il modo migliore per introdurre mia sorella agli avvenimenti accaduti.
 
"Ho conosciuto una persona [10]" dissi infine, il sorriso che man mano cresceva sul mio viso, irradiandolo di luce come se attorno a noi stesse crescendo l'aurora più bella di tutti i tempi.
 
Harry si lasciò scappare un gridolino di approvazione, mentre mi sorrideva di rimando. "Chi è? La conosco?" domandò, entusiasta.
 
"Te ne parlerò!" dissi io, slegando il mio baio e montando in sella con un po' di fatica, a causa della mia gamba. "Mastro Michael non sa che ho preso il cavallo e sono venuto qui."
 
Harry mi salutò portandosi le dita alle labbra e mandandomi un bacio immaginario. Non sentii il rumore delle imposte che si chiudevano perché io e il mio destriero eravamo già lontani.
 


 
§§§
 


 
Quando mettemmo piede nella cattedrale per la funzione domenicale, la famiglia Holmes era già presente. Eleganti, impettiti e altezzosi nel loro banco personale in prima fila. Erano tutti, così: il conte Siger, la contessa Violet, il visconte Mycroft.
 
Lord Sherlock no. Lord Sherlock era indubbiamente elegante, nel suo farsetto di seta blu e nel caldo mantello di zibellino, ma sul suo viso non era dipinta l'altezzosità che potevo invece notare in suo fratello o in sua madre. Ci vedevo invece un nitido desiderio di trovarsi altrove; o, per lo meno, così appariva evidente ai miei occhi.
 
Mi divertii a cercare di immaginare dove avrebbe preferito essere lord Sherlock, in quel momento. Una biblioteca benedettina, forse, o magari in riva a un fiume. O forse ancora in sella al suo magnifico destriero, galoppando a più non posso verso le colline, con il vento che gli accarezzava i capelli con fervore. Era questo, almeno, ciò che avrei voluto fare io se mi fossi ritrovato al suo posto.
 
Fu durante un passaggio del sermone di padre Lestrade che si voltò a guardarmi. Prima di quel momento, sembrava non essersi accorto della mia presenza, eppure era riuscito a trovare i miei occhi con sicurezza, come se avesse saputo esattamente dove cercare. Come se mi avesse in qualche modo "percepito". Non potei impedirmi di pensare alle sue abilità molto vicine alla stregoneria, che lui chiamava invece "deduzione", e sorrisi intimamente.
 
Lord Sherlock non disse nulla. Per lo meno, non con le parole. I suoi occhi, invece, dialogarono così tanto con i miei che, a un certo punto, temetti seriamente che padre Lestrade scendesse dal suo pulpito per rimproverarlo della sua distrazione.
 
A funzione terminata, mentre mi avviavo verso il carro tenendo Andrew e Louise per mano, gli occhi del giovane Holmes cercarono nuovamente i miei e io sostai sul selciato per dar loro il tempo di "conversare" ancora.
 
Poi lord Sherlock montò in groppa al suo cavallo e io non riuscii più a trattenere quel sorriso che già da prima stava lottando con tutte le sue forze per prendere possesso del mio viso.
 
Sono quasi certo che il giovane lord fece del suo meglio per resistergli, tuttavia ai miei occhi attenti non sfuggì quell'angolo della bocca che si arricciò all'insù prima di comandare al suo destriero di mettersi in marcia.
 
Fu piccolissimo, quel sorriso appena accennato che lord Sherlock mi regalò. Piccolissimo, ma più prezioso di un intero forziere d'oro.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo dell'autrice: ringrazio ancora una volta madonna Saranel per il suo aiuto. [1] poiché la carta era rara e preziosa nel Medioevo, spesso i fogli venivano riutilizzati grattando via l'inchiostro. [2] non era da tutti possedere delle calzature nel Medioevo. Spesso i più poveri non le avevano del tutto, oppure avevano delle calze-scarpe. [3] la famosa locanda di Baskerville. [4] il bagno era cosa rara nel Medioevo, poiché l'acqua non era sempre disponibile. Quando si riusciva a farlo, l'acqua doveva essere precedentemente bollita e spesso si utilizzavano anche delle spezie. [5] curiosità: nel Medioevo non si usavano veri e propri piatti, spesso sostituiti da fette di pane, ma si cambiava spesso tovaglia. [6] questo era il modo di stringersi la mano in epoca medievale. Tutta la scena della stretta di mano vuole essere un omaggio alla splendida 48 seconds della mia soulmate Saranel. [7] rivisitazione di un brano del Canone in cui Watson afferma che i complimenti per le deduzioni fatte facevano brillare gli occhi di Holmes come i complimenti fatti a una fanciulla per la sua bellezza. [8] parlare di disturbo psicosomatico nel Medioevo non mi pareva adeguato: ho preferito "girarci intorno". [9] ho letto in un libro che alcune abitazioni medievali, quelle più ricche, usavano le imposte di legno. Ho pensato di usarle per casa Hudson, poiché sono un filo più ricchi degli Stamford ma meno degli Holmes, che avevano i vetri! [10] la battuta e l'intera scena è una citazione dal film Return to me, con Minnie Driver e il "mio primo grande amore televisivo", David Duchovny.
   
 
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