Buon pomeriggio, e buon 1° Maggio a
tutte!
Non ho molto da dire, in questo momento,
l’ansia da prestazione mi sta giocando un brutto scherzo XD
Comunque… quello che state per leggere
è il primo capitolo della mia nuova long. Non so ancora quanti capitoli
saranno, credo che lo scoprirò mano a mano che la storia andrà avanti e… beh,
spero che voi lo scopriate insieme a me :)
Ringrazio già adesso chi leggerà e chi
vorrà lasciare il suo parere in una recensione :)
Per chi non mi conosce, ma vuole
rimanere aggiornata sulla storia o sulle altre che ho in corso, può trovarmi qui nel
mio gruppo Facebook ;)
E adesso vado via XD buona lettura :*
Capitolo uno
Bella
Porto di Genova, 11 Febbraio 1887
Osservavo
con attenzione l’enorme nave, quasi in procinto di partire, che si andava
riempiendo con l’avanzare dei minuti. Uomini, donne, bambini piccoli, ragazzi e
fanciulle si apprestavano a salire sul mezzo di trasporto, carichi di bagagli,
aiutati da assistenti e marinai.
Anche
io stavo per imitarli, essendomi ormai rassegnata all’idea di partire.
Avevo
contato i giorni che mancavano alla partenza con timore, sperando che prima o
poi mio padre cambiasse idea e che decidesse di non affrontare più il lungo viaggio,
che stava quasi per cominciare, ma avevo sperato male perché mi trovavo lì, al
porto, davanti a quel mostro di ferro che mi metteva paura.
Non
ero mai salita su una nave, e adesso che stavo per farlo avrei tanto voluto
voltarmi e fuggire dal porto per tornare a casa mia… ma mio padre non me lo
avrebbe mai permesso.
Come
se stesse percependo i miei pensieri, sentii la sua mano poggiarsi con
gentilezza sulla mia spalla e cominciare ad accarezzarla. Mi girai verso di lui
e alzai il viso, incontrando i suoi occhi scuri e così simili ai miei. Lui mi
sorrise, e nel farlo i suoi folti baffi si arricciarono, quasi.
«Cosa
ne pensi, cara?» mi chiese.
«Penso
che ho paura a salire lì sopra…» pigolai, tornando a fissare di nuovo la nave.
«Non affonderà, vero?» aggiunsi, timorosa.
Lo
feci ridere grazie alla mia domanda. «No, non affonderà, tranquilla.» si chinò
di qualche centimetro, e sentii le sue labbra che sfioravano in un bacio i miei
capelli, per poi rialzarsi. «Vieni con me, gli zii ti vogliono salutare.» mi
disse poi.
«Gli
zii? Non sono ancora andati via?» un briciolo di speranza si insinuò nel mio
petto. Forse erano rimasti perché volevano convincere papà a non farmi partire…
«No,
prima di andare vogliono salutarti.» la sua risposta mise fine alle mie
speranze.
“Non voglio partire.” Ripetei dentro la
mia testa, lasciandomi guidare da mio padre in mezzo alla folla di gente che ci
circondava. Non volevo lasciare la mia casa, i posti in cui ero nata e
cresciuta, l’odore e il sapore della mia terra… non volevo partire per
raggiungere un paese a me sconosciuto, e abbandonare così la mia famiglia.
Il
luogo dove io e papà eravamo diretti, si chiamava Brasile. Conservavo ancora
qualche nozione di geografia, grazie alle sporadiche e simpatiche lezioni che
mio zio mi aveva regalato di tanto in tanto durante gli anni, e del Brasile
sapevo solo che si trovava nelle americhe, e che era grandissimo. Forse era tre
volte più grande dell’Italia, ma non ne ero così sicura. E sapevo anche che,
per raggiungerlo, dovevamo attraversare in nave il mare e l’oceano, e
affrontare giorni e giorni di viaggio. Papà mi aveva detto che forse ci avremmo
impiegato due settimane per arrivare lì, se non tre.
Era
un sacco di tempo per un viaggio, ed io non avevo mai viaggiato così tanto in
tutta la mia vita. A dire la verità, non avevo mai viaggiato in tutta la mia
vita. Avevo sempre visto e vissuto sulla mia pelle il sole e le campagne della
Liguria, e mai avrei voluto abbandonarle per andare a vivere in un luogo così
lontano ed estraneo… ma stavo per farlo, proprio in quel momento.
«Eccoli,
sono lì.» smisi finalmente di pensare, e seguii con gli occhi la direzione che
papà stava indicandomi con l’indice: a pochissima distanza da noi, sul
marciapiede sovraffollato del porto, c’erano i miei zii.
La
famiglia che stavo lasciando in Italia, per poter raggiungere una nuova terra.
«Zio
James, zia Victoria!» urlai, allontanandomi da papà per raggiungerli correndo.
Nel farlo urtai alcune persone, ma non mi fermai per scusarmi con loro.
Zio
James sorrise non appena mi vide, allargando le braccia ed invitandomi così a prendere
posto nel mezzo. Mi strinse forte una volta che gli fui vicina, ed io ricambiai
subito la stretta sentendo gli occhi che cominciavano a pungere. Era
inevitabile piangere, e non volevo assolutamente trattenermi.
Zio
James era il marito di mia zia Victoria, la sorella di mamma: erano gli unici
parenti, oltre a papà, che mi restavano. I miei nonni non c’erano più, così
come mia madre, che non avevo mai conosciuto. Papà da bambina mi aveva
raccontato che si trovava in cielo e che vegliava sempre su di me, e quando fui
più grande capii che lei era morta dandomi alla luce. In qualche modo mi
sentivo in colpa per la sua morte, nonostante quello che mi dicevano gli altri.
Ma non potevo farci niente.
Era
stata zia Victoria ad allevarmi, insieme a papà: lei mi aveva cresciuto come se
fossi stata sua figlia, ed io le volevo bene come se fosse stata la mia vera
mamma… e adesso mi dispiaceva da morire lasciarla e partire, soprattutto adesso
che era diventata da poco mamma di un bambino dolcissimo e stupendo. Mi si
stringeva il cuore, al pensiero che forse non avrei mai potuto conoscere meglio
e veder crescere con i miei occhi il mio piccolo cuginetto.
«Ehi,
raggio di sole! Non essere triste, sarà solo una separazione momentanea.» mi
promise zio, carezzandomi la testa.
Mi
scostai giusto quel tanto che bastava per poterlo guardare meglio in viso, che
rispetto al mio sembrava divertito, ma con un piccolo accenno di stanchezza.
«Verrete in Brasile anche voi, vero? Presto?» ci speravo davvero tanto, in
questo, perché saperli così lontani era terribile, ed io non volevo stare loro
lontana.
«Un
giorno, Bella, un giorno.» a rispondermi fu la zia, che si trovava accanto a
me, ed io non me ne ero affatto resa conto.
«Zia!»
sorrisi, e allungai una mano per stringere la sua, quella libera, e nel farlo
una lacrima mi scese sulla guancia.
«Non
piangere, Bella, sai che non devi.» mormorò lei, sorridendomi. Mentre la
osservavo bene notai che aveva gli occhi lucidi, prossimi al pianto. Anche se
non lo dava a vedere, era triste almeno quanto me.
«Ma
non voglio partire, se voi restate qui!» mi lamentai un’ultima volta, nonostante
sapessi che era soltanto l’ennesimo tentativo inutile.
«Vi
raggiungeremo il prima possibile, davvero. Ma guarda, io e tuo zio abbiamo una
cosa per te!»
Scacciando
le lacrime, mi scostai per dare a zio James la possibilità di muoversi e mi
avvicinai a zia Victoria, sorridendole. Lei ricambiò e mi accarezzò piano una
spalla prima di tornare a guardare suo marito, così la imitai anche io.
Zio,
divertito, mi stava porgendo un pacchetto avvolto da una carta marrone e mi
invitava a prenderlo, così lo feci e cominciai a rigirarmelo tra le mani. Non
immaginavo che avessero voluto farmi un piccolo regalo…
«È
un set per la scrittura. Abbiamo pensato che ti avrebbe fatto piacere scrivere
e spedirci una lettera, di tanto in tanto…» mi spiegò lei.
«È…
è bellissimo, grazie.» mormorai. Non avevo ancora aperto il pacchetto, ma
sapevo che mi sarebbe piaciuto ugualmente, visto che già mi piaceva l’idea di
scrivere delle lettere e di spedirle a loro, magari ogni settimana.
«Ho
scelto bene, sapevo che ti sarebbe piaciuto!» commentò lo zio, pizzicandomi una
guancia. «Charlie! Mi raccomando, fateci sapere il prima possibile com’è andato
il viaggio…»
Lasciai
papà e zio parlare tra loro, e mi concentrai sulla quinta persona che si
trovava insieme a noi e che, in quel momento, stava dormendo beatamente tra le
braccia di sua madre, nonostante il baccano che c’era al porto. Avvolto com’era
nella copertina, riuscivo a scorgere solo una manina, il visino tranquillo ed i
pochi capelli castani di Riley.
Istintivamente
gli carezzai la piccola fronte e mi chinai per baciargliela. Mi sarebbe mancato
moltissimo, mi ero affezionata così tanto a lui in quei suoi pochi mesi di
vita. «È un bambino così bello…»
«Già,
è stupendo.» zia guardò suo figlio, innamorata persa. «Assomiglia a James, non
trovi?»
Ma
prima che potessi avere l’opportunità di rispondere, papà venne da noi e ci
interruppe. Mi guardò in maniera colpevole, sapendo com’era che la pensavo su
quel viaggio che non avevo la minima intenzione di cominciare.
«Tesoro,
è ora di andare.» mi disse mestamente.
Era
una delle poche frasi che non avrei mai voluto sentire, mai e poi mai. Annuii,
rimanendo in completo silenzio, e stringendo allo stesso tempo il pacchetto tra
le mani come se fosse in grado di darmi la forza che stavo cercando, e di cui
avevo un disperato bisogno.
Abbracciai
di nuovo mia zia, non trattenendo per nessun motivo le lacrime, prima di
tornare dallo zio e di lasciarmi stritolare dalla sua presa.
«Presto
saremo di nuovo insieme, è una promessa tesoro.» sussurrò zia, asciugandosi il
viso dalle lacrime.
«Ciao,
raggio di sole.» zio, abbracciando le spalle della moglie, mi lasciò un
buffetto sulla guancia e mi sorrise nuovamente.
Osservai
ancora per qualche istante i loro visi, tristi ma che cercavano di non darlo a
vedere, fino a quando papà non mi fece segno di andare con lui. Aveva già
recuperato i nostri bagagli, che consistevano in due valige di modeste
dimensioni, piene delle nostre cose, e con me che lo seguivo si incamminò di
nuovo verso il molo, dove c’era la nave che ci stava aspettando.
Prima
di salirci, mi girai di nuovo per vedere un’ultima volta i miei zii, ma di loro
non c’era più traccia: erano stati coperti dalla folla, e dietro di me non
c’erano altro che persone che stavano per intraprendere il mio stesso e lungo viaggio.
Con
le lacrime che mi scorrevano di nuovo copiose sul viso, e con i singhiozzi che
cercavo di trattenere, mi voltai e cominciai a percorrere la passatoia della
nave.
Ovunque
guardassi, l’unica cosa che riuscivo a vedere era il mare aperto.
Di
un blu che a tratti diventava quasi nero, il mare era l’unica cosa che ci
circondava: la terraferma non si scorgeva già più. E tutta quell’acqua, così
profonda e di cui avevo così tanta paura, mi faceva capire che la mia vita
stava per prendere una piega diversa rispetto a quella che avevo sempre visto e
vissuto.
E
questo cambiamento così improvviso mi spaventava a morte.
Avevo
il terrore di scoprire come fosse in realtà il luogo in cui stavo andando.
Sapevo, tramite le informazioni che papà aveva racimolato, che il Brasile era
una terra baciata dal sole e fertile, ricca di risorse, e dove le possibilità
di lavorare e di avere un tenore di vita migliore erano molto più alte,
rispetto a quelle che avevamo in Italia.
Lì,
purtroppo, le condizioni di vita non erano molto buone. Anche se avevamo la
terra da coltivare riuscivamo a stento a sostentarci, e prima di noi moltissimi
nostri amici e conoscenti erano già partiti in cerca di fortuna, chi negli
Stati Uniti e chi, come noi, in Brasile.
Papà
si era lasciato convincere a partire grazie ad un suo vecchio e caro amico, e
ormai erano anni che si trovava in quel paese. Io non lo avevo mai conosciuto,
e papà mi aveva raccontato che era partito insieme ai suoi genitori quando era
poco più di un bambino… ma si erano sempre tenuti in contatto, anche se le
lettere arrivavano a distanza di mesi, qualche volta anche anni.
Sapevo
anche che l’amico di papà era diventato ricco, e che adesso era il proprietario di
una vasta terra dove si coltivava caffè. Il caffè, a quanto sembrava, era la
coltura più importante e coltivata di tutto il paese.
E
io e papà, una volta arrivati lì, avremmo lavorato nella sua terra. E questa
era una delle poche cose che non sarebbero cambiate laggiù, perché sin da
quanto ricordassi io avevo sempre lavorato nei campi. A casa curavo l’orto,
raccoglievo la frutta e alcune volte lavoravo nelle vigne dei nostri vicini,
anche se non era il periodo della vendemmia.
Sospirai,
poggiando le mani sul parapetto in ferro della nave: erano ormai diverse ore
che mi trovavo lì, con il vento freddo che mi colpiva in viso e che mi
scompigliava i lunghi capelli, e che ogni volta mi faceva rabbrividire. Il
sole, alto nel cielo, non aiutava molto nello scaldarmi, ma dopotutto era ancora
il mese di Febbraio, ed era normale che facesse freddo.
Mi
ero allontanata da papà qualche minuto dopo la partenza, sentendo l’assoluto
bisogno di stare da sola e di sfogare tutta la tristezza che sentivo dentro al
petto, e tutte le lacrime che ancora non avevo pianto. Ma prima di farlo, avevo
riposto il pacchetto all’interno della mia valigia per paura che potesse
rovinarsi.
Avevo
aperto il regalo dei miei zii, spinta dalla curiosità nello scoprire quello che
si celava dietro quella carta. Era, come mi avevano spiegato, un set per la
scrittura: c’erano dei fogli dalla fattura pregiata e alcune buste da lettere dello
stesso tipo, che avrei utilizzato quando volevo spedire una lettera in Italia.
C’erano anche una boccetta di inchiostro e un pennino… ed era tutto così bello
e elaborato che capii che doveva essere costato molto.
Gli
zii dovevano aver fatto molti sacrifici per acquistarlo, per regalarlo a me, e
purtroppo non possedevano molto denaro.
Mi
strinsi nello scialle di lana che avevo sulle spalle, osservando la distesa di
acqua che sembrava non avere più fine. Si notava a malapena il punto in cui il
mare si univa al cielo. Eravamo partiti da pochissime ore, e già desideravo che
quel viaggio finisse. Due settimane sulla nave erano così lunghe, e volevo
disperatamente rimettere i piedi sulla terraferma.
Non
ero una grande amante dei viaggi via mare, e lo avevo già capito grazie a
queste prime ore di traversata.
«Ah,
Bella, sei qui.» ero ancora impegnata a contemplare il mare quando papà mi
raggiunse. Doveva aver pensato che fossi stata sola abbastanza a lungo da voler
desiderare un po’ di compagnia.
Annuii,
tracciando con le dita alcune linee indefinite sul parapetto. Mi girai,
osservando ad occhi bassi le braccia di papà che erano così vicine alle mie. Adesso,
lui era l’unica persona su cui potessi fare affidamento per qualsiasi cosa. Era
la mia unica ancora…
«Bello,
vero? Tutto questo mare…» mormorò, sorridendo, mentre scrutava attentamente
l’orizzonte. Abbassò lo sguardo e si accigliò quando notò che lo stavo
osservando. «Tesoro, hai pianto? Hai gli occhi molto arrossati.»
Subito
li strofinai con una mano, distogliendo lo sguardo dal suo. «Non sono riuscita
a trattenermi, papà.» sussurrai, talmente piano da credere che non mi avesse
sentita.
Subito
le sue braccia mi circondarono e mi strinsero contro il suo petto, e lo sentii
sospirare. «Bambina mia, so che per te è difficile…»
«E
allora perché siamo andati via?» domandai, forse ancora più piano di prima.
Papà
sospirò di nuovo. «Perché così abbiamo la possibilità di avere una vita
migliore, rispetto a quella che stavamo vivendo in Italia. Credimi, dispiace
anche a me essere andato via, ma voglio fare tutto quello che è nelle mie
possibilità per regalarti un futuro migliore.»
Sapevo
già che questa era una delle motivazioni, forse la più importante, che lo
avevano spinto a partire e a lasciare la nostra terra: la possibilità di darmi
tutto quello che in Italia invece faticava a donarmi, ed ero grata a lui per
tutti gli sforzi che faceva per me.
Alzai
il viso, guardandolo di nuovo. «Ma papà, io sono felice, anche con le poche
cose che abbiamo…»
«Lo
so, Bella, lo so… ma sembrerei egoista, se volessi regalare alla mia bambina
tutto quello che desidera e che invece non può avere? Una vita bella, agiata,
piena e soddisfacente…»
«Oh,
papà!» lo strinsi forte, soffocando un singhiozzo sul suo petto.
Restammo
per un po’ in silenzio, estranei a tutto il resto, concentrandoci su quel
momento così intenso ed importante. Scostai il viso per guardare di nuovo il
mare aperto, scoprendo che era diventato ancora più blu di prima. La luce del
sole faceva brillare tutta la superficie come se fosse uno specchio, uno
specchio enorme e quasi senza fine.
«Papà…»
«Sì,
tesoro?» mi osservò, aspettando che continuassi a parlare.
Battei
un paio di volte le palpebre, concentrandomi sui suoi occhi scuri. «Il signor
Carlisle ci aiuterà?» chiesi.
Carlisle
Cullen, era il nome dell’amico d’infanzia di papà. Lo avevo sentito nominare
così tante volte che ormai era come se lo conoscessi da sempre, anche se non lo
avevo mai visto di persona e non sapevo che aspetto avesse. Ma ogni volta che
pensavo a lui, e al suo nome, vedevo nella mia mente un uomo panciuto e ben vestito,
con i capelli grigi e la pelle ambrata, come chi è abituato a trascorrere ore e
ore sotto il sole cocente. Ed in più lo immaginavo come una persona gentile,
perché solo chi è gentile e altruista poteva aiutare un vecchio amico che non
vedeva più da moltissimi anni.
«Sì,
tesoro, ci aiuterà.» mi rispose, baciandomi i capelli. «E’ stato lui a propormi
di partire, e non è la prima volta che lo fa. Sono anni che ci prova, e ancora
mi stupisco che non abbia perso la pazienza dopo tutti i miei rifiuti!» rise,
scuotendo la testa.
Mi
scappò un sorriso. «E alla fine hai accettato…»
«Sì,
ho accettato. Credimi, non so che darei per vedere la faccia che ha fatto il
vecchio Carl quando ha ricevuto la mia lettera!» rise di nuovo. «La sua
risposta è arrivata prima del previsto, credo che non volesse perdere tempo e
comunicarmi il prima possibile che mi avrebbe aspettato, e che voleva che
partissi il prima possibile.»
Non
dissi nulla, presa com’ero ad ascoltarlo parlare. Si capiva benissimo che lui e
il suo amico erano ancora molto legati e che per loro quel ricongiungimento
significava molto. E capii che ero stata egoista ad oppormi a quel viaggio,
solo perché non volevo lasciare gli zii e la nostra casa… non avevo capito che
papà ci teneva così tanto, e che per lui significava molto raggiungere il
Brasile.
«Sai,
ci siamo sempre raccontati tutto, grazie alle lettere. Io ho detto a lui che mi
sono sposato e che ho avuto te, la mia bambina speciale… e Carlisle mi ha raccontato
di aver trovato una moglie meravigliosa che le ha donato tre figli altrettanto
meravigliosi. Parole sue!»
«Tre
figli?» non avevo mai considerato quell’aspetto della vita di Carlisle.
«Sì,
tre figli. I maschi sono i più grandi, e sono gemelli, ma a quanto sembra non
si somigliano per niente! E poi c’è la più piccola, ha la tua età più o meno…
potrebbe diventare tua amica.»
Un’amica…
a questo non avevo proprio pensato. «Sì, penso che potremmo diventarlo.»
«E
poi Carlisle mi ha detto che lì, in Brasile, l’inverno non esiste per niente!
C’è sempre il sole, e fa sempre caldo… non ha nevicato neanche una volta, da
quando lui si trova lì. E questo particolare penso che ti piacerà molto, so che
non ami molto il freddo.» mi pizzicò il naso, ridendo.
Risi
insieme a lui.
Dopotutto,
da come me lo stava descrivendo, non sembrava così male vivere in Brasile.
Edward
Fazenda ‘Paraíso’, 20 febbraio 1887
La
vita nella fazenda era, come sempre, movimentata e frenetica.
Il
lavoro era sempre molto, sia se si svolgeva nei campi di caffè e sia se si
svolgeva all’interno dei magazzini, dove veniva stipato il raccolto; una buona
parte del lavoro si svolgeva anche in casa e nei suoi paraggi, grazie all’orto
e al piccolo pollaio che erano situati lì.
Non
si poteva certo dire che morivamo di noia: c’era sempre così tanto da fare da
mantenersi impegnati per la gran parte del giorno. Specialmente durante questi
ultimi giorni, dove il lavoro si era intensificato, ma non a causa delle
piantagioni, o per il raccolto… per quello, era ancora troppo presto.
Era
per via di una notizia, che papà aveva comunicato a me e a tutta la famiglia, e
che ci aveva colti tutti alla sprovvista: stavano per arrivare due ospiti alla
fazenda, due ospiti che avrebbero vissuto insieme a noi a tempo indeterminato.
A
quanto sembrava, il vecchio amico di papà, un italiano di nome Charlie Swan,
aveva finalmente deciso di accettare il suo invito e di venire a vivere in
Brasile. Con lui sarebbe arrivata anche sua figlia, una ragazza di nome
Isabella.
Lui
ci aveva spiegato che per loro vivere in Italia, la loro patria, nonché quella
di mio padre, stava diventando sempre più difficile, e che speravano di
cominciare una nuova vita nel nuovo continente. Papà si era offerto di
ospitarli fino a quando non si sarebbero ambientati e sistemati, e nel
frattempo avrebbero lavorato insieme a noi nella fazenda.
Così,
di lì a poche settimane avremmo avuto due nuovi ospiti in casa, e due nuovi
aiutanti, cosa che non dispiaceva: la fazenda era grande, il lavoro molto, e
quattro mani in più facevano sempre comodo. Però, a differenza di papà, io non
ero molto convinto di questo improvviso cambiamento.
Avevo
come il presentimento che tutto questo non fosse una buona idea. Certo,
rispettavo mio padre e sapevo che il suo gesto di generosità, rivolto al suo
amico di cui ci aveva così tanto parlato durante gli anni, era fatto in buona
fede… ma non riuscivo comunque a convincermene.
Forse,
una volta aver conosciuto Charlie Swan e sua figlia, sarei finalmente riuscito
a cambiare idea… ma per adesso, non ci riuscivo.
«Edward,
posso?»
Alice,
mia sorella, mi raggiunse sul portico di casa, dove io mi ero rifugiato per
sfuggire un po’ ai lavori nei campi e per godere di un po’ di riposo. Sapevo
che non sarebbe durato per molto, però: una decina di minuti, quindici al
massimo, e poi sarei scappato di nuovo via.
Mi
voltai verso di lei e le sorrisi, facendole un breve cenno per invitarla ad
avvicinarsi. Lei, sorridendo subito, si staccò dalla parete dove si era
poggiata e si sistemò a sedere accanto a me, su uno dei gradini del portico.
Le
carezzai i capelli scuri, divertito; mi piaceva sempre molto stare in compagnia
di mia sorella. Era la piccola di casa, e l’unica figlia femmina, la più
coccolata e viziata… ma nonostante questo, era dolce e sensibile. Tutto il
contrario di molte altre ragazze della sua età.
«Che
cos’hai, lì?» le chiesi, notando il mucchietto di stoffe bianche che si era
sistemata in grembo.
Scrollando
le spalle, gettò ad esse una veloce occhiata. «La mamma mi ha chiesto di
ricamare questi asciugamani… sono per Isabella.»
Aggrottai
le sopracciglia; dal modo in cui mi aveva risposto, sembrava che quel compito
non le piacesse affatto. «Non ti va di ricamarli?» le domandai allora.
«No,
non è per questo!» mi rispose subito, agitandosi. «Vedi, è che mi sembra strana
questa storia del ricamare gli asciugamani per Isabella, intendo… voglio dire,
mamma non mi aveva mai chiesto di farlo prima, anche quando avevamo degli
ospiti in casa.»
«Beh,
forse vuole solo essere gentile. Isabella e Charlie, dopotutto, vivranno
insieme a noi per un bel periodo.»
Alice,
dopo che ebbi terminato di parlare, abbassò lo sguardo e cominciò a strofinare
le dita sulle stoffe bianche, come se fosse sovrappensiero. Una lunga ciocca di
capelli corvini, sfuggiti al nastro che teneva legato sui capelli, le ricadde
davanti al viso e lei lo scacciò via, quasi scocciata.
«Ma
tu che ne pensi del loro arrivo?» mi chiese allora, voltandosi di scatto verso
di me. «Non sarà stata una mossa… troppo azzardata?»
Scossi
la testa, poggiando le mani dietro di me e chinandomi all’indietro. «Non credo.
Vedi, Alice, il gesto di papà è stato molto altruista e generoso… ha deciso di
aiutare e di ospitare in casa sua il suo vecchio amico d’infanzia e sua figlia,
in pochi al posto suo lo avrebbero fatto. E poi ha detto che sono delle brave
persone, e mi fido del suo giudizio… non penso che sia stata una scelta
sbagliata.» continuai a fissare mia sorella, mordendomi l’interno della
guancia. «Isabella ha la tua età, più o meno… potreste diventare buone amiche,
anche papà la pensa allo stesso modo.»
Le
guance di Alice si imporporarono tutto d’un tratto, e un piccolo sorriso le
animò il viso; diventava ancora più tenera, quando si imbarazzava. «Non ho mai
avuto un amica…» mormorò, grattandosi una guancia.
«Vedi?
Questa è l’occasione giusta per rimediare!» scherzai, e tornai a sedermi per
abbracciarla e per lasciarle un piccolo bacio sulla tempia. «Portai aiutarla ad
ambientarsi qui, e per insegnarle la nostra lingua… altrimenti sarà un po’
difficile per voi parlare, non trovi?»
Una
piccola risata le uscì dalle labbra. «Credo proprio di sì…»
Le
sorrisi di nuovo, le lasciai una carezza sulla spalla e, infine, mi alzai: era
arrivato il momento di tornare di nuovo ai miei doveri, e al lavoro nei campi.
«A più tardi, sorellina.» la salutai.
Lei
sorrise e, restando in silenzio, mi salutò agitando la mano prima di gettarsi a
capofitto nel suo compito di ricamo. Sembrava più tranquilla, dopo la nostra
piccola chiacchierata.
Bella
27 febbraio 1887
Un
nuovo giorno di viaggio era appena cominciato. Era il sedicesimo, per essere proprio
precisa.
Durante
questi giorni avevo cominciato a scrivere una sorta di diario personale, dove
annotavo tutto quello che accadeva sulla nave e tutte le varie sensazioni che
provavo mano a mano che il viaggio continuava. Scrivevo tutto su un vecchio
quaderno che avevo trovato tra i miei bagagli, e che non ricordavo affatto di
aver preso. Ma alla fine ero stata contenta di averlo trovato: scrivere mi teneva
compagnia per la maggior parte del tempo.
Non
che la compagnia mancasse, sulla nave. Eravamo più di mille persone, tutte
dirette in Brasile, e c’erano molti miei coetanei. Spesso mi ritrovavo a
parlare con alcune ragazze, che erano poco più grandi di me, ma alla fine l’età
non significava molto quando ci ritrovavamo tutti là sopra, con gli amici e i
parenti lontani.
In
questi giorni, tutti ci eravamo impegnati e avevamo cominciato ad esercitarci
con il portoghese, la lingua che si parlava in Brasile, ma nonostante tutto io
ero riuscita ad imparare solo le basi e le frasi che venivano utilizzate più
spesso. Papà mi aveva rassicurata, dicendomi che una volta arrivati avrei avuto
tutto il tempo di impararla meglio e di interagire con le persone del posto per
capirla alla perfezione.
Sperai
che avesse ragione.
E
ormai non mancava più così tanto al nostro arrivo… anzi, mancava davvero poco.
Il clima invernale ci aveva pian piano abbandonato e adesso intorno a noi si
respirava aria di primavera, ma poteva anche passare per un principio di
estate. Faceva caldo, e ben presto il mio caldo scialle di lana era stato
riposto nella valigia, insieme agli abiti più pesanti, sostituiti da quei
abitini leggeri che indossavo durante il periodo estivo in Italia.
Papà
aveva ragione: in Brasile non sembrava essere davvero inverno, e forse non
avrei mai più risentito sulla mia pelle quel freddo intenso e pungente che
odiavo tanto, e che rendeva più cupi e tristi i paesaggi durante quei mesi
invernali.
Pian
piano avevo accettato il fatto di aver lasciato in Italia la mia vecchia vita e
di starne per cominciare una nuova in Brasile, ma la tristezza, concentrata
tutta nel mio cuore, c’era ancora. Ero triste perché avrei tanto voluto avere
anche gli zii insieme a me e a papà, come una famiglia. Le famiglie non devono
dividersi per nessun motivo al mondo, e adesso era come se sentissi che avevo
lasciato una parte importante di me, una parte che non potevo dimenticare o
rimpiazzare facilmente, su due piedi.
Ma
mi avevano promesso che presto sarebbero partiti anche loro e ci avrebbero
raggiunto, che la nostra era solo una separazione momentanea… questo pensiero
mi rendeva meno triste, ma non del tutto felice.
Smisi
di annotare gli ultimi appunti sul mio diario improvvisato, e alzai la testa
per puntare gli occhi lontano, verso l’orizzonte. Il sole forte e brillante mi
costrinse a portare una mano sulla fronte per ripararmi da tutta quella luce.
Subito, notai una cosa che prima non c’era e che mi incuriosì molto… ma era
così lontana che non riuscivo a capire bene cosa fosse.
Mi
alzai il piedi, e continuando a guardare verso quel punto lontano mi incamminai
lungo il ponte della nave. Volevo raggiungere i membri dell’equipaggio, che
spesso si riunivano sempre in gruppo nei pressi della prua e con cui avevo
parlato spesso, in cerca di informazioni sulla durata del viaggio o su altro.
Erano sempre gentili, e neanche una volta avevano mostrato fastidio per le mie
domande, che ponevo più spesso di quanto avrei voluto in realtà.
Mi
strinsi il piccolo quaderno contro il petto e sospirai, continuando a
camminare. Accelerai il passo quando intravidi la figura di Antonio, uno dei
sottoufficiali con cui avevo stretto una debole amicizia. Stava fumando una
sigaretta, da solo, e sperai davvero di non disturbarlo.
«Antonio?»
lo chiamai piano, mentre mi avvicinavo.
Lui
si voltò verso di me come mi sentì, e mi sorrise. La sua barba grigia
nascondeva quasi del tutto le labbra, ma si vedeva benissimo che non era
scocciato dal mio arrivo. «Ciao Isabella!» mi salutò, e gettò via la sigaretta
anche se sembrava essere stata accesa da poco. «Non ti avevo ancora visto,
oggi… va tutto bene?»
Arrossii,
annuendo. «Sì, va tutto bene, grazie.»
«Ne
sono felice.» Antonio mi sorrise di nuovo. «Sei venuta per sapere come procede
la navigazione?»
Risi:
ormai sapeva alla perfezione cosa mi spingesse a cercare lui, o i suoi
colleghi. «Sì, ma volevo chiederti anche un'altra cosa…»
«Ti
ascolto, dimmi tutto.»
Mi
schiarii la gola. «Ecco… ho notato che laggiù si scorge qualcosa, ma non riesco
a capire cosa sia, di preciso.» gli spiegai, e allungai un braccio per
indicargli il punto preciso. «Vedi? Laggiù.»
Antonio
seguì i miei movimenti, poggiando le mani sul parapetto. «Quello lì, dici?» al
mio cenno di assenso, continuò. «Quello è il Brasile, Bella. Siamo quasi
arrivati.»
Sgranai
gli occhi per la sorpresa. Eravamo quasi arrivati! Avevo atteso così tanto
questo momento che adesso quasi non ci volevo credere. «Siamo quasi arrivati?
Davvero?» domandai, stupita.
Lui
rise, vedendo la mia reazione. «Sì, ormai manca davvero poco. Un paio d’ore,
massimo tre, e arriveremo al porto di San Paolo.» mi sorrise, avvicinandosi a
me e lasciandomi un leggero pizzico sulla guancia. «Ti consiglio di andare a
sistemare le tue cose, piccina.»
«Grazie
molte, Antonio, corro subito!» strinsi lievemente la sua mano e poi scappai
via, contenta per quello che avevo saputo.
Eravamo
quasi arrivati! Nel giro di poche ore sarei scesa dalla nave e avrei visto con
i miei occhi la nuova terra che mi avrebbe adottata, e in cui avrei vissuto da
quel momento in avanti.
Corsi
lungo il ponte per tornare dagli altri passeggeri, che si trovavano poco
lontano. Dovevo assolutamente trovare mio padre e dirgli che presto saremmo
arrivati in Brasile, e dal suo amico che ci stava aspettando da così tanto
tempo.
Ben
presto mi ritrovai circondata dai miei connazionali, che cantavano, ballavano e
che si divertivano come solo loro sapevano fare. Erano sempre così allegri e
felici, nonostante tutti i problemi e i dispiaceri che la vita aveva dato loro
da affrontare.
Riuscii
a scorgere mio padre, impegnato a parlare insieme a un gruppo di signori con
cui aveva stretto amicizia durante quei giorni, e lo raggiunsi ignorando i
canti e i balli che mi circondavano. Mi buttai addosso a lui, abbracciandolo.
«Ehi,
Bella!» protestò lui bonariamente, facendo ridere tutti gli altri.
Sorrisi,
alzando lo sguardo. «Ciao papà!»
«La
piccola Isabella va sempre di fretta!» commentò il signor Rodolfo, ridendo.
«Già,
sempre di fretta. Devi dirmi qualcosa, tesoro?» papà scrutò attentamente il mio
viso, in cerca di informazioni.
Annuii.
«Ho appena parlato con Antonio, il sottoufficiale… siamo quasi arrivati, papà!
Manca pochissimo.»