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Autore: _Ella_    06/05/2013    3 recensioni
«Riku» sussurrò, e non fu sicuro che quella fosse la sua voce – gli era parsa diversa, più infantile, più squillante – e probabilmente anche lui se ne rese conto, perché gli afferrò fulmineo il braccio, tirandoselo vicino e costringendolo ad una posizione innaturale – sentiva i muscoli bruciare, i tendini tirare, ma tutto quello che riuscì a fare fu restare in silenzio mentre lasciava affondare gli occhi nei suoi.
[RikuRoku - AkuRoku e RiSo implicite]
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Riku, Roxas
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: KH 358/2 Days
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Patch: temporary solution

 

Giorno 51: Tutti morti;
“Non è facile accettare che Axel sia morto.
Avverto una strana sensazione, mai provata prima, come di… soffocamento.
Non saprei come definirla”

 
 

Giorno 52 (meno diciannove): Gelato da solo;
«Anche tu mi ricordi qualcuno» disse, ed il leggero respiro era meno di un soffio, meno di un battito d’ali.
«Qualcuno d’importante?» gli chiese e lui annuì, impercettibile come tutta la sua effimera esistenza.
«Avrei voluto… baciarlo, prima che andasse via».
«Anche io» aggiunse dopo un momento. Non gli aveva dato neppure il tempo di richiudere le labbra – quanto tempo aveva già perso? Quanto? «Anche io».

 
 

 

Giorno 61 (meno dieci);

Twilight Town non era cambiata e non era cambiato neppure il tramonto, perché il suo rosso intenso e le sfumature dell’arancio e del giallo erano identiche a quelle di tutti gli altri giorni  – eterno, il cielo di quella città che bruciava era eterno – ma Roxas non riusciva, pur concentrandosi perfettamente e strizzando gli occhi per tirare fuori quello spirito d’osservazione che il Numero II aveva decantato tanto, a trovare una singola cosa uguale alle settimane precedenti.
Il gelato salmastro aveva un sapore diverso, il crepuscolo era diverso, era diversa l’aria ed era diverso il paesaggio, erano diverse le persone che osservava dall’alto della Torre dell’Orologio, ed era diverso lui. Forse era per questo che tutto gli sembrava essere cambiato.
Distese il braccio in avanti, e strinse la presa della manina fasciata dal latex nero nel vuoto, afferrando l’aria – il pugno scuro coprì la figura del sole, lasciando visibili soltanto i bordi tremolanti. Condusse lentamente la mano contro il petto, allentando la presa delle dita fino ad aprire tutto il palmo: fissò la mano vuota con una leggera delusione, ed abbassò le palpebre tinte di scarlatto.
Roxas sospirò, e si chiese perché le sue mani non riuscissero a catturare la luce come facevano i suoi occhi, per quanto si sforzasse e provasse: gli sarebbe piaciuto portare un raggio di quel sole nella camera al Castello, per ricordarsi in ogni istante dei momenti trascorsi a guardare il tramonto con Xion e con Axel.
Chissà le persone vive come facevano ad incontrare quelle trapassate. Magari per loro Nessuno era lo stesso.
«Non può mancarti».
Riku diceva spesso cose che già sapeva, ma che non corrispondevano mai a verità. Girò il viso verso di lui, alla sua destra, e sentì una strana morsa alla gola quando ragionò che anche Axel sedeva sempre lì, steso con la schiena contro le piastrelle polverose e le braccia sotto la nuca.
«Perché a te può mancare e a me no?».
«Io non sono un Nessuno».
Roxas aprì di nuovo il palmo nero, fissando il niente che c’era. Anche loro avevano niente. «Se… sapevi che ti sarebbe mancato» mormorò, lento, inseguendo il pensiero che la sua testa stava formulando. «Perché hai lasciato che andasse?» trattenne il respiro, seguendo con lo sguardo i riflessi della luce aranciata tingere quei capelli che sapeva essere bianchi. «Se avessi saputo che faceva così… così male io non…».
Avrebbe mai potuto ribellarsi agli ordini di Saïx? Avrebbe mai potuto convincere Axel a non andare via?
Distolse lo sguardo dal viso di Riku, quando capì che non avrebbe risposto. Avrebbe voluto guardarlo negli occhi, avrebbe voluto vederne il colore, e scorgere le emozioni per cercare di capire almeno un po’ che cosa fossero. Ma rimase in silenzio, la mascella contratta e il gomito destro posato sul ginocchio della gamba che teneva piegata contro il petto.
Riku gli aveva detto che avevano la stessa età, più o meno. Eppure Roxas aveva notato in lui quella durezza nei tratti che aveva visto anche in Axel, e non riusciva a smettere di pensare che la sua voce fosse più intensa della propria – si sentiva ancora un po’ bambino, per questo.
«Da quanto tempo?» gli chiese, lasciando dondolare un po’ le gambe nel vuoto.
«Due mesi, quasi».
Sessanta giorni. Erano passati sessanta giorni da quando era stato preso nell’Organizzazione. Dieci giorni da quando Axel era morto. Trentotto giorni da quando era partito per Oblivion Castle. «L’hai rivisto?».
«Le persone morte non si possono più incontrare, Roxas» disse, freddo, distaccato – era come se la cosa non lo toccasse, come se la cosa non riguardasse anche lui. Era come se la persona che non aveva potuto né stringere e neppure baciare un giorno sarebbe ritornata per lasciarsi abbracciare e baciare per sempre. Deglutì, e Riku gli posò una mano sulla guancia, delicato, come per scusarsi di quel dolore che di fatto non avrebbe mai potuto procurargli. «Mi dispiace, Roxas» disse a bassa voce, come se fosse un segreto tra di loro.
Tenne gli occhi bassi, percependo una sorta di consolazione del tocco rude ed aspro della pelle artificiale dei suoi guanti neri contro quella della guancia. S’umettò le labbra, scrollando le spalle minute. «Non importa, Riku».
Non lo aveva mai visto a Twilight Town, se non il giorno stesso in cui l’aveva incontrato. Era successo in uno dei tanti vicoletti secondari della città in cui non puoi trovarci nient’altro che Heartless di piccola taglia, ombre più fastidiose che pericolose; eppure Roxas quel giorno era stato troppo distratto e debole anche per loro, e si stava lasciando inghiottire dalla innaturalezza dei loro enormi occhi gialli, spaventato, distrutto, senza avere neppure la forza per evocare il Keyblade e difendersi. Era stato in quel momento che un’altra lama non dissimile dalla propria aveva tagliato in due quei corpi, ed una figura incappucciata gli si era parata di fronte: Riku si era tolto il cappuccio, e la chioma incolore era scivolata sul petto, la frangia aveva coperto i suoi occhi come se quella benda non bastasse, come se avesse bisogno di nascondersi ancora più del necessario.
Roxas si era chiesto perché indossasse la divisa dell’Organizzazione. Si era chiesto come fosse possibile che si sentisse il suo sguardo puntato sul viso probabilmente ancora pallido, e si era chiesto anche se avesse dovuto reagire, combattere, se avesse dovuto difendersi. Tutto quello che riuscì a fare fu rilassare le membra stanche contro la parete su cui era poggiato, scivolando fino in terra ed esalando un sospiro tremulo, socchiudendo gli occhi.
Aveva sentito le sue braccia stringerlo, poco dopo. Aveva sentito che lo sollevava e lo teneva contro il petto, ed anche se era uno sconosciuto che probabilmente non aveva le migliori intenzioni del mondo, Roxas si era sentito al sicuro. Aveva sentito un odore pungente che ricordava la salsedine, aveva sentito l’eco di risate, aveva visto pomeriggi soleggiati, e allora tutto quello che aveva potuto fare era stato tenere la guancia contro la sua spalla, chiudere definitivamente gli occhi e lasciarsi cullare, perché si sentiva sicuro.
Era stata la prima volta che si era sentito a casa nelle braccia di qualcuno che non fosse Axel.
Ed era così anche ora, era così. Perché Riku continuava a carezzargli la guancia, e scrutando il suo viso Roxas si rendeva conto che sentiva davvero il bisogno di guardarlo negli occhi, perché era come se gli mancasse qualcosa, un pezzo importante, un tassello senza il quale l’intero puzzle non avrebbe avuto senso.
Tenne le labbra schiuse, respirando in silenzio.
«Mi manca, Riku. Anche se sono un Nessuno» gli mancava come gli mancavano quegli occhi che non gli mostrava, e non riusciva davvero a capire quale fosse il motivo.
«Anche a me manca molto, Roxas» le sue dita gli sfiorarono le labbra, disegnandone il contorno, ma lui si scostò, dopo un breve attimo che s’era lasciato catturare dalla morbidezza di quel gesto.
Axel non l’aveva mai toccato così. Tendeva sempre ad ammaliarlo coi suoi modi di fare, a catturarlo col suo sguardo ferino, e tutte quelle volte che c’era stato un contatto era sempre stato brusco, doloroso, eppure Roxas ne sentiva mortalmente mancanza: Riku lo stava toccando come se avesse paura che potesse scappare – l’aveva fatto, lui era sfuggito a quella carezza, dopotutto – mentre Axel lo afferrava e stringeva proprio perché sapeva che sarebbe sfuggito, e non gli aveva mai lasciato la possibilità di replicare.
La persona che Riku amava doveva essere qualcuno molto facile da spaventare, o che si poteva addomesticare facilmente, considerò.
Umettò le labbra con la lingua, scuotendo piano il viso per scostare i ciuffi che gli ricadevano sugli occhi. Riku non sarebbe mai riuscito ad essere un sostituto di Axel, perché erano così diversi – ma non opposti, perché non riuscivano a completarsi – ma forse al posto di quella benda nera Roxas avrebbe potuto immaginare due occhi di un verde acceso, ed avrebbe potuto considerare quei capelli bianchi come un foglio su cui disegnare delle ciocche rosse.
Puntò gli occhi sul tramonto immobile prima di alzarsi, cercando di non sbilanciarsi e cadere di sotto – magari sarebbe stato meglio, forse sì.
«Devo andare, Riku» disse, allungando il braccio per aprire un Varco Oscuro. «Ci… vediamo, suppongo» Riku annuì, il viso rivolto di fronte a sé, e quando Roxas capì che non avrebbe aggiunto altro, si lasciò avvolgere dalle lingue scure del passaggio, sparendo nel Corridoio.
 


Giorno 65 (meno sei);

Il cielo tinto dal tramonto non sembrava poi così rosso, se lo si guardava dalla penombra regalata dagli alberi del Bosco di Twilight Town. La luce era meno intensa, e filtrava tra i buchi sparsi tra il fogliame fitto, creando delle minuscole macchie di luce sparse che gli baciavano il viso, delicate e bianche come delle farfalle.
Roxas ansimò appena, stanco dopo aver passato l’intera mattinata ad inseguire un branco di Heartless, e poggiando la schiena ad un tronco si lasciò scivolare sull’erba, abbandonandosi completamente: abbassò lo sguardo sul lungo cappotto nero, dove gli schizzi di sole gli lasciavano delle macchie dorate, e si chiese se un giorno quella luce gli sarebbe appartenuta.
Sfilò via i guanti, tirandoli coi denti, e sfiorò i fili d’erba umida che gli solleticarono piacevolmente i palmi, strappandogli un piccolo sorriso: era un sollievo sentire quel fresco sulle vesciche e sui calli delle mani come se fosse un gentile bacio di guarigione – aveva visto le mamme di quella cittadina farlo coi figli, quando cadevano e si scorticavano le ginocchia, ed anche se un momento prima avevano gli occhi piedi di lacrime subito dopo non piangevano più, come per magia. Probabilmente anche tutto il dolore e l’ansia che gli scorticavano lo stomaco – se avesse avuto un cuore gliel’avrebbe corroso con l’acido – sarebbe potuto andare via con un bacio, magari anche solo accennato, magari anche solo un abbraccio, un sorriso, una stretta di mano, una carezza, uno sguardo. Sospirò, e socchiudendo gli occhi strinse nei pugni l’erba, strisciando le dita contro il terreno che inevitabilmente gli andò a finire sotto le unghie corte, imbrattando la sottile mezzaluna bianca di nero.
Stava quasi per appisolarsi, rilassato, quando lo scrocchio di una radice spezzata gli fece tendere ed acuire i sensi – un passo, poi un altro, troppo regolari e calmi per essere quelli di un Heartless pronto ad attaccare. Schiuse lentamente il palmo destro, e cercando di regolarizzare i battiti del cuore per rimanere il più calmo possibile, pronto a richiamare la Chiave e difendersi dal possibile attacco – i nervi erano tesi tanto da essere scoperti come le radici degli alberi lì al Bosco, fragili, il respiro ormai trasformato in un soffio per poter ascoltare.
«Sono io, Roxas» quando la voce di Riku gli arrivò alle orecchie poté finalmente rilassarsi, e girandosi per guardarlo lo trovò appena qualche metro più in là che si avvicinava, cauto ma non spaventato – era un predatore, camminava lentamente solo per avere tutto sotto controllo quando lo avrebbe raggiunto, non perché fosse intimidito. Era uno di quegli atteggiamenti che Roxas era riuscito subito a notare, una delle poche cose che traspariva immediatamente dei suoi modi di fare, per il resto aveva capito meno di zero. Probabilmente non avrebbe mai capito nulla. «Fa’ vedere le mani» si abbassò, sedendoglisi accanto e porgendogli la mano col palmo aperto dopo essersi sfilato via il guanto. «Devi aver lavorato parecchio».
Scrollò le spalle, poggiando noncurante la mano sulla sua, il palmo rovinato rivolto verso l’alto per lasciarglielo guardare. «Solo poco più del solito» disse, poi rimase in silenzio, mentre i suoi polpastrelli gli tracciarono delle linee ondeggianti sul dorso della mano, soffermandosi sulle ferite che vezzeggiò delicatamente. Roxas si disse che i baci della guarigione dovevano essere piacevoli allo stesso modo.
«Ti fanno male?».
Roxas annuì. «Basterà una Pozione, andranno via in un attimo» tenne gli occhi puntati sulle loro mani, prima di ritirare la propria. «Perché porti quella benda, Riku? Vorrei guardarti negli occhi».
Lo sentì fremere – uno scatto involontario, leggero, netto ed impercettibile come una sottile scossa, il leggero tremito che scuoteva il corpo prima che venisse la pelle d’oca. Aveva creduto chissà per quale ragione che Riku potesse trattenere ogni singola reazione del corpo, che avesse ghiacciato i nervi ed i muscoli e le ossa per lasciarle immutabili ed identiche attimo per attimo. Poi portò le mani tra i capelli, e scostando le ciocche bianche che ricadevano sul tessuto lucido e nero della benda sciolse il nodo – tirò i lembi, e Roxas deglutì lentamente, sentendo la lingua quasi estranea, pesante, pietrificata, e la saliva gli graffiò la gola e la squartò, pizzicando come mille spilli, lame acuminate.
Roxas impallidì, quando gli occhi verdi di Riku incrociarono il suo sguardo: erano calmi e potenti, torbidi, come l’oceano un attimo prima di scatenarsi

il mare sullo sfondo Riku che gli tendeva la mano e lui che cercava d’afferrarla le onde che lo inghiottivano

 e lo squadravano attenti, affamati, violenti. Nonostante questo, non riusciva ad avere paura. Non riusciva a smettere di pensare che li aveva già visti e che era felice di rivederli, che quelle iridi chiare ed affilate erano forse una delle cose che gli era sempre mancata, una delle cose che aveva saputo di non avere ma che non era riuscito a definire con certezza, che non era riuscito ad associare ad un’immagine.
«Riku» sussurrò, e non fu sicuro che quella fosse la sua voce – gli era parsa diversa, più infantile, più squillante – e probabilmente anche lui se ne rese conto, perché gli afferrò fulmineo il braccio, tirandoselo vicino e costringendolo ad una posizione innaturale – sentiva i muscoli bruciare, i tendini tirare, ma tutto quello che riuscì a fare fu restare in silenzio mentre lasciava affondare gli occhi nei suoi.
Il respiro si condensò nella sua bocca, quando quella di Riku fu troppo vicina perché potesse anche solo pensare di volerla evitare.
«Dillo ancora».
«Ri-ku» soffiò incerto, tremando, e per qualche motivo che non riusciva a capire, quella tempesta che i suoi occhi gli avevano anticipato Roxas iniziò a sentirla dentro – lo stava scuotendo e lo stava sbattendo, lo stava dilaniando, e d’improvviso la sua figura divenne più sfumata, tremolante, e sentì gli occhi pesanti, come se volessero cadere e traboccare da un momento all’altro.
Si lasciò sfuggire un gemito strozzato, mugolante come un imploro, perché quella presa al braccio faceva sempre più male, era sempre più disperata, e lui sentiva, ma non riusciva a capire cosa e soprattutto perché – però poi Riku lo baciò, premette le labbra sulle sue, e gli sembrò che gli risucchiasse di nuovo via tutto.
Sentiva solo l’umido sulle guance, la morbidezza della sua bocca sulla propria ed un tepore gentile al centro del petto. Non sentiva più male al braccio o alle ferite delle mani, alle ginocchia premute contro il terreno duro e le radici.
I baci di guarigione funzionavano davvero.
 


Giorno 71: Il ritorno di Axel;
“Ho rivisto Axel dopo il lavoro. È spuntato fuori dal nulla.
No sapevo cosa dire. Credevo lo avessimo perso per sempre.
La sensazione di soffocamento è sparita”.

 
 
Roxas aveva preso a respirare, quando Axel era tornato. Aveva pensato al bacio di Riku, alla leggerezza che gli aveva fatto sentire per un solo breve attimo – ma bastava solo la presenza del Numero VIII per farlo sentire così senza che neppure si toccassero: Roxas non aveva bisogno dei suoi baci, aveva bisogno di lui.
Quando poi l’immagine del bacio era sfumata via come pesante fumo nero, aveva pensato soltanto a Riku: la persona che gli mancava non sarebbe ritornata, e lui non avrebbe potuto abbracciarla, non avrebbe neanche potuto parlarci o anche solo tenerla per mano. Si chiese se fosse giusto, si chiese cosa si provasse ad essere certi di non rivedere mai più qualcuno di così importante, si chiese cosa sarebbe stato disposto a fare Riku pur di riaverla indietro anche per un solo attimo, fosse anche solo un’effimera illusione.
«Mi dispiace» gli sussurrò, in piedi di fronte a lui, calcando l’impronta del proprio stivale nero sull’erba bassa – soffiò forte il vento, ed il cancello arrugginito della Vecchia Villa cigolò alle sue spalle, coprendo il silenzio. Avrebbe voluto che qualcuno gli avesse detto come fare per consolare una persona, ma si rese conto che probabilmente non sarebbe servito, perché Riku non gli sembrava disperato, neppure triste, solo infinitamente stanco – continuava a tenere il viso alto, e Roxas si girò per guardare come lui una delle finestre della Villa abbandonata, ma non ci trovò nulla d’interessante.
Quando tornò a guardarlo si chiese perché Riku gli sorridesse come per porgergli delle scuse che a parole non avrebbe saputo esprimere. «Anche a me, Roxas. Addio».
Roxas soffiò un saluto stentato, mentre fissando la sua schiena lo vide sparire in un Varco Oscuro.
Se avesse saputo che lo avrebbe rincontrato – ma quel giorno Riku lo avrebbe chiamato Sora, non Roxas – probabilmente gli avrebbe detto un semplice arrivederci.
 

«Volevo rivedere Roxas, era l’unico che mi piacesse. Mi faceva sentire… come se avessi un cuore».

 
Se avesse saputo che Riku lo avrebbe riavuto indietro – ma lui ormai sarebbe stato Sora – probabilmente avrebbe capito perché quel giorno aveva cercato di chiedergli perdono.
 




 




Beh, beh. Tipo questa è la mia settantesima storia, insomma. La mia settantesima su Kingdom Hearts. Occielo.
A parte questo - che è una notizia molto molto interessante che sicuramente interessava a tutti voi - non ho molto d'aggiungere, se non che era una vita che immaginavo una RikuRoku ambientata in questo punto del gioco, e credo che non sia venuta proprio come immaginavo, di certo è un po' più amara di quanto avrei voluto.
Ringrazio tantotanto Syr, che ha avuto il coraggio di leggerla e sistemarla per quanto possibile - ultimamente il mio stile non ha senso, sul serio.
Mi mancano ancora 21 giorni di scuola. Ventuno. Dio. Non vedo l'ora che finisca questa tortura D:
Alla prossima cuccioli <3

See ya!

   
 
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