Ok, quella
non era stata una buona idea.
Affatto!
Era stata
una delle idee più malsane che le fossero mai venute in mente in tutta la sua
vita, lasciare casa in cerca di qualcuno di cui conosceva solo nome e cognome
era da fantascienza, soprattutto se si abita a New York da neanche 10 giorni.
Sospirò,
dandosi mentalmente della cretina, sfilandosi lo zaino dalla schiena,
poggiandolo fra i piedi. Estrasse a fatica una cartina, i passanti le donavano
occhiate curiose mentre la srotolava per bene di fronte a se , prendendo
dall’astuccio con i Loony Tunes una puntina da disegno.
Sempre il
solito responso.
Queen Mary
Hospital.
Peccato che
lei non sapesse minimamente dove si trovasse quel dannato edificio…
Era il
colmo e lo sapeva, era in grado di trovare qualsiasi persona presente sulla
faccia della terra, ma a causa del suo scarsissimo senso dell’orientamento non
era in grado di raggiungerla.
Sospirò
profondamente, cercando di ricacciare indietro le lacrime che sentiva montare,
non doveva arrendersi, non ancora,
doveva sapere come stava lui, Mohinder non le diceva nulla e la paura che fosse successo qualcosa di
irreparabile la faceva stare male.
-Ti sei
persa cara?-
Una
corpulenta donna di colore si era chinata su di lei, oscurando la luce al neon
che illuminava la stazione con la sua mole. La bambina inginocchiata a terra
annuì lentamente, mentre nella sua testa già si stava formando la bugia
perfetta.
-Devo
andare a trovare il mio papà…- mormorò con voce lamentosa, alzandosi,
rivolgendo alla donna uno sguardo da cuccioletto che avrebbe impietosito
chiunque – E’ ricoverato al Queen Mary Hospital, ma ho perso le indicazioni che
mi ha scritto la mamma e non so da che parte andare.-
La donna le
rivolse uno sguardo costernato, era ammirevole la dedizione che quello
scricciolo dimostrava nei confronti del padre, le tese la mano promettendole di
accompagnarla.
- Anch’io
devo andare al Queen Mary per dei controlli .- disse sorridendole- Vieni con me
cara .-
Anche se
Mohinder le aveva detto più volte di non fidarsi degli sconosciuti, Molly si
alzò afferrando la mano della dolce signora, che la fece salire sul treno
giusto, la fece sedere sulle ginocchia e la guidò fino alle porte
dell’ospedale.
-Grazie
signora.- esclamò la piccola con un sorriso.
-Di nulla
Molly.-
La bambina
la vide scomparire fra i degenti che popolavano il pronto soccorso, fece per
voltarsi verso la reception quando si rese conto di un particolare- Io non le
ho mai detto come mi chiamo…- si disse mentre pochi passi lontano da lei,
l’uomo nero dei suoi incubi svestiva i panni della dolce signora per riprendere
quelli di Gabriel Grey alias Sylar.
-Salve.-
esclamò Molly affacciandosi a fatica al bancone della reception, attirando
l’attenzione dell’infermiera con un cenno della mano.
-Si, cara?-
-Sto
cercando l’agente Matt Parkman. E’ stato ricoverato qui circa un mese fa.-
La donna
scorse la lista dei suoi pazienti per poi donare un occhiata perplessa alla
piccola che faticava a reggersi sulle punte- Si trova in reparto di terapia
intensiva…- disse squadrandola – Può essere visitato solo dai parenti.-
La
ragazzina sgranò gli occhi delusa, finchè per la seconda volta la bugia
perfetta si delineò nella sua testa- Sono la figlia…- disse sorridendole
adorabile- Mi chiamo Molly Parkman.-
-La figlia?-
-La
figlia!-
Aveva fatto
una fatica della miseria, non si sarebbe lasciata sopraffare da quell’ algida
creatura che pareva avere più baffi della buon’anima di suo nonno. Si gonfiò in tutta la sua altezza sostenendo
lo sguardo della donna, che alla fine cedette facendole strada, per poi
fregarla sul più bello.
-Aspettami
qui.- le intimò.
Aprì la
porta della camera 202 e dalla soglia disse- Sig Parkman. C’è sua figlia per
lei.-
Il cuore di
Molly schizzò nella gola della piccola, facendola ondeggiare per un attimo,
maledizione, lui non ci sarebbe mai arrivato! Quella strega l’aveva giocata per
bene.
Fece per
parlare, ma una voce l’anticipò.
-Molly…-
Era roca,
affaticata, ma era la sua! La bambina riprese colore, mentre la detestabile
infermiera le faceva spazio entrò baldanzosa come una leonessa per poi
smontarsi alla vista del suo eroe … Pareva essere stato rabberciato alla meno
peggio, come i cocci di un vaso che benché rotto non si voleva buttare via.
-E così sei
mia figlia, eh?- chiese scherzosa la voce dell’uomo mentre a Molly veniva da piangere a vederlo in quello
stato.
-Che c’è
tesoro? Hai fatto tanto per vedermi e adesso non mi dici nulla?-
La
ragazzina fece un passo avanti, portando la sua visuale a favore di luce,
rabbrividendo alla vista delle garze e dei cerotti che sbucavano sotto la
maglia del suo grande eroe.
-Vivo con
Mohinder.-
-Davvero?-
-Lui, deve
starmi vicino, perché se mi sento male mi serve il sue sangue.-
Matt annuì
lentamente tirando le labbra secche in un sorriso – E ti trovi bene con lui?-
le chiese sporgendosi un po’ di traverso sul letto, cercando di portare il viso
al suo stesso piano.
-Lui non
c’è mai il giorno.-
-Mi
spiace.-
La bambina
fece ancora un passo avanti, doveva dirgli la ragione perché era andata da lui,
doveva, prese un bel respiro- … Così mi sono chiesta se tu non potessi…- lo fissò in attesa sperando che lui avesse
colto il senso delle sue parole, cosa che purtroppo non avvenne- … Se non
potessi, ecco… Adottarmi…-
Matt sgranò
gli occhi mentre le guance della bambina raggiungevano la stessa tonalità della
maglietta.
-Adottarti?-
-Si.-
-Non posso…
La bambina
sfoderò un espressione di chi si è visto crollare in mano il più bello dei
castelli in aria, aveva pensato che lui, ancora una volta, avrebbe potuto
salvarla da quell’esistenza di solitudine, ma aveva fatto i conti senza l’oste.
Inghiottì le lacrime sentendo però che era uno sforzo inutile.
-Molly non
piangere per favore…- la implorò Matt- Guardami, al momento non posso prendermi
cura nemmeno di me stesso, come potrei prendermi cura di te?- le sorrise
cercando di rabbonirla, chiudendo gli occhi di fronte ai due lacrimoni delusi
che si stavano facendo strada lungo le gote della piccola.
-Potrei
aiutarti…-
-No… non
puoi… Non camminerò per almeno un altro mese , non lavorerò per almeno altri
quattro, non potrei mantenerti neppure volendo.-
-La mamma e
il papà mi hanno lasciato dei soldi.-
-Tesoro,
non si può fare….-
Ancora
quell’espressione da “ Perché no?” la bambina sentì la forza nelle gambe venire
meno, si appoggiò al materasso,
sentendo la stanza girare attorno a lei, nella testa di Matt, risuonò un
disperato – Non voglio morire da sola.- si alzò facendo leva sui gomiti
guardandola in viso.
-Perché dovresti
morire da sola?-
-Lui non c’è
mai, crede che darmi il suo sangue sia il modo migliore di salvarmi, ma io non
voglio salvarmi se devo stare da sola per sempre…- Matt sentì il cuore andare in pappa, una bambina di neanche 12
anni non doveva parlare in quel modo- Io voglio qualcuno che mi stia vicino,
che mi tenga la mano quando sto male, non me ne faccio nulla di un dottore… Io
voglio un papà!-
-Io?-
-Si…-
Mandando al
diavolo la logica, Parkman si stese sul lettino, afferrò un gomito della
ragazzina e se la tirò fra le braccia, stringendola forte forte, come solo un
papà sa fare- Va bene proviamoci!- le disse all’orecchio- Non so che cosa potrò
combinare, ma spero di potercela fare.-
Io
l’ammazzo!
Con queste
dolci paroline scritte a lettere di fuoco nel cuore Mohinder Suresh attraversò
l’ampio corridoio che portava alla stanza 202 di terapia intensiva. Un acida
infermiera con più baffi di Robespierre lo aveva informato che una certa Molly
Parkman era andata a trovare Matt.
-Secondo me
non è sua figlia, però…- aveva detto velenosa, alle spalle dell’indiano, che
già per metà in ascensore.
Rientrare
in casa e non trovare la bambina gli aveva fatto venire un principio d’infarto,
quel minuscolo biglietto che annunciava la sua visita a Matt lo aveva messo nel
pallone più totale, per fortuna pareva essere arrivata sana e salva senza
incontrare Sylar sul suo cammino.
-MOLLY!-
tuonò aprendo la porta di scatto per poi addolcirsi di colpo .
Molly dormiva tranquilla “ per la prima volta” fra le braccia del suo grande
eroe “ anche lui addormentato” si guardò attorno chiudendo la porta, prendendo
una seggiola e sedendosi accanto ai due.
Sorrise
passandosi una mano fra i folti riccioli castani, la sua vita da genitore
single era decisamente finita. E anche se non nella norma, ora aveva una vera
famiglia a cui tornare.