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Autore: EvgeniaPsyche Rox    12/05/2013    9 recensioni
«Ti ho spaventato?». Una vibrazione stranamente forte si espanse nell'aria, discostando leggermente l'attenzione di Roxas dall'aria pesante e grigia.
Una folata di vento mosse nuovamente il cespuglio e Roxas provò una sorta di stupore all'udire una voce simile alla propria; stupore che si manifestò nella sua totale assenza di parole, poiché si limitò a mantenere le iridi puntate su quella piccola chioma verde di foglie.
«Almeno un po'?», domandò con insistenza l'individuo in basso, muovendosi appena in mezzo all'aria e alle pozzanghere circostanti. «Ti ho spaventato, almeno un po'?»
[Suvvia, pubblico la mia ultima storia da quindicenne. Ci tenevo un po', ecco.]
Genere: Malinconico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Axel, Roxas
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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It's raining near the end.

 



«Muoviti, ripariamoci lì sotto!»
«A-Aspetta un attimo!» 
«Sta peggiorando, non vedi?»
Il ragazzo dai capelli castani allora si sforzò di accelerare la corsa, rischiando addirittura di cadere rovinosamente a terra, se non fosse stato per il fatto che riuscì ad aggrapparsi a un palo alla sua sinistra appena in tempo; alzò di scatto gli occhi e scoppiò a ridere, tra l'imbarazzato e il divertito, notando, dall'altra parte, lo sguardo rimprovero dell'amico che, in fondo, non poteva fare a meno di trovare buffa l'impacciatezza un po' ingenua del giovane.
Altri suoni si espansero nell'aria; sussurri, parole, frasi frammentate, mormorii sconnessi, lamentele, prese in giro e moto che sfrecciavano sulla strada, tagliando l'aria con i i loro possenti ruggiti.
Roxas incrociò le gambe sulla superficie rugosa del tetto, facendo scorrere le proprie iridi da una parte all'altra dell'ambiente circostante, invaso dal tipico odore di pioggia.
Eppure all'inizio era parsa una bella giornata con un sole particolarmente caldo; insomma, la tipica giornata primaverile che incitava le persone a legarsi le felpe intorno alla vita, pronte a godersi la brezza sulle braccia nude.
O almeno, così lui aveva sentito dire dai passanti di quei piccoli quartieri accanto alla scuola.
Durante il Venerdì pomeriggio c'era sempre parecchia gente che riempiva le strade; adulti che abbandonavano l'ufficio, studenti che sfrecciavano verso casa, decisi a godersi al massimo il fine settimana, bambini che pregavano le madri di portarli sulle giostre...
Era un continuo via e vai, durante il Venerdì pomeriggio.
Un via e vai che però era stato bruscamente interrotto dall'arrivo inaspettato dalla pioggia; qualcuno dall'alto sembrava aver improvvisamente deciso di attaccare una spina, una spina che in qualche modo aveva messo in moto le nuvole che si erano affrettate ad affollare il cielo non più limpido.
Donne che si precipitavano verso casa per salvare i panni stesi; uomini che imprecavano a denti stretti per non aver portato l'ombrello; ragazzi che si lamentavano del fatto che la loro passeggiata era saltata...
Ma alle nuvole poco importava tutto ciò; loro continuavano a stare lì, ammassate, a riempire l'aria con la loro pesantezza, con quell'odore piacevole e al tempo stesso opprimente: un odore che scavava fin dentro le ossa, che penetrava in qualche modo, che raggiungeva l'anima e la tingeva di grigio.
Le nuvole riunivano la tristezza, la malinconia e l'angoscia. Sussurravano all'aria parole, frasi, periodi galleggianti che poi rimbombavano nell'ambiente circostante.
Lettere silenziose, quelle che l'udito umano non poteva afferrare, al contrario dell'animo. Oh, eccome se esso sentiva quelle parole, quelle frasi spezzate, quei lamenti sommessi, quei pianti disperati. Li sentiva e si rattristava assai.
Le persone parevano particolarmente cupe, quando pioveva.
C'era un'aria che infrangeva il respiro, che sostituiva l'ossigeno con la malinconia, quella fitta, quella che crea voragini interiori. Quella che porta la gente ad affacciarsi continuamente alla finestra; quella che obbliga a riflettere, a rattristarsi in automatico. Quella che porta alla noia, alla nostalgia, che pizzica l'animo con fare un po' crudele.
«Smettila di piangere, ti ho detto che te lo comprerò domani!», tuonò una donna con aria esasperata dall'altra parte del marciapiede, trascinando nel frattempo un bambino dalle gote bagnate che non faceva altro che strillare e piangere.
«Ma io lo voglio adesso!»
«No, adesso no!»
«Perché no?! Perché, mamma, perché?! Lo voglio!»
«I negozi chiudono quando piove!»
«Perché? Perché i negozi chiudono quando piove?!», trillò il bambino tra un singhiozzo e l'altro, aspettando una risposta che non arrivò mai a Roxas, poiché le due figure svanirono dietro l'angolo, lasciando dietro di sé una lieve nebbia formata dall'eco delle loro urla.
Non amava scorrazzare qua e là per la città, al contrario preferiva dare meno nell'occhio possibile, nonostante fosse piuttosto facile per quelli come lui; adorava soprattutto trovare un posto confortevole su cui sedersi e rimanere lì per tutto il resto della giornata, limitandosi ad osservare.
Spesso vedeva le persone andare e tornare dal lavoro; imparava i nomi di alcuni di loro, nel corso della giornata. Riconosceva i loro volti, i loro lineamenti, le loro uniformi, chi era colui o colei che stava dall'altra parte del cellulare.
Eppure il giorno dopo se ne dimenticava, e allora doveva ricominciare tutto da capo: osservare, memorizzare e poi dimenticare di nuovo.
E il giorno dopo di nuovo. E così quello dopo ancora.
Poi, improvvisamente, un fruscio.
Il respiro di un'anima in mezzo alla pesantezza di tutto quel grigiore.
Roxas abbassò le iridi, lentamente, quasi con cautela, ma in realtà così non era. Semplicemente lo fece con estrema calma, come sempre. Come tutti i suoi gesti, come la sua intera esistenza.
Un altro fruscio tra i cespugli. Foglie verdi che scivolavano a terra, sul pavimento bagnato, strappate via dalla proprie case. Piccoli petali viola che fecero loro compagnia, galleggiando sulle pozzanghere come minuscole barche naufragate, abbandonate ad uno tragico destino, lontane dalla loro destinazione.
«Ti ho spaventato?». Una vibrazione stranamente forte si espanse nell'aria, discostando leggermente l'attenzione di Roxas dall'aria pesante e grigia.
Una folata di vento mosse nuovamente il cespuglio e Roxas provò una sorta di stupore all'udire una voce simile alla propria; stupore che si manifestò nella sua totale assenza di parole, poiché si limitò a mantenere le iridi puntate su quella piccola chioma verde di foglie.
«Almeno un po'?», domandò con insistenza l'individuo in basso, muovendosi appena in mezzo all'aria e alle pozzanghere circostanti. «Ti ho spaventato, almeno un po'?»
Roxas scosse leggermente la testa e fece scivolare le gambe in avanti, lasciandole così sospese nel vuoto.
«Non ci credo.», una sorta di brontolio sommesso, quasi infastidito, una sensazione strana, che pizzicava in maniera giocosa e al tempo stesso nostalgica l'animo di Roxas.
Un'altra folata di vento invase il piccolo quartiere, costringendo le nuvole a correre sempre più velocemente, facendole ammassare l'una sull'altra e aprendo così uno squarcio di cielo.
«Non c'è ne sono molti qui, eh?». Roxas mantenne improvvisamente sollevate le gambe e inclinò la testa all'indietro, permettendo al vento di intrufolarsi a suo piacimento tra i propri capelli, cullandoli quasi soavemente. «No.», disse poi piano, quasi in un sussurrio.
«Spero che qualcuno si sia spaventato. E' divertente.», un incrocio tra labbra, vibrazioni nell'aria e strane sensazioni mescolate alla pioggia.
«Non penso, se ne sono andati via tutti ormai.»
«Peccato. Io lo faccio spesso. E' un bel passatempo. Non sei d'accordo?»
Roxas chiuse gli occhi, anche se in realtà continuò a guardare l'ambiente circostante, in particolare il cielo. «Lo fanno un po' tutti, ma io no. Non mi piace per niente.»
«Ah no?», ironia, affilata ironia. Divertimento. Un'espressione divertita, una smorfia strana. Un soppraciglio alzato, le labbra socchiuse, prossime a qualcosa; parole che pendono, vibrazioni che si vogliono espandere al più presto.
Roxas scosse la testa un'altra volta. «Sei nuovo?»
«Non so, non ricordo.»
Poi silenzio, ancora. Pesantezza, grigiore, scroscio della pioggia.
Roxas mantenne le iridi fisse in alto e notò che il cielo, nonostante la presenza di quei numerosi nuvoloni, desiderava mostrare al mondo intero il nuovo vestito arancione che aveva indossato.
Il tramonto era il suo vestito più bello e triste, secondo Roxas.
Il tramonto era un miscuglio di malinconia e delicatezza. Il tramonto racchiudeva la fine, i sussurri che poi si perdevano tra le ombre oscure della notte. Le parole spezzate, i commenti sulla giornata ormai giunta al termine. Il tramonto era la spiaggia finale, l'orlo di un burrone, la punta di una montagna, l'ultima sponda prima di precipitare.
Il tramonto dipingeva gli ultimi attimi di libertà, gli ultimi secondi di ricordi. Il tramonto era il momento in cui cercava disperatamente di aggrapparsi alla propria memoria, implorandola di non abbandonarlo, senza però mai ottenere alcun risultato.
Questo perché poi lo investivano le tenebre: lo soffocavano, lo calpestavano e lo opprimevano. Durante la notte si perdeva nel nulla, precipitava ovunque.
Smarrimento totale, fino a che il sipario si riapriva in un risveglio triste, cosparso dai soffici baci dei primi raggi del sole. Voci lievi, parole sfocate, e poi nulla, la memoria nuova, pronta ad essere riempita, ancora e ancora.
Ogni volta come se fosse la prima.
«Perché non vieni qui? Voglio vedere i tuoi occhi». Quell'affermazione fece trasalire leggermente Roxas, il quale si limitò a rimanere completamente in silenzio, senza sapere come rispondere.
Un tuono rimbombò in lontananza e risuonò anche nell'animo dei due individui.
Si era sempre chiesto da dove provenissero i tuoni e, soprattutto, dove si trovassero con esattezza. Aveva provato numerose volte a seguirli, senza però riuscirci realmente.
Sembravano essere quasi irraggiungibili.
«Non essere timido.»
«Ci sono tanti occhi in giro.», rispose Roxas, alzandosi in piedi sul tetto.
«Fa niente, io voglio i tuoi.»
«Perché?»
«Perché sì.»
«Non servirà.»
«Lo so.»
Breve silenzio. Una folata di vento. Lo sfrecciare di una moto. Ancora il suono del vento e la pesantezza delle nuvole.
«Dai, scendi. Non mi va di salire». Roxas allora annuì, intuendo di non avere altra scelta. Con un piccolo balzo si abbandonò tra le braccia dell'aria e rimase sospeso per pochi attimi prima di ritrovarsi improvvisamente su una pozzanghera, nella stessa essenza dell'acqua.
Aveva sempre trovato strana quella sensazione; la sensazione di cadere, anche se il salto era di piccole dimensioni. L'aria gli toglieva ogni volta il respiro, sembrava quasi penetrare con forza nel suo animo, addirittura con impeto ed irruenza.
«Sei bello. Un po' sfiorito forse, ma bello». Roxas alzò gli occhi, guardando per la prima volta l'individuo di fronte a sé: aveva dei lunghi capelli rossi che danzavano in aria come fiammelle, forse pronte a scatenare l'incendio più letale; il volto spigoloso, quasi in contrasto con il suo essere sfumatao e un po' macchiato, come un disegno fatto male, che, in fondo, era ciò che caratterizzava maggiormente tutti loro.
«Tu invece sei sbiadito. Il tuo rosso soprattutto.»
«Rosso?»
«Sì. Hai i capelli rossi.»
«Sul serio?»
«Sì.»
«Tu invece li hai biondi. E disordinati, molto. Sono buffi. Quasi divertenti come spaventare la gente. Sei bello. Se fossi vivo, ti bacerei volentieri.», poi l'individuo rise, una vibrazione profonda, che scosse per davvero l'animo di Roxas, che piantò le sue radici nei meandri più profondi della sua mente.
Rise, e per un attimo a Roxas parve di vedere per davvero un uomo.
Poi, dopo un breve stupore iniziale, sentì un rosso accendersi dentro. Un rosso, sì, proprio un rosso. Si accese improvvisamente, una piccola fiammella nel suo animo, un po' sbiadita, proprio come quell'individuo. Sbiadita perché scomparve immediatamente.
«Se fossi vivo io o tu?», domandò Roxas, ascoltando distrattamente un tuono in lontananza.
«Entrambi, se no come farei a baciarti?»
«Non lo so. Credo che non si possa fare.»
Nell'aria a Roxas parve quasi di poter respirare l'essenza stessa dell'arancione, di quello squarcio di cielo che cercava di spiccare nonostante le pesanti nuvole lo stessero soffocando; nell'aria c'era un po' di tutto, per la prima volta. Non aveva mai assistito alla pioggia durante il tramonto, o forse semplicemente non se lo ricordava, chissà.
Era quasi magico, particolare. Odore di pioggia e di fine giornata. Una lotta tra il grigiore e il cielo che desiderava comunque donare un'ultima esibizione ai suoi numerosi spettatori.
Un lampo improvviso frammentò il cielo e, un attimo dopo, l'individuo dai capelli rossi tornò a parlare: «Hai gli occhi blu, proprio come immaginavo.»
Roxas dunque trasalì; nessuno gli aveva mai rivelato il suo colore degli occhi. Probabilmente aveva smesso di dare importanza a dettagli del genere anche se, chissà, forse, soprattutto durante i primi tempi, aveva tentato di trovare un modo per scoprirlo. Non ricordava nulla di tutto ciò, certo, ma era piuttosto sicuro di aver svolto ricerche del genere.
Magari qualche volta era pure riuscito nel proprio intento, ma questo non poteva saperlo, poiché il giorno successivo si dimenticava qualsiasi cosa.
E così sarebbe successo anche quella notte: la sua mente si sarebbe svuotata del tutto, come sempre.
Quel pensiero sembrò rattristirlo particolarmente, forse anche più del solito.
«Blu come?»
«Blu. Blu come degli occhi. Mi piacciono molto. Forse sarei riuscito a fare qualcosa anche se solo tu fossi stato vivo. Come intrufularmi nella tua stanza, magari mentre ti stavi cambiando o mentre ti stavi facendo la doccia. Mi sarei accontentato». Dopodiché apparve un'espressione indecifrabile agli occhi di Roxas; non era semplice divertimento, né tanto meno gioia. Era la voglia di ridere, una risata che desiderava spiccare, proprio come quel piccolo squarcio arancione di cielo.
E lui la sentì.
«Come fai a ridere?»
L'individuo dai capelli rossi mosse le labbra in una curva che formò un sottile sorriso di scherno. «Riesco a copiare le espressioni delle persone.»
«E ogni giorno devi imparare a farlo?»
Il rosso scosse la testa, divertito. «No, sto imparando a ricordare.»
L'essenza di Roxas in quel momento vibrò, quasi travolta da una nuova emozione; una seconda fiammella si accese tra i labirinti del suo essere, questa volta più forte e meno sbiadita della precedente. Proprio in quel momento un altro lampo squarciò il cielo e l'individuo fiammeggiante si affrettò dunque a riprendere la parola: «Allora? Sei riuscito a vedere?»
«Che cosa?»
«Il colore dei miei occhi!», il tono del rosso si alzò nel medesimo momento in cui una folata di vento si divertì a provocare l'ennesimo scroscio nel cespuglio.
«Non... Non ci ho fatto caso», mormorò Roxas, affondando i piedi formati d'aria in una pozzanghera. «Come fai a ricordare?»
«Ci tieni così tanto a saperlo?»
Roxas annuì, fremendo dall'emozione e dalla curiosità; si mosse nuovamente, quasi saltellò sul posto, creando così scie immaginarie su quel frammento di specchio acquoso.
«Allora dovrai dirmi di che colore ho gli occhi.»
«Promesso.»
La fiamma mosse le labbra e sorrise nell'aria colma di tristezza. «Però dovrai dirmi un'altra cosa.»
«Che cosa?»
«Mi baceresti?»
Roxas, galleggiante sull'acqua, si spostò nuovamente, quasi a disagio, e si tinse di arancio, proprio come lo squarcio del cielo. «Se fossi vivo, intendi?»
«Se fossimo vivi entrambi.»
«Non lo so, come si bacia?»
Un'altra vibrazione particolarmente forte, una risata, il vento che muoveva le foglie, alimentando nel frattempo la fiamma. «Devi appoggiare la tua bocca sulla mia.»
«Ma non ha senso.»
«E invece sì. E' un modo per condividere la stessa aria e le stesse parole. Beh, mi baceresti?»
«Non lo so, forse. Però lo farei di sicuro se mi dicessi come imparare a ricordare.»
Il rosso sorrise per l'ennesima volta; girovagò ripetutamente nell'aria, tra i cespugli, poi rimase sospeso nella pioggia, lasciando galleggiare pigramente i propri pensieri nel vuoto, e infine rispose: «Devi cercare di risvegliarti sempre nello stesso luogo.»
«E come faccio?»
«Non devi muoverti durante notte. Devi rimanere fermo nello stesso punto.»
«E' impossibile, mi risucchiano via», disse con tristezza Roxas e all'angoscia della pioggia si aggiunse la sua, la quale appesantì ulteriormente l'aria.
«No, siamo noi che fuggiamo via.»
«Cosa?»
«Lo facciamo perché di notte non abbiamo un posto preciso in cui stare: è tutto nero.»
«Dici sul serio?»
«Sì.»
«E sei mai riuscito ad attraversare la notte rimanendo sempre nello stesso punto?», domandò Roxas, anche se parte della sua voce venne nascosta da un tuono.
«Qualche volta, più o meno.»
«E hai ricordato? Ad esempio, sai da quanto tempo te ne sei andato?»
«No, però conosco il mio nome.»
«Il tuo... Nome?»
«Sì, è il modo con cui le persone ti chiamano.»
«So che cos'è.», mormorò allora Roxas, immergendo anche le braccia nella pozzanghera. «E quindi come ti chiami?»
«Axel», bisbigliò appena il rosso, e un lampo si fece spazio nel cielo, più abbagliante che mai.
Roxas a quel punto udì improvvisamente dei passi, passi pesanti, passi umani, e si voltò all'indietro, notando la presenza di un passante dall'espressione alquanto sconvolta; lo vide stropicciarsi un paio di volte gli occhi prima di sbattere ripetutamente le palpebre. Dopodiché scosse la testa tra sé e sé, strinse maggiormente l'ombrello, e si allontanò il più velocemente possibile.
«Te l'avevo detto che è divertente.»
«Probabile.»
«Allora? Hai visto?»
«Cosa?»
«Il colore dei miei occhi, no?»
«Sì», annuì piano Roxas, anche se non era esattamente vero, poiché aveva prestato la propria attenzione esclusivamente sulla presenza del passante.
«E come sono?»
Breve silenzio. L'acqua della pozzanghera che si muoveva appena, le nuvole che si rincorrevano, il grigiore che si ammassava, le anime che riversavano la propria angoscia sulle giornate piovose.
«Sono verdi.», bisbigliò infine Roxas, accorgendosi che la sua risposta era stata data principalmente dall'istinto. «Sono verdi come... Come gli smeraldi, sì.»
Axel schiuse allora leggermente le labbra, assumendo un'espressione alquanto stupita; o forse  si stava semplicemente chiedendo che cosa fossero gli smeraldi. «Un bel colore.»
«Penso di sì.»
Roxas non conosceva la maniera in cui se n'era andato. Una malattia? Un incidente? O forse lo aveva deciso lui stesso?
E perché le persone si ostinavano tanto a considerare la sua come una ''miglior vita''?
I fantasmi non sono in grado di attraversare le pareti: quelle sono tutte leggende metropolitane che i passanti si scambiano giusto per intimorirsi a vicenda, o tanto per dare aria alla bocca.
I fantasmi in realtà sono un ammasso di particelle sospese; galleggiano ovunque, nell'aria, nell'acqua, e riversavano la propria tristezza nella pioggia. Essi formano soltanto il contorno confuso del loro vecchio corpo, anche se non sono altro che anime vaganti tinte di un pallido grigio. Un pallido grigio che però lascia trapelare delle leggerissime macchioline di colori, talvolta; macchioline che spiccano particolarmente sotto la luce dei lampi.
In mezzo al sole invece svaniscono completamente, dato che i colori vengono risucchiati via dai raggi: perché durante le giornate splendenti le persone sono più allegre? Perché l'aria profuma di colore, è ovvio. E da dove proviene il colore? Dal sole.
E il sole dove attinge la propria luce? Dalle piccole macchioline dei tristi spiriti vaganti, evidentemente.
Ecco perché soltanto sotto i lampi essi riescono a mostrarsi; quando piove non esiste alcun sole. Quando piove nessuno ruba loro i colori e il pallido grigiore viene in parte trascinato dall'acqua piovana.
I pensieri dei fantasmi sono ovunque; tra i mormorii del vento, in mezzo alle foglie, nelle gocce di rugiada e perfino sulle linee del marciapiede.
Le speranze e i desideri dei fantasmi sono sfumati, quasi scomparsi. Non provano vere emozioni, ma soltanto un miscuglio confuso di vecchie sensazioni provate nella loro vita che riescono in qualche modo a collegare al loro animo.
I fantasmi sono semplicemente ombre di una vita passata e distrutta.
«Ti va di provare?»
Roxas voltò appena la testa verso il rosso. «Provare cosa?»
«A rimanere per tutta la notte fermi nello stesso punto. Magari in due funzionerà.»
«Io non sono capace.», spiegò l'altro sospirando leggermente, muovendo così i petali che giacevano sulla pozzanghera.
«Ti insegnerò io.»
«E poi?»
«E poi ci possiamo baciare. Se provassimo a baciarci, dovrai concentrarti sul bacio e non sulla notte. Così rimarremmo fermi sempre nello stesso punto.»
Roxas annuì e, incredibilmente, gli parve quasi una bella idea. «Ma se non funzionasse?»
«Andrà bene lo stesso.»
Roxas annuì un'altra volta prima di alzare lo sguardo in alto, notando che l'arancione di quel piccolo squarcio di cielo si stava sbiadendo sempre di più, pronto a lasciarsi travolgere dalle tenebre.
Degli altri passi rimbombarono nel marciapiede e una donna attraversò le pozzanghere con aria frettolosa. Non si fermò neanche per un attimo; continuò a camminare perfino quando superò i due individui. Si limitò a stringersi maggiormente le spalle, come se il freddo fosse diventato di punto in bianco particolarmente difficile da sopportare.
Roxas non sapeva se esisteva un luogo perfetto, dopo la morte; non sapeva se le persone venivano trattate in maniera differente a seconda del loro comportamento assunto durante la vita, né tanto meno sapeva se esisteva un Inferno.
Talvolta pensava che l'Inferno fosse proprio quello, il suo, l'essere un'anima vagante. Altre volte invece si diceva che forse gli era capitato il destino del vivere in bilico, su una terra di mezzo. Una terra che forse non avrebbe condotto da nessuna parte, oppure una terra che lo avrebbe trascinato all'Inferno o ancora, chissà, anche in un posto perfetto, come il Paradiso.
O magari quello era il destino di tutti i mortali.
Non lo sapeva proprio. Nessuno gli aveva detto nulla; nessuno, dopo aver abbandonato il suo corpo, era venuto a cercarlo, a spiegargli la situazione.
Chissà, forse le anime vaganti sono soltanto persone che non sono state saziate abbastanza dalla vita.
«Si sta facendo notte. Saliamo sul tetto 'sta volta? Sai, secondo me le cose fanno meno paura, se le si guardano dall'alto.»

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*Note di Ev'*
Io stavo quasi per piangere, pubblicando questa storia.
Cioè, mi correggo: cercando di pubblicare questa storia.
E dico ''cercando'' perché... Perché... Perché hanno chiuso i due siti che utilizzavo per 'sta merda di codice HTML :c Non vi dico che faticaccia trovarne un altro! Voi non immaginate la disperazione, ohw. Sono negata nell'HTML, negatissima, ogni cazzo di luogo in cui vado trovo questo schifo da inserire. Perché non dev'essere più semplice?! Perché da Word facendo copia-incolla non appare subito tutto, eh?!
Va bene, passiamo oltre.


Ci tenevo tanto a pubblicare qualcosa in questi giorni. Avevo pensato di terminare finalmente ''La realtà attraverso gli occhi dell'immaginazione'', però sono ancora a metà capitolo, non sarei riuscita a terminarlo neanche se mi avessero pagato.
Quindi boh, mi sono cimentata in qualcosa di nuovo. L'altro ieri ero ispirata grazie a questa famigerata pioggia che è scoppiata di punto in bianco mentre il sole stava tramontando e... Niente, è stato mozzafiato. Non so perché, mi sono immaginata che quello fosse uno di quei momenti in cui magari le anime si riuniscono in qualche modo.
Cioè, boh, in breve mi sono venuti in mente i fantasmi e ho tirato fuori questa storia. Non saprei neanche cosa dire, ohm... C'è Roxas, ecco, sì. Abbiamo un Roxas che osserva la città, la sua città, molto probabilmente, quella in cui ha vissuto, poiché non è uno che ama spostarsi. Però non c'è nulla di granché familiare; le emozioni lui le conta giornata per giornata, non può superare le ventiquattro ore perché poi, a quanto pare, gli spiriti sono condannati a dimenticarsi tutto.
E questa è una sorta di maledizione.
Il dimenticare all'infinito.
Ho immaginato i fantasmi come individui che vivono a contatto con la natura, con l'ambiente in generale; i loro gesti scaturiscono spesso il movimento dell'aria, dell'acqua, come se essi fossero intrappolati in qualcosa di invisibile. Hanno una sensibilità maggiore nei confronti degli elementi, ma la sensazioni per loro sono più difficili da provare, soprattutto per Roxas.
Axel ha più espressioni, si muove di più, sente più cose in ambito delle emozioni; forse perché è morto da poco, e di conseguenza conserva maggiori sensazioni, o forse perché è la sua ''natura'' e basta.
Hanno una conversazione piuttosto lunga, anche se, alla fine, non è incentrato su nulla in particolare. Roxas, come nel videogioco, fa la parte dell'alunno, poiché Axel sembra quasi insegnargli numerosi trucchetti della ''vita da fantasma''. Pare aver scoperto come mantenere vivi i ricordi e gli propone di provare definitivamente questa tattica insieme. Talvolta spicca la malizia di Axel, forse una delle caratteristiche più importanti nella sua vita passata, poiché parla in maniera anche spudorata.
Roxas è più ingenuo, si lascia trascinare dagli elementi, dal suo destino, anche se si pone numerose domande.
Axel agisce, Roxas non molto. Eppure quest'ultimo prova una sorta di speranza al sentire le parole di Axel e desidera davvero di riescire a trovare un modo per mantenere i ricordi vivi.
E nulla, questa storia è un continuo gioco tra dialoghi e descrizioni che mescolano i due protagonisti con la natura.
Poi, di sfondo, talvolta entrano in scena dei passanti; uno, in particolare, scorge di sfuggita i due individui, poiché volge lo sguardo verso di loro proprio sotto un lampo.
E niente... Ovviamente tutte queste informazioni sui fantasmi sono frutto delle mie manine; il fatto che si vedono solo sotto i lampi, che dimenticano... Insomma, ho arricchito il tutto di particolari miei, una visione personale sugli spiriti, ecco.
Fine della solita analisi del cazzo.



Passiamo alle cazzate.

Perché ci tenevo tante a pubblicare una storia in questi giorni? Semplice, perché è l'ultima storia che pubblico da quindicenne, olè! Da dopo domani sarò ufficialmente una sedicenne, yuppi.
Plzz, pregate che io diventi un po' più alta, omg.
E pregate che questa settimana termini in fretta. Domani ho una verifica e un'interrogazione; dopo domani un'altra verifica di cui non so un emerito cazzo, e Mercoledì un'altra splendida verifica di latino.
Non so se riuscirò ad arrivare a Sabato senza morire. O senza trasformarmi in un fantasma. Ma devo farlo... Devo, per il bene della mia festa di compleanno
Vabbeh, vi incito comunque, come sempre, a commentare, se avete letto la storia, plzz. Siamo in un sito in cui il confronto è ESSENZIALE, e le recensioni per me sono tutto.
Bom, basta, mi dileguo tra gli spiriti vaganti.
Alla prossima!
E.P.R.

 

   
 
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