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Autore: countrygirl_90    16/05/2013    19 recensioni
"A non far niente non si sbaglia mai! Vero, Vegeta?"
Tra un difficile compito da portare a termine con una bambina pasticciona e i ricordi di dieci anni prima, il Principe dei Saiyan si scopre un padre, un compagno, un amante cambiato.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bra, Bulma, Mirai!Trunks, Trunks, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer:
The following is a non-profit fan-based fiction. Dragonball, Dragonball Z and Dragonball GT and their characters are all owned by FUNimation, Toei Animation, Fuji TV and Akira Toriyama.
Please support the official release.
E' vietata la citazione anche parziale di quanto segue senza un'autorizzazione scritta dell'autrice.




CONTRO IL MURO


"Stupida bestia!".
Aveva schivato quel gatto nero giusto in tempo, sterzando prontamente ed evitando di andare a sbattere contro la recinzione della Capsule Corporation.
Suo padre avrebbe dovuto darci un taglio: sembrava di stare allo zoo. Quei piccoli animaletti pelosi si moltiplicavano ad ogni primavera e nessuno aveva il coraggio di  sbarazzarsene, men che meno la piccola di casa. Ogni nuova cucciolata era motivo di giubilo.
"Nonno! Non vorrai mica darli via, spero".
"Ti pego, nonnino! Li do io la pappa...".
Di fronte all'alleanza dei suoi nipoti, l'anziano Dottor Brief non poteva far altro che allargare le braccia e sorridere.
Nessuno sembrava preoccuparsi della povera donna.
"Ho già tre scimmie a carico", pensava con nervosismo, "e ho il vago presentimento che il canile non le voglia!".


Sentì dei rumori insoliti. Si guardò intorno circospetto. In quel luogo aveva accesso esclusivo, era impossibile che qualcuno vi si fosse intruffolato senza il suo consenso. Non percepiva alcuna aura che gli fosse vagamente familiare. Niente. Diede la colpa alla suggestione che quel luogo poteva suscitargli, quella stanza circolare che con le sue basse luci rossastre lo aiutava a materializzarsi nella mente i vecchi nemici e gli attuali rivali.
Si avvicinò alla pulsantiera. Ad un tratto udì un rumore metallico, seguito da uno stridio quasi intollerabile e da un tonfo.
Lo guardava terrorizzato, con occhi iniettati di un giallo selvaggio, che nulla aveva a che vedere con la razza terrestre. A corredo della sua disumanità, faceva la sua immancabile comparsa quell'attributo inconfondibile: la coda.


Posteggiò con noncuranza e corse in bagno solo per incipriarsi il naso, imperlato di piccole gocce di sudore dovute forse allo spavento, forse ad un maggio insolitamente afoso.
Il compagno era svaccato sul divano, in pausa digestiva. Sperò fino all'ultimo che la donna non uscisse di nuovo. Non che provasse chissà quale nostalgia di lei, anzi, ma quel giorno non poteva. Doveva restare. Doveva...
"Allora io vado!" cinguettò dal corridoio che dava sull'uscio. "Pensaci tu... mi raccomando".
Si alzò di scatto e corse verso la porta della cucina. Si fermò sullo stipite con un'espressione spaventata e supplichevole. Le sue corde vocali non ebbero nemmeno il tempo di vibrare.
"Niente -ma-!", lo anticipò lei, portandosi l'indice alle labbra. Lo guardò decisa: "Sei un bravo papà". Un incoraggiamento, più che una costatazione.
Afferrò il suo trench blu dall'appendiabiti e varcò la soglia.
Sbam!

Rimase a fissare la porta per interminabili secondi, nella segreta speranza che la sua compagna si materializzasse di nuovo. Udito il rombo del motore, realizzò che questa volta sarebbe stato davvero arduo saltare l'ostacolo. 

 
Non poteva sopportarlo. "Come osi? Sei qui per umiliarmi?". Una domanda pronunciata a denti stretti che agli orecchi dell'altro arrivò in tutta la sua completezza. Un sussurro che un terrestre avrebbe confuso con il ronzio prodotto dalla centralina elettrica che permetteva a quel luogo di esistere. Per tutta risposta, quello arretrò di qualche passo, inarcò la schiena, mostrò i lunghi canini affilati. "A noi due!".


Bulma non sapeva davvero più dove sbattere la testa: ultimamente si era presa così tanti impegni che, essendosi complicate le cose, erano diventati troppi.
Il rosso del semaforo le diede modo di rimirarsi nello specchietto retrovisore. Bella come sempre, aveva però gli occhi stanchi. Si conosceva bene, sapeva quando esagerava. Se poi ci si metteva di mezzo anche quella faccenda... . Sorrise amaramente al pensiero che una commozione cerebrale sarebbe stata un'ottima scusa per prendersi una settima di ferie: quasi si maledisse di non aver investito quella bestiola, poco prima.
Per di più aveva consapevolmente affidato al suo saiyan una missione ad alto rischio per i suoi aristocratici nervi alieni.
"Allora! Metti in moto o scendi a spingere?!". "Datte 'na mossa altrimenti te parcheggio 'na mano in faccia!".
"Cafone!", ribattè, arrossendo in viso. Ripartì, sperando che le cose andassero come previsto. Aveva fiducia in lui, sapeva che ce l'avrebbe fatta.


L'aveva acchiappato facilmente. Nonostante quello ancora si dimenasse come una furia, fu portato di peso in soggiorno. La situazione stava degenerando e lui era arrivato al limite della sopportazione. Sentiva che era giunta l'ora della resa dei conti. Avrebbe potuto eliminarlo lì, sul posto, con un flash diretto al punto giusto. L'avrebbe giustiziato a sorpresa, mentre era girato di spalle, magari mentre si rifocillava, così sarebbe morto felice. Ma non poteva farlo. Sapeva invece cosa doveva fare, o meglio, cosa lei aveva desiderato facesse. Ne era completamente conscio. Sarebbe stata una condanna a morte crudele, almeno ai propri occhi, come quella che voleva infliggere al nemico per proprio conto... solo che a perire, questa volta, sarebbe stato lui e non il suo avversario dagli occhi gialli.


"No. Io no lo faccio" fu la sua rapida risoluzione.
Avrebbe sicuramente ricevuto critiche di ogni sorta, molto meglio sarebbe stato stare fermi e lasciare che il mondo girasse.
Prese il suo asciugamano e si diresse verso la camera gravitazionale, deciso a tornare alle sue consuetudini. Aveva altre priorità, come allenarsi fino allo sfinimento in periodo di pace... sì, quella splendida giornata di maggio, adatta forse solo per uscire a passeggio, gli sembrava proprio l'ideale per rinchiudersi nel suo rifugio fino a sera, quando la donna avrebbe fatto ritorno. "Che se ne occupi lei".
Non fece più di tre passi che la piccola gli si parò davanti, occhi bassi, braccia e gambe divaricate, intenzionata a sbarrargli il passaggio. 
"Bra, hai la testa dura peggio di tua madre".
Benché piccola, aveva intuito i piani del padre. Non gli avrebbe permesso tanto facilmente di oltrepassare l'uscio per recarsi là, dove a lei era severamente proibito l'accesso. Si sarebbe battuta con tutta se stessa, a costo di strusciare lungo tutto il corridoio aggrappata ai pantaloni della tuta del padre, fino a lasciarlo letteralmente in mutande.
Piantò le sue iridi celesti in quelle nere del padre, in un'espressione decisa e fiera che non apparteneva certo alla razza di sua madre.
"Teta dura, sì!" affermò con sicurezza. "Come il muro!" aggiunse, in un sibilo.


Eppure sentiva che non avrebbe più dovuto pesare su di lei. Il ricordo dei tempi passati lo aiutava a comprendere quanto fosse stato difficile, e non solo per sé, abituarsi a quella vita lì, su quel sasso sperduto alla periferia dello spazio. Si erano conosciuti per caso ed erano rimasti a condividere un'esistenza familiare che per la maggior parte era stata modificata, riplasmata, in  modo che sembrasse costruita su misura per lui.
Si ritrovò a pensare a lei, a quella violenta sfuriata che ora gli lasciava un retrogusto amaro, una sensazione che non poteva chiamare rimorso, perché incapace di pentirsi di qualcosa che conteneva anche solo un briciolo di verità. Della sua verità.
Piangeva. Era seduta sui gradini sotto il portichetto che dava sul giardino retrostante la casa, le lacrime le rigavano il volto, creando geometrie impensabili con i resti del mascara, i singhiozzi la spaccavano dentro e non erano più contenibili, il petto era scosso da movimenti che il saiyan aveva sapeva associare solo all'iperventilazione.
Avrebbe potuto godere di un panorama ampio, senza ostacolo alcuno ad impedirle la visuale, e godere del cielo terso e del verde della lussureggiante vegetazione. Invece sembrava di ammirare il mondo come se fosse stato riflesso su uno specchio bagnato, come dipinto da un pittore che aveva commesso l'errore di diluire troppo gli acquerelli. Non riusciva a mettere a tacere quanto era successo quella mattina:
"Padre, dici? Ancora insisti?" esasperato, i pugni chiusi sul tavolo, la testa bassa, gli occhi volti a fissare le briciole rimaste della grande festa indetta da Bulma per festeggiare la ritrovata pace la sera precedente. La pace... la pace di chi? Per Vegeta iniziava il calvario, ed egli se ne rendeva perfettamente conto. Quel ragazzo voleva riconquistare un padre che aveva perso troppo presto nel futuro dal quale proveniva, senza aver però calcolato che non avrebbe potuto portarselo appresso. Vegeta aveva visto suo figlio morire e ne era uscito distrutto; Trunks avrebbe dovuto dirgli addio a breve. Se amare e poi perdere faceva davvero così male, il saiyan aveva concluso che sarebbe stato meglio non affezionarsi di nuovo: non avrebbe retto alla fuga di un altro pezzo di cuore.
Una risata sfacciata colse il ragazzo di sorpresa. 
"Padre? Tu sei soltanto un incidente di percorso. Qui non c'è famiglia".

E alla donna: "E tu", gli occhi ridotti a due fessure, "Tu sei soltanto un errore!".


"Eccoci". 
"Moroboshi, papi".
Erano in piedi davanti al muro. Le teneva stretta stretta la manina. Per rassicurare chi, poi?
Passavano secondi interminabili. La bimba cominciava a tamburellare a terra con il piede, proprio come faceva la mamma quando aspettava impaziente.
"Dai!".
"Piccola impertinente! Perché non lo fai tu?"
"E' toppo in atto".
La mano si avvicinava lenta, il dito gli tremava, gli occhi socchiusi come chi sta per udire lo stridio di un pendolino in frenata.
Dlin Dlon!


Sbam!
Trunks, furente, aveva tirato un pugno violento contro la colonna portante della cucina, lasciando un segno profondo almeno una spanna, decorato con schizzi rubino.

La lingua del padre era stata più tagliente della sua proverbiale spada.
Ad ogni modo si sarebbe portato nel suo mondo l'amara consapevolezza di essere nato da una scopata. Solo desiderio fisico c'era stato tra i suoi genitori, almeno da parte del padre.
Eppure la sua mamma gli raccontava sempre di un guerriero che era una roccia contro ogni tempesta ma che, nelle sue fondamenta, era un uomo solo e profondamente
triste. E fragile, dentro.
Gli aveva tanto raccomandato di non farsi illusioni, di non cercare in lui, soprattutto non nelle sue parole e nei suoi occhi, quell'affetto che lei, da
sola, aveva saputo donargli.
Che una qualche strana forma di affetto ci fosse, il giovane ne aveva avuto la prova:
gli avevano raccontato che suo padre, visti i suoi rantoli prima della morte, era stato accecato dalla rabbia di averlo perduto e aveva reagito in un modo sconsiderato e inefficace... ma aveva reagito, e questo gli dava la forza di credere che gli si era affezionato. Era destinato a sbattere contro il muro d'orgoglio che Vegeta aveva ricostruito in tempi record. Un muro ora avvolto da un'aura di depressione visibile ai più.


"Ma è meraviglioso! Ringrazi davvero tanto sua moglie da parte mia e della mia bimba".
"Mh". Quante moine doveva ancora sopportare? Terrestri, che razza di perditempo.
"Ci farà tanta compagnia, rallegrerà le nostre giornate". La signora sorrideva entusiasta, congiungendo le mani all'altezza del ventre. "Posso offrirle un caffè?".
Le vene sulle tempie cominciavano a pompare più sangue del consueto.
"Avanti Bra, andiamo".
"Ma papi io...".
"Niente -ma-. Non fare storie".
Ne mancavano solo due. Il grosso del lavoro era stato fatto. Sollevò la figlia prendendola da sotto le ascelle e la depositò sul seggiolino del sedile posteriore, vicino alla gabbietta.
Si mise al posto di guida e ingranò la retromarcia. Nel fare manovra squadrò la figlia: "Dammelo, non fare scherzi".
Il sorriso da birbante che si aspettava nascesse sulle labbra della bimba non fece la sua comparsa. I suoi occhietti celesti si riempirono di lacrime, che presero poi a correrle lungo le guanciotte paffute. 


Si era avvicinato piano e si era inginocchiato dietro di lei, che non si muoveva da quei gradini da ore.

"Sei - soltanto - un - errore". Aveva scandito una per una quelle parole, le aveva pronunciate un'altra volta, ora con più calma, in un sussurro degno del principe dei demoni.
I singhiozzi di lei ricominciarono a crescere. La ferita appena tamponata dal trascorrere di qualche oretta adesso ricominciava a riversare copiosi fiotti di sangue vivo.
"Stupida bestia!". Un urlo disperato era riuscito a farsi strada tra i sussulti del suo petto. Avrebbe dovuto mandarlo via prima; ora era troppo tardi. La sua presenza era un gas velenoso che corrodeva tutto quel che potesse appartenere alla categoria del bello. Stava facendo del male a tutti, a lei e al loro piccolo Trunks. E ne aveva appena fatto all'altro Trunks. E stava facendo del male anche a se stesso, negandosi l'unica donna che l'avesse mai amato.
"Perché?" chiedeva disperata, "perché devi essere così?... ti detesto, Vegeta, ti odio!".
Il Principe osservava la linea sinuosa che partiva dal mento, percorreva il collo e moriva oltre le belle spalle di lei. Il profumo dei suoi capelli... Non aveva nemmeno ascoltato quello che a lui era parso un delirio di singhiozzi e parole sconnesse.
"Ma," aveva ripreso in tutta tranquillità, "in genere quando inizio a sbagliare, purtroppo vado avanti finchè non sbatto la testa contro il muro. Che vuoi farci, sono fatto così".
Il sorriso di autoironia appena accennato di lui contrastava con gli occhi allucinati di lei. 
"Veg...".
"E succederà. Forse tra un paio di giorni, forse tra cent'anni. Io questo non lo so. Ma puoi star certa che succederà".
Aveva continuato imperterrito il suo monologo, ora giocherellando con una ciocca turchese tra le dita. Il pianto di lei era scemato.
"Quindi... non vai più via?". La mano stretta a pugno appena sotto la gola, glielo chiese con la voce piena di trepidazione.
Il saiyan sembrava quasi rendersi conto solo ora che lei avrebbe potuto aprir bocca a suo piacimento, che non aveva parlato con la solita rappresentazione mentale di lei, perfetta, che
si era costruito perché rimanesse inalterata dagli squilibri della Bulma originale.
"Finché non mi schianto, no".



Inalò tanta aria da farsi scoppiare i polmoni e la trattenne alcuni secondi. Chiuse gli occhi, pollice indice e medio premevano forte sulla sua fronte. Buttò fuori l'aria e guardò la piccola.
"L'hai lasciato in mano a quella?". La piccola stringeva i pugnetti chiusi sotto le gote, le nocche erano ormai macigni che cercavano impotenti di arginare una cascata.
"Bra! Sì o no?".
"No mi ricoddo...".
"Dannazione! Ora mi tocca interpellare tua madre".
Afferrò quell'aggeggio che tanto detestava. Come poteva la sua compagna starvi attaccata per ore a ciarlare del niente?
Aveva imparato a guidare l'automobile solo per trasportare la bimba, ma quello strumento no, non lo voleva. Voleva preservare una buona fetta di indipendenza, che mal si sposava con la reperibilità costante.
Quindi gliel'aveva installato direttamente in auto: poteva rinunciare a conoscere dove fosse suo marito, che talvolta spariva in chissà quali lande desolate per giorni, ma da madre responsabile non poteva non assicurarsi del benessere della sua piccola. L'aveva installato apposta per lei, diceva. "Palle!" si era ritrovato più volte a pensare; era brava ad inventare scuse quando poteva basarle su una mezza verità.
Sospirò pesantemente. "Avanti".
"Te due nove, oto sete, oto sei, oto oto te".   


Cell era stato sconfitto. Almeno questa era una vittoria: il muro della morte che minacciava di franare sulla loro relazione era stato abbattuto, ma non bastava.

La loro vita era salva, il loro rapporto di coppia
non ancora.
Avevano condiviso parecchio tempo in quella candida stanza in cui l'orologio rallentava e lo spazio si estendeva a dismisura; aveva combattuto con quel ragazzo venuto dal futuro per prepararsi al torneo indetto dal mostro, ma soprattutto aveva scandagliato per benino le intenzioni di chi si diceva figlio di Bulma Brief.
"Quindi mia madre ha costruito questa macchina per permettermi di tornare a salvare voi tutti".
"Perché invece non vi siete messi in salvo in una dimensione del passato? Ti saresti risparmiato una bella fatica, come puoi notare tu stesso".
"Mamma voleva che almeno in un futuro alternativo i suoi amici di sempre fossero felici. Se non fossi tornato indietro ad avvisarvi del pericolo, la storia si sarebbe ripetuta".
"Sciocco! Non potevi semplicemente tornare e distruggere quel vecchio pazzo?".
"No! Così voi due non ..." . Arrossì violentemente.
I due in questione si sarebbero comunque trovati insieme sotto un lenzuolo. Ma suo padre li avrebbe presto abbandonati per rituffarsi nel mare nero nell'universo, che aveva forgiato i suoi occhi.
Ora rimarcava di essere tornato a casa solo per poter combattere contro quei robot
, invece Vegeta sapeva bene che lei aveva costruito quella macchina solo per salvare la loro relazione.
"Tua madre è una grande egoista".


"Pertanto, se alzassimo il tasso annuale generico annuo al 2,4 % e aumentassimo la garanzia di due anni non avremmo comunque un incremento tale da permetterci di ... vogliate scusarmi..." 
L'amministratore delegato in gonnella lasciò l'ampia tavola rotonda e si spostò nel corridoio.
"Pronto?... Pronto, Vegeta?... Pronto?". Aspettò alcuni istanti poi, con un velo di preoccupazione dipinto sul volto, rientrò nel salone.
"Vi porgo nuovamente le mie scuse. Dicevo, se aggiungessimo invece una copertura per furto e incendio...".

"Apetta papino!". Il pugnetto sbatté forte sul palmo aperto dell'altra manina, proprio come faceva la mamma quando aveva un'idea.
Tasto rosso. Subito.
"Ataru abita dove passa il tenino, so la casa!". 
Eccola, la sua cucciola. Si innamorava di lei ogniqualvolta riuscisse a sorprenderlo. O a salvarlo.
"Bene. Ora però smettila di frignare o ti scarico in mezzo alla strada".
Un nuovo sorriso si dipinse sul volto di entrambi e il padre sentì i suoi occhi socchiudersi e farsi più dolci. 


Comodamente seduto sul suo seggiolone, il piccolo Trunks guardava con aria interrogativa quello strano quadro sul muro, così diverso da tutti gli altri, rappresentanti una natura variopinta e felice. Quattro sottili listarelle blu: Bulma aveva sapientemente incorniciato quel pugno, con i suoi schizzi di sangue ormai imbruniti, per mai dimenticarsi di quell'altro suo figlio.

Era un bel quadro, gli diceva la mamma, perché l'aveva dipinto un ragazzo tanto importante, che aveva fatto tanto bene a lei e a papà, soprattutto a papà.
Non potendo capire, lo sguardo del bambino era presto stato catturato dalla sua morbida pallina arcobaleno, che gli giaceva innanzi a pochi centimetri. Allungava le braccia cicciottelle nel tentativo di afferrarla, senza demordere, facendo piccoli versetti che rimarcavano il suo sforzo. Vegeta stava seduto di fianco al suo bambino e lo fissava serio, senza alzare un dito.


"Fratellone!"
La piccola, liberata dalle cinture di sicurezza del seggiolino, gli saltò in braccio.
"Ciao monella!" le disse, prendendole il nasino tra le dita. "Non hai fatto tribolare papà, vero?".
"Tribolare?... Sarebbe stato poco". Il saiyan si avvicinò all'uscio di casa con la gabbietta sottobraccio.
Il ragazzo guardò la sorellina con un serioso cipiglio interrogativo.
"Perduto foglio con dove abitano i miei amici..." confessò la piccola, facendo scontrare gli indici delle manine tra di loro.
Riusciva a stento a trattenersi dallo scoppiare a ridere di fronte alla mortificazione della sorellina. "Ma ...lui?" chiese, indicando il prigioniero.
"Umpf, mi sa che dovremo sorbirci la bestiaccia ancora per qualche tempo".
"Pecchè Sakurambo no c'era...".
Guardava quei tre interagire attraverso le sbarre e reclamava l'urgente bisogno di uscire di lì.
"Poche ciance ora. Su, tutti dentro. Il mio stomaco ha da ridire già da un bel pezzo".


"Eh..." sbuffando scocciata, la donna si staccò dai fornelli.
"Adesso la mamma te la dà... tieni tesoro mio". Con un sorriso gli porse in mano la pallina, che il bimbo accolse come un tesoro.
"La mamma te lo dà... sempre la mamma te lo dà! Guarda un po'!". Il saiyan la
guardava inespressivo, cogliendo a pieno il sarcasmo direttogli dalla compagna ma scegliendo di non reagire.
Prese a rimestare lo spezzatino con movimenti sempre più forti. "Devi ancora farne di strada, caro mio! A non far niente non si sbaglia mai! Vero, Vegeta?"
Aveva capito la strategia del compagno: era giunto alla conclusione che sarebbe stato meglio per tutti starsene buoni, non fare niente, lasciar fare ai terrestri e non immischiarsi nella crescita di suo figlio. Infondo, l'altro Trunks era diventato un giovanotto più che degno di essere considerato suo erede legittimo anche senza di lui: quale contributo avrebbe mai potuto offrirgli per migliorarlo? Aveva stabilito che era meglio stare sul sedile del passeggero senza responsabilità alcuna... se poi si fosse schiantato, la colpa sarebbe stata del pilota.
Ma non poteva lei, da sola, detonare tutti gli ostacoli che sarebbero venuti.


Sbam!

Udì la chiusura dello sportello dell'auto e i passi di sua madre sulla ghiaia del vialetto.
"Bentornata mamma!".
Gli schioccò un bacio sulla guancia. "Ciao tesoro mio".
Meow!
Si portò una mano al petto, mentre la delusione iniziava a trapelare dai suoi occhi già bagnati. "Ma ... lui?". Forse aveva sbagliato, forse aveva preteso troppo, forse era successo qualcosa, forse...
"Tranquilla ma'! E' rimasto solo questo. Gli altri li hanno regalati tutti. Bra ha combinato un po' un casino smarrendo la lista degli indirizzi, papà stava per chiamarti ma poi il tutto si è risolto per il meglio".
Un sospiro di sollievo, il cuore colmo di gioia.
"Bra, sbadata peggio di sua madre!". Vegeta fece il suo ingresso in soggiorno strofinandosi i capelli ancora bagnati con l'asciugamano. 
"Buonasera amore mio". Un sorriso che valeva più di mille parole di sorpresa per quanto avesse fatto quella giornata.
"Mh".
"A proposito, dov'è la piccola peste?".
"A mollo con le dita palmate, va' tu a tirala fuori".
Questo l'avrebbe fatto volentieri, dopotutto era già stato un immenso piacere trovare i suoi figli sfamati e puliti... una per metà, ma era evidente che il saiyan fosse giunto al limite della sopportazione.
Lo sguardo le cadde sull'avambraccio di lui; gli si avvicinò con fare indagatore, ma lui fece un passo indietro, deciso a non farsi studiare come una cavia. Gli afferrò il polso: "Che brutto quel graffio. Te lo sei disinfettato?"
Ritirò l'arto con stizza. "Non è affar tuo. Piuttosto, se quella stupida bestia si infilerà di nuovo nei condotti di areazione della Gravity Room, io non garantirò un'altra volta la sua incolumità! Sono stato chiaro?!".
Meow!
Si incamminò per le scale che portavano al piano di sopra, in attesa della bramata ricompensa per tutta quella faticaccia.
"Almeno ho finito con i consulti finanziari per la messa in vendita del nuovo prototipo. Domani revisionerò i condotti e vedrò di metter qualche grata in più per il micio".
"Povero" disse il ragazzo carezzando la schiena all'imputato, che iniziò a fare lo slalom tra le gambe di madre e figlio.
"Papà è stato bravo ad accorgersene. Se fosse rimasto un po' di più, si sarebbe fatto del male. Devi imparare a non far niente quando c'è papà! capito?"
Ron Ron ... .
"Ad ogni modo, non credevo che si sarebbe mai fatto carico di un compito simile. Non so tu come l'abbia corrotto, ma l'insistenza di Bra oggi è stata determinante".
"A quanto pare, tuo padre ha la testa più dura del muro".


"A non far niente non si sbaglia mai! Vero, Vegeta?". La cena era quasi pronta, avrebbe potuto limitarsi a mangiare in silenzio. Sfamarsi, quello lo sapeva fare bene. Ma dal basso ventre del saiyan iniziavano a propagarsi ondate di un appetito ben diverso. Si alzò di scatto e la raggiunse. Le strappò il mestolo di mano e lo scaraventò a terra. Il rumore metallico fece sobbalzare il piccolo dalla sua comoda seduta.
"Non osare mai più rivolgerti a me in questo modo". Era stata una riconciliazione strana, la loro. Lui aveva deciso di restare in quella casa, lei aveva deciso di lasciarlo vivere sotto quel tetto.
Da troppe settimane soccombeva a quella relazione casta e pura, fatta di solo spirito, senza carne al fuoco. Lo spezzatino poteva continuare a ribollire anche senza le mani di lei: quelle servivano a lui.
"Vegeta, ma che fai... ?". In un attimo l'attirò a sé cingendole la schiena saldamente.
"Faccio quello che so fare". Le afferrò i polsi e glieli inchiodò sul pianale in marmo tra i fornelli e il lavello. La forzò ad inarcare la schiena all'indietro, spingendola con il proprio peso.
Poteva sentire la sua voglia premerle addosso, impaziente. "Non è più sufficiente così".
Annebbiato dal desiderio, aveva cominciato a baciarle il collo in modo brusco. Aveva tra le mani ciò che un tempo gli era appartenuto e che poi aveva scioccamente perso. Ora era tornato ad essere suo, e doveva esserlo in tutto e per tutto. Gli spettava di diritto.
Consapevole della propria virilità, la guardò con la sua solita faccia da schiaffi, con quel sorrisetto di scherno che padroneggiava con assoluta maestria.
"Che c'è donna? Non ti basto forse?".
"Non basta che tu faccia solo quello che sai fare". Raccolse le forze e lo allontanò un poco da sé. "Io non voglio".
"Oh, sì che lo vuoi...". Con la voce ormai roca, era tornato con prepotenza contro di lei.
Questa volta doveva dettare meglio le condizioni, altrimenti quel loro imminente amplesso sarebbe stato solo un passo indietro. Sarebbe tornato a fare di lei il suo giocattolo.

La mano di lui aveva superato la barriera degli slip fino ad insinuarsi nei pressi della sua intimità. "No, non così".
"Sei una bugiarda, il tuo corpo non mente".
"Non davanti al bambino".
"Non me ne frega un cazzo del tuo marmocchio".
Si sentì ribollire il sangue. Se fosse stato un normale essere umano, l'avrebbe preso a calci fino a fargli sputare sangue e bile.
"Fermati. Devo dirti una cosa prima".
"Taci".
"Ho detto che dobbiamo parlare".
"Zitta, parlerai dopo".
"BASTA!". L'aveva urlato, interrompendo i gesti di lui. Il piccolo aveva cominciato a piangere disperatamente. "Lo senti, eh? Lo senti piangere o sei sordo? Lo vedi quel bambino? Sai che è anche figlio tuo? O pensi che sia figlio di Yamcha, eh? Non ti è bastato vederlo ventenne per convincerti?".
"Mai ho rinnegato che tuo figlio sia mio".
"Ma ti ascolti quando parli? - Che tuo figlio sia mio -. No bello, quello è tuo figlio, nostro figlio, mio figlio. Io non sono la balia del tuo erede e tu non sei indispensabile per me, ficcatelo in testa".
"Mai ho ritenuto esserlo, sciocca terrestre".
"Bene! Tanto meglio per te! Ma ora apri bene le orecchie principino: qui la cosa è full-optional. Se prendi me, accetti anche lui, senza mezzi termini".
"Mai ho rifiutato mio figlio".
"Lo fai ogni giorno quando nemmeno lo guardi negli occhi. Non puoi fare solo quello che già sai o quello che vuoi fare, non con lui, non se lo merita. Ora prendi Trunks e mettilo a nanna nella sua culla, io ti aspetto in camera. Altrimenti esci da questa casa e non rimetterci piede mai più".
 


Asciugò i capelli alla sua bimba, che quella sera li aveva voluti sciolti come piacevano al suo papà.
Nello specchio vide lo sguardo della piccola farsi buio. Spense il phon e le accarezzò la guanciotta.
"A che pensi?". Qualunque preoccupazione avrebbe dovuto essere dissipata dall'animo dei suoi figli. Qualunque. Non avrebbero mai dovuto patire più di quanto non  fosse nell'ordine della normalità.
"I mici... pe te tanno bene coi nuovi bimbi?".
Sorrise. Queste erano le preoccupazioni di sua figlia. Nulla sapeva del dolore, delle attese, dei rifiuti, delle battaglie che aveva ingaggiato per darle quella serenità. Desiderò che restasse piccola per sempre.
"Tesoro mio, non ricordi cosa ti dice sempre il nonno? I cuccioli nati a maggio sono i più forti! Loro stanno nella pancia di mamma gatta nei mesi più freddi, così quando nascono fa già un po' caldino...".
"Ta poco è il mio compleanno".
"E' vero". La sua cucciola, forte come i gattini di maggio, sbadigliava a ripetizione e si strofinava gli occhietti rossi con le manine. "Adesso però andiamo tutti a nanna, ok?"
La prese in braccio e si avviò per il corridoio verso la sua cameretta. "Bacino a papà!".
"Amore, papà è già a nanna da un bel pezzo. Glielo do io un bacino per te, va bene?"
"Mh." Le accarezzava i capelli dolcemente, era dura dissuaderla dal bacino della buonanotte.
"Dai, domani gliene dai due, anzi tre! Adesso ficcati sotto, da brava. Ti lascio accesa la lucina blu. Buonanotte cucciola mia, dormi serena".
"Notte mami".


Non gli sembrava vero di riaverla tra le sue braccia, serena come non l'aveva più vista da anni. Sembrava una ragazzetta alla sua prima cotta. Si era accoccolata sul petto di lui, sfinita dalla passione.

L'aveva fatta sua in tutti i modi che conosceva, voleva farle sentire quanto egli bruciasse per lei, quanto a lungo l'avesse aspettata. Non sapeva cosa provasse per lei, non conosceva quel fastidio dentro al petto. Avrebbe voluto confessarglielo, ma sarebbe sembrato uno stupido. Perché in questo caso non era una questione di fare solo quel che si sa già. Avrebbe potuto mettere suo figlio a letto sottosopra, ma non avrebbe potuto dare un nome a qualcosa che non conosceva. Avrebbe potuto chiamarlo affetto, ma come esserne certi, se non lo si aveva mai sperimentato?  
Avrebbe lasciato che il suo corpo parlasse per lui, che le sue mani dicessero quello che ancora non sapeva.


Sbam!

Si ritrovavano così, lui sopra di lei, come accadeva ormai da molto tempo. Al diavolo le acrobazie da kamasutra: non ne avevano bisogno.
Lui, i boxer appena abbassati per permettere al necessario di uscire allo scoperto, la canotta nera ancora indosso, faceva leva sui gomiti per non soffocarla.
Lei, la camicia da notte sollevata fino ai fianchi, una spallina appena calata per concedere al saiyan di bearsi del suo seno, gli passava una mano tra i capelli e con l'altra si aggrappava al suo tricipite.
Così potevano fare l'amore abbracciati, baciarsi, sentire il calore della loro pelle, vedere la propria passione riflessa negli occhi dell'altro, sussurrarsi parole all'orecchio, sentire il respiro dell'altro, percepire odori e sapori come non mai.
Palle. Quella era solo la miglior posizione anti-figlio escogitata dai due, esasperati dalle continue intrusioni della piccola Bra. 
Sbam!

"Amore...". Piantato un ginocchio nel materasso, aveva iniziato a spingere in lei.
Sbam!
"Vegeta...". Udire quelle labbra pronunciare il suo nome lo mandava in visibilio. Soprattutto quando ci aggiungeva "animale...".
Sbam!
"Ve.. Vegeta, tesoro, non...". La sua voce, una sirena ammaliatrice. Gli occhi socchiusi, la vista annebbiata, aumentava il ritmo in modo frenetico.
"Mh... Donna..."
Sbam!
"Vegeta! Porca miseria! L'intonaco!".
Maledetta sponda del letto che sbatteva contro il muro. Maledetto il missionario o chi avesse mai inventato quella posizione. Maledetta Bra, che appena vedeva la stanza dei genitori chiusa a chiave si metteva ad urlare con una pazza in preda al panico. Maledetto Trunks, che ai tempi l'aveva persuaso a restare con quella donna e quel marmocchietto lilla.
"Maledetto Kakaroth!". Lo guardò con aria interrogativa.
Già, maledetto Kakaroth che... che... beh, c'era sempre una ragione per inveire contro il rivale!
La girò in orizzontale e le sistemò un cuscino sotto la testa. Solo pochi centimetri tra i loro visi.
"Dov'ero rimasto?". Le soffiò malizioso sulle labbra, prima di catturale di nuovo con le proprie. 
Vegeta ripensava spesso alla sua vita... e non aveva le idee molto chiare su come il fato l'avesse condotto fino a lì, in quella situazione, su quel pianeta, con quella donna.
Una certezza però albergava nel suo cuore: se mai si fosse schiantato contro il muro, ci avrebbe portato contro pure lei.




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FREE TALK
Ataru, Moroboshi, e Sakurambo sono nomi presenti nell'anime "Lamù"; colgo l'occasione per suggerirvi un'altra buona serie da leggere.
W i lettori attivi... aspetto le vostre opinioni!
Countrygirl_90

  
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