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Autore: smile_book    02/06/2013    3 recensioni
Quando si muore, si è troppo occupati a pensare a tutto, per pensare alla morte. Io penso alla mia famiglia, a mia madre, a mia sorella, a mio padre, perfino, alla mia vita, ai miei errori, alle cose che non scoprirò mai, alle lezioni imparate. E mi viene in mente una citazione. Forse l'unica cosa per cui non reputo la scuola una totale perdita di tempo. L'unico problema della bella frase, è che vorrei avere un minuto di più da vivere, per confidare questo segreto a qualcun altro.
“Vivi come se dovessi morire domani. Impara come se dovessi vivere per sempre.”
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tenia Solium




“La vita è un sogno da cui ci si sveglia morendo”
 
Ci sono io e lui. Siamo uno di fronte all'altro, a fronteggiarci.
Lui è il nemico, la guerra che sono destinata a perdere, l'ostacolo che non oltrepasserò mai. Lui ha varie forme, può essere quadrato, tondo, ovale, grande o piccolo. Di solito si trova in bagno, ma io lo vedo dappertutto, nonostante lo eviti come la peste. Mi perseguita.
Vorrei poter semplicemente chiamare la polizia e denunciarlo per stalking, ma non posso, non posso. Ci ho rinunciato, ad evitarlo. E' una battaglia persa in partenza. Così resto ferma, di fronte a lui, aspettando che mi uccida lentamente. Scivolo con la schiena sulla parete, fino a lasciare che la forza di gravità mi attragga a terra. Mi sento una calamita che ha perso la carica, e non ha nemmeno più la forza di restare in piedi. Mi lascio cadere, e mi rendo conto che è molto più facile. Il dolore è tanto, ma è quasi meno lancinante. E' come se l'avessi accettato, se mi fossi abbandonata a questo mare di spine, accettando il mio destino.
Ed eccolo lì, proprio davanti a me, a un braccio di distanza, il mio nemico. Lo vedo quasi ghignare vittorioso. Incombe su di me, gravoso e maligno. Mi fa paura, ma non ho la forza di reagire. Aspetto che mi travolga.
Non posso evitare di guardare, masochista, il riflesso. Studio ogni piccolo dettaglio, avida di difetti. Voglio imprimermeli tutti nella mente. Il volto è tondeggiante, le guance piene ed arrossate. Qualcosa le riga e riflette la poca luce proveniente dalla finestrella. Risalgo la striscia di una lacrima, immergendomi, così, in una macchia di caffè.
Scendo precipitosamente verso il basso, soffermandomi sulle labbra tremanti. Tutto il corpo, a dire la verità, assomiglia ad un ramoscello mosso dal vento. Il problema è che il mio corpo è l'esatto opposto di un esile ramo. Le braccia abbondanti sono strette convulsamente intorno a delle ginocchia che mi ricordano un lottatore di sumo. Distolgo lo sguardo, e con un singhiozzo lancio occhiate disgustate al resto delle mie gambe. Passo all'addome, allo stomaco, al seno. Sfioro ogni parte del mio corpo con le dita cicciottelle, più volte. Mi voglio accertare che sia tutto reale. Forse sono le lacrime che mi hanno fatto girare la testa, ma improvvisamente mi sembra tutto una bolla di sapone, troppo sottile e debole per non essere scoppiata, ma anche troppo lontana per farlo.
Marco a fuoco quest'immagine nella mia mente, perché possa ricordarla per sempre.
E la ricordo, la ricordo bene.
Avevo sottovalutato il potere del nemico, però. A pensarci, forse, non mi serve nemmeno fissarmi nella memoria le serate passate in lacrime e urla di frustrazione, perché ci pensano già gli altri.
Ho paura di uscire. Ricorderò per sempre questa sensazione, perché è fredda, e penetrante, e ti attanaglia lo stomaco. Ti fa piegare involontariamente la testa verso il basso e stringere le braccia attorno al corpo, nella speranza di nasconderlo, di proteggerlo dalle frecce del campo di battaglia. Ogni occhiata è una ferita cruente, che mi indebolisce. Mi sembrano impossibili da sopportare, ma non ho ancora visto nulla.
La guerra è appena iniziata, e devo ancora vedere il suo lato peggiore. Credevo di aver paura della violenza fisica e del dolore che un pugno può provocare. Mi sbagliavo. C'è qualcosa di sadicamente giusto nella sofferenza fisica. E' la più viva delle sensazioni, forse l'unica in grado di ancorarti alla realtà, l'unica che ti impedisce di volare via. E' una logica perversa e contorta, ma è pur sempre logica. A scuola insegnano che la logica è importante nella vita. Io però non sono mai stata brava matematica.
Non ricordo qual è stata la prima volta che appresi questa lezione, ma ricordo tutte le altre. L'arma migliore del nemico, la più tagliente, affilata e letale è la parola. Fa male, un male diverso da quello cui sono abituata. Non ero preparata la prima volta, ma lo sono ora. C'è una difesa per tutto, e per le parole, la miglior difesa, è far finta che non ti tocchino. Ho sentito storie, favole quasi leggendarie di eroi coraggiosi, così impavidi che non temono le parole e coloro che le usano. Il mio sogno? Diventare una di loro, un giorno. Un giorno, sì, un giorno lo sarò. Ma non è oggi il giorno.
Proprio perché non è oggi il giorno, l'ho fatto.
«Ne è sicura, signorina? Allora? Non ho tutta la giornata?»
La fretta nella voce rude e burbera di quell'uomo mi mette ansia. Non posso tirarmi indietro, non più. Ho paura di quell'uomo, mi intimorisce. E' un armadio con la testa liscia, simile ad una palla da biliardo. C'è più inchiostro che pelle lasciato scoperto dalla sua maglia nera a maniche corte. La puzza della sigaretta che stringe tra le labbra mi annebbia i sensi, facendomi arricciare il naso per la disapprovazione.
Non posso arrendermi «S-sì. Sono sicura.»
«Finalmente, pensavo avesse perso la lingua!» esclama scocciato, esalando una nuvola di fumo «Sono cento venti»
Annuisco e gli porgo i soldi.
Sta succedendo, così veloce, così sbagliato, eppure maledettamente gratificante.
Alla fine, mi sento soddisfatta. Ho fatto la cosa giusta, mi dico, o almeno, cerco di convincermene. E' fatta.
Non so com'è successo, come mi è venuta l'idea. Anzi, sì, lo so. L'ho sentito dire ad una ragazza a scuola. Circa un mese fa. Ero chiusa nel gabinetto, singhiozzavo in silenzio. Sentivo lo sporco del pavimento appiccicarsi ai miei vestiti. Rabbrividisco al ricordo. Mentre cercavo di calmarmi, era entrato qualcuno. Due ragazze. Non avevo mai sentito le loro voci. Capii a malapena le parole.
«Dici davvero? Ma non è pericoloso?»
«Oh, no, è bastata una piccola operazione e ora me ne sono liberata! Ho perso dieci chili in un batter d'occhio!»
«Ma Sara... una Tenia... hai idea di quanto tu abbia rischiato?»
Lì avevo smesso di ascoltare. Mi erano bastate quelle poche battute per capire tutto. Avevo già sentito parlare di quel verme, il verme solitario. E' un verme che si forma alla bocca dello stomaco di alcuni animali, e raramente nelle persone. Sopravvive nutrendosi di ogni cosa che l'organismo ingerisce, prosciugandolo dall'interno e crescendo sempre di più.
Quando tornai a casa, quel giorno, non persi tempo e cercai su internet tutte le informazioni possibili a riguardo. Molte modelle avevano sperimentato lo stesso metodo. Articoli di riviste di moda riportavano le loro parole entusiaste riguardo alla repentina perdita di peso. Forse sono pazze, lo so, e io ancora di più a pensarci, so anche questo. Forse è solo un'idea stupida, ma ora mi sembra la mia unica via di fuga. L'idea di poter mettere tutti i vestiti che voglio, di non vergognarmi di fare shopping, di non aver paura di camminare in strada, di non essere giudicata, m'inebriò. Mi ubriacai di quell'illusione, e la speranza mi comandò.
«Tesoro, come mai sei tornata così tardi?» mi chiede mia madre, quando torno a casa, più tardi del solito.
Scrollo le spalle, rimanendo sul vago «Ho fatto un giro...»
«Davvero? Con qualcuno?» le si illumina il viso alla prospettiva che mi sia comportata da adolescente normale. Non posso preoccuparla ulteriormente, non voglio che si senta in colpa. Merita di avere una figlia felice e normale.
Sorrido «Sì, con Marika»
Non sembra notare la falsità del sorriso, ma non gliene faccio una colpa. Sono migliorata negli anni. Chiunque potrebbe distinguere un sorriso vero, da uno falso, da uno come il mio, ma la verità è che alla gente non interessa, non importa davvero nulla. Le persone possono vedere oltre il sorriso, ma non vogliono. Non vogliono vedere la verità, pretendono un “bene, grazie” accompagnato da un sorriso, che sia falso o meno conta poco.
Ma mamma è un caso a parte. Ha già troppi problemi, lei è forse l'unica che non ha la forza di vedere, invece che la voglia.
La sera arriva lentamente, così come passano i giorni successivi.
Impaziente. Sono impaziente ed ansiosa. Ho bisogno di vedere risultati. Provo un senso di disgusto e nausea a pensare a ciò che vive dentro di me. E' come se non fossi sola, come se avessi un figlio da sfamare. E' inquietante. Un po' mi fa paura, ma mi rassicuro pensando a quella ragazza a scuola, che aveva risolto tutto tranquillamente, e a tutte le modelle che adesso erano ancora più belle.
Mi sono accorta di avere molta fame. Ho sempre fame, più di quella che dovrei avere. E' spiacevole contenermi sempre, fingere di essere sazia, sperare in qualche risultato dovuto alla buona volontà, e poi rendersi conto che non sarebbe mai arrivato. E' da quando ho sette anni che provo diete, stringo la mano a dietologhe belle e magre e alte, e fingo di non essere dispiaciuta quando vedo che la lancetta della bilancia non si sposta verso il basso. “La prossima volta andrà meglio” mi dicono, ed io me lo ripeto, provando a crederci davvero.
Tutti dicono sempre, solo la stessa parola: dimagrire. E' un verbo che va di moda, davvero non capisco cosa ci trovino tutti di così bello. Io lo odio.
Mi ha rovinato la vita e continua a rovinarmela.
E il quarto giorno che per la prima volta mi scende una lacrima di gioia.
«Anna, hai mangiato di meno ultimamente?» la voce di mia madre rompe il silenzio creatosi a cena.
«No..» rispondo flebilmente.
«Di meno? Ma se mangia come un maiale!» il commento irritante di mia sorella minore mi fa irrigidire. Le lancio un'occhiataccia di traverso, fingendo che quelle parole non mi avessero minimamente sfiorata. Fingere, fingere e negare. Sempre lo stesso motto.
«Be’, mi sembri dimagrita»
Rispondo al suo sorriso con entusiasmo, lasciando che le mie labbra si distendano in un'espressione felice.
Poco dopo sento degli occhi irruenti studiarmi. Non sono quelli delicati di mia madre, né quelli curiosi e innocenti di mia sorella. Erano i suoi. Non dice una parola, limitandosi a fissarmi con astio. Non lo guardo. Lui per me non esiste. Lui per me non è nessuno e mai lo sarà, figuriamoci un padre. Non merita quel titolo.
La sera mi chiudo in bagno. Mi spoglio con calma e studiata lentezza. Il timore che le parole di mia madre fossero false si fa sentire sempre di più.
Rimasta in intimo, mi osservai. La piccola lacrima di speranza che mi era scesa, si asciuga in fretta. Mi osservo, mi studio, mi analizzo. Grasso. Vedo solo grasso. Sono solo grasso. Non posso non pensare “Che schifo”. E allora, in un attimo, mi piovono addosso tutti gli insulti, tutte le accuse, tutti i rinfacciamenti fattimi negli anni. Mi cadono sulle spalle con la forza di una frana, facendomi accasciare al muro. Perché non funziona? Perché sono ancora brutta, grassa, sbagliata?
Passa una settimana. Mangio sempre di più. Ho fame, non riesco a fermarmi, e per quanto mangio, non devo stupirmi di vedere i rotoli di ciccia sui miei fianchi. Affogo ogni dispiacere, problema, debolezza nel cibo, come facevo prima, solo ora con un bisogno ancora più impellente.
Le persone mi guardano in modo strano, ancora. Mia madre insiste nel dire che sono dimagrita e che dimagrisco sempre più in fretta. Sembra quasi preoccupata.
Al dodicesimo giorno, mia sorella smette di fare battute. Mi guarda come se fossi un alieno. Mio padre continua con occhiate insistenti, sempre più ostinate e asfissianti. Mia madre mi sembra dimagrita.
Quindicesimo giorno. Sono tornata dalla dietologa. Dice che sono dimagrita di vari chili. A me non sembra, ma mi limito a sorridere ed annuire come se non fosse cambiato nulla da quando mi diceva che non riuscivo a perdere peso.
Ventesimo giorno. Ho fame. Non riesco a fermarmi. Mangio sempre di più. E ho sonno e mi sento debole. Ad ogni pianto mi sembra di gettare via l'anima. Ad ogni respiro, sono in affanno, ad ogni passo, mi sento cedere le gambe.
Mi illudo che stia funzionando, ma ogni volta che azzardo una sbirciata allo specchio, il nemico mi distrugge con un fendente ben assestato. Non è cambiato nulla in me.
Venticinquesimo giorno. Sono un vegetale, con l'unica eccezione che mangio di più. Ci sono giorni in cui non riesco nemmeno ad alzarmi dal letto. Sono costretta a saltare la scuola, anche se questo non posso chiamarlo dispiacere. Penso solo, esclusivamente, al cibo. Mi tormenta. Negli incubi, di giorno, a scuola, a casa, finché non lo trovo e mangio. A scuola non mangio come sempre. Mi vergogno a mangiare davanti alle persone. Mi sento i loro occhi addosso e immagino cosa pensano. So cosa pensano. Pensano che mangio troppo. Devono pensarlo, so che lo pensano. Io lo penso.
Eppure, non riesco a fermarmi.
Mia madre è stressata. I solchi sulle guance diventano più evidenti, le occhiaie più scure, la voce più tremolante. Mio padre ha limitato i suoi commenti, le sue conversazioni con noi sono inesistenti. Noi per lui non esistiamo, e così lui per noi. Mia sorella piange la notte, senza motivi apparenti.  Ho provato a chiederle cosa c'era che non andava, ieri, mi ha semplicemente guardata tornando a piangere finché non è arrivata la mamma.
Non capisco più nulla di quello che succede. Mi sembra di essere troppo stanca anche per pensare. Che mi succede?
Sono passati solo pochi giorni... giusto? Non me lo ricordo più.
E' sera, credo. Abbiamo appena finito di cenare, sì, questo lo ricordo. Ho mangiato mezza porzione di patate e non ho finito la carne. Sono a letto. Sto morendo di fame. Mi sento come se non mangiassi da giorni. E' insopportabile. Vado in cucina.
«Anna? Che fai?»
«N-nulla... stavo solo...»
«Hai fame, tesoro?»
«No»
Non ricordo come arrivo in camera, se mia madre dice altro, se le do la buona notte. Non ricordo nulla. So solo che, al mio risveglio, non è l'acuto squillo della sveglia che sento. E' la luce del sole ad aprirmi gli occhi. Sono in una stanza bianca, stesa in un letto bianco, a fissare un soffitto bianco, con un apparecchio bianco collegato al corpo attraverso una flebo. E' tutto bianco. Io odio il bianco, mi rende claustrofobica.
Mi guardo intorno, in preda al panico. Voglio andarmene. Cerco di alzarmi, ma mi ricordo della flebo. La guardo di sfuggita, ma qualcosa mi spinge a soffermarmi un attimo di più sul braccio. E'... diverso. Non è il mio braccio. E' magro. Io non ho le braccia magre. Non le ho mai avute. Quello che vedo, collegato alla spalla e al resto del corpo è... scheletrico. Non so se sorridere o piangere.
Non faccio nulla, troppo sconvolta. Sono ancora stanca. E ho fame. Ancora quell'implacabile fame. Straziante, insaziabile, prosciugante, logorante. Mi sento divorata dall'interno.
Una porta bianca si apre, e compare un ragazzo all'incirca della mia età, in camice bianco. Il bianco deve essere il colore per eccellenza in quel posto, penso «Anna, giusto? Benvenuta e buongiorno» non mi da il tempo di replicare, che continua «Hai fame?»
Non confermo, ma non nego. Non posso negare una cosa così evidente.
Mi limito ad abbassare lo sguardo sotto il peso del suo. Sento i suoi occhi scuri osservarmi con insistenza, percorrere ogni centimetro del mio viso. Arrossisco.
Ho fame. E' l'unica cosa a cui riesco a pensare. Ho fame. Ho fame. Ho fame. Ho fame. Devo distrarmi. Le dita stringono convulsamente il lenzuolo che mi copre il busto.
«Sono Evan, comunque» si presenta lui, passandosi una mano tra i capelli biondo cenere, e allungando l'altra verso di me. Un po' titubante la stringo.
«Hai fame?» ritenta.
Non rispondo. Non voglio dire che ho fame. Non posso dire che ho fame. Mi vergogno troppo. Crederà che sono una grassona che pensa solo al cibo. Lo pensa già, mi dice poi una voce nella mia testa.
Se non mangio muoio.
«S-sì» la mia risposta è un sussurro così flebile che dubito lo senta. Invece lo sente, e in pochi minuti mi porta un vassoio pieno di cibo grasso e calorie e zuccheri. Faccio una smorfia, ma inizio a mangiare. All'inizio con calma, cerco di controllare il mio bisogno di mangiare, la mia ossessione. Poi crollo. Mi scende una lacrima, che tento di coprire bevendo un bicchiere di succo. Continuo a mangiare, con sempre più foga. Finisco in pochi minuti.
Ho ancora fame. Mi viene da piangere. Perché ho fame? Ho appena mangiato quattro cornetti, della frutta, dei cereali e bevuto un succo. Non dovrei avere fame, dovrei stare scoppiando. Sospiro affranta. Stringo le mani a pugno e affondo le unghie in profondità nella carne. Non posso piangere.
«Anna?» mi chiama debolmente.
Interpreta il mio silenzio come un permesso per continuare.
«Perché l'hai fatto?»
Non so rispondere, o meglio, lo saprei fare, ma non ne ho il coraggio. E' allora che scoppio a piangere.
Penso solo al cibo, e a quello che penserà Evan di me, a quello che penseranno gli alti di me, a quello che penseranno tutti di me. Mi copro il viso. Non voglio che mi veda così, non voglio che mi veda e basta. Schifo, schifo, schifo. Ho bisogno del dolore fisico, di quella meravigliosa sensazione di realtà che mi ancora al mondo. Ho bisogno di provare dolore. Voglio provare dolore. Devo provare dolore.
Vedendo che non rispondo, svia il discorso «Se te lo stessi chiedendo, tua madre ti ha portata qui due notti fa. Era molto preoccupata»
La sua voce mi distrae dai miei pensieri per un attimo. Respiro. Prendo profondi respiri che non mi sembrano mai abbastanza. Inspiro, espiro, inspiro, espiro. Non basta, non basta. Sono nel panico. Non ho mai sofferto d'asma. Mi sento soffocare, da tutto. L'aria è troppo poca, la stanza troppo stretta, il bianco troppo ovunque, gli occhi di Evan troppo insistenti. E' tutto troppo. Non sono abituata al "troppo", di solito è il "non abbastanza" che mi circonda. Ma anche il "troppo" è brutto. Il "non abbastanza" è desolante, il "troppo" soffocante. Ci metto alcuni minuti per riprendermi.
Evan mi guarda preoccupato. Si è avvicinato e mi stringe la mano.
«Anna? Anna? Calmati, va tutto bene, è tutto okay. Shh»
Ho la vista appannata. Torno a coprirmi il viso con le mani. Non le leverò mai, non lascerò che nessuno guardi il mio viso con disprezzo e disgusto. Nessuno lo vedrà mai, nessuno lo insulterà di nuovo. In un attimo, però, la situazione si capovolge, e due mani forti allontanano le mie dal viso. Mi brucia, e solo allora mi accorgo di averlo graffiato con le unghie. Qualcosa di caldo mi solca una guancia.
Lo sguardo di Evan indugia su di me, con... pena. Compassione. La odio. Preferisco sguardi di repulsione e odio, piuttosto che quella, forse.
«N-non guardarmi... c-così» è la prima frase di senso compiuto che balbetto.
Mi asciuga una lacrima e ripulisce la goccia di sangue con un fazzoletto, con una cura immensa.
«Anna, perché l'hai fatto?»
Odio, rabbia, frustrazione, odio, fame, collera, rancore, disprezzo, ira, odio, fame «Guardami! Non ti basta come risposta?» dolore, dolore, dolore. Passo con foga le mani sulle mie gambe, sulle braccia, sull'addome, lasciando segni rossi. Mi accorgo che non serve graffiare, provo dolore anche solo sfiorandomi. Mi premo una mano sullo stomaco. Chiudo gli occhi, mi scende una lacrima. Premo sempre di più. Mi ricordo di avere qualcosa lì dentro, qualcosa di vivo, qualcosa che vive grazie a me, qualcosa che si nutre di me.
Sospiro. Disperazione. Apro gli occhi. Guardo Evan, aspetto che dica qualcosa, so che deve dirmi qualcosa «Le tue condizioni sono gravi, Anna. E' passato un mese da quando la Tenia ha iniziato a prosciugarti, hai resistito molto, ma è cresciuta a dismisura, e siamo venuti a saperlo solo ora... faremo il possibile»
Lo dice tutto d'un fiato, senza interruzioni. Mi manca un battito. No, non erano questi i piani. Non è per questo che salvavo risparmi, non è per morire che ho sviluppato quell'idea folle. Anche se, mi ritrovo a pensare, forse non sarebbe stato così male. Avrei smesso di soffrire.
«Non sappiamo quanto ti resta» continua Evan «Anna... stai per morire»
Forse è il tono che usa, o forse la parola che usa, ma in questo momento mi sento il mondo crollare addosso, ma non c'è nessuno a sostenerlo per me. Morire. Sto per morire. Prima morivo dentro per l'eccesso di carne del mio corpo, ora muoio fuori per mancanza di alimentazione. Prima dovevo andare da una dietologa perché mangiavo troppo, ora potrei morire perché per quanto mangi, non riesco ad ingrassare. Prima il mio problema erano i rotoli di ciccia e le cosce troppo grandi, ora lo sono le ossa sporgenti e la pelle inaridita.
Scoppio in una risata isterica, mi fa male la pancia. Disperazione «Per tutto questo tempo ho sempre desiderato solo essere magra e bella come le altre» prendo un respiro profondo, singhiozzo «E ora... ora non so cosa darei per tornare quella di prima»
Un singhiozzo, poi un altro, e con loro arriva la consapevolezza della veridicità delle mie parole. Ho fatto tanto per non essere grassa e cos'ho ottenuto? Morte. Mi hanno ucciso le parole delle persone, conficcandosi come spine nel mio corpo. Mi hanno uccisa le mie debolezze, che portavo scritte in fronte. Mi ha ucciso la società, che insegna che la perfezione è essere magri, stupidi e omofobi. Mi sono uccisa da sola, dando peso a tutto questo, permettendo al mondo di ferirmi e distruggermi, senza fare nulla per combatterlo. Mi sono uccisa da sola, e non c'è consapevolezza peggiore.
Evan mi abbraccia, ma a stento me ne accorgo. La fame è ancora lì, ma quasi mi ci sono abituata. Mi sento sempre più debole, mi stendo.
Due pozze scure mi scrutano preoccupate. Chiudo gli occhi.
«Anna! Anna!»
Chiudo le orecchie. E la voce di Evan è solo un gemito lontano.
Smetto di percepire il tatto. E le sue mani diventano solo fredde pezze sul mio corpo inerme, troppo stanco per muoversi.
Sento un suono squillante, come un eco lontano, proveniente dal comodino sulla mia destra.
Sono terrorizzata, ma allo stesso tempo tranquilla.
Forse morirò, forse no. Non importa più.
Se morirò, il mondo non potrà più toccarmi, se vivrò sarò una guerriera, sarò un grattacielo, sarò quel che più forte esiste al mondo, sarò indistruttibile.
Ultimo sospiro, ultimo respiro, ultimo battito, ultimo pensiero, ultima promessa, ultimo addio.
Quando si muore, si è troppo occupati a pensare a tutto, per pensare alla morte. Io penso alla mia famiglia, a mia madre, a mia sorella, a mio padre, perfino, alla mia vita, ai miei errori, alle cose che non scoprirò mai, alle lezioni imparate. E mi viene in mente una citazione, di Gandhi. Forse l'unica cosa per cui non reputo la scuola una totale perdita di tempo. L'unico problema della bella frase, è che vorrei avere un minuto di più da vivere, per confidare questo segreto a qualcun altro.
“Vivi come se dovessi morire domani. Impara come se dovessi vivere per sempre.”










Angolo autrice.

non so che dire, non so nemmeno come mi è uscita.
parlavo con una mia amica, qualche giorno fa, ed è uscito fuori l'argomento 'Tenia Solium', un verme solitario che vive nell'organismo di alcuni animali e talvolta delle persone. 
Ho letto di molti che apposta lo volevano, per dimagrire. In passato ci avrei senza dubbio fatto un pensiero anch'io, ora non ci penso più, ma ho voluto comunque "raccontarvi" di quello che una ragazza può provare e di fin dove può spingersi a causa delle parole delle persone. 

-smile_book
  
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