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Autore: ScleratissimaGiu    16/06/2013    13 recensioni
Louis finisce in un corso di falegnameria e conosce Harry, con cui condividerà una storia d'amore.
Liberamente ispirato al film/romanzo Noi Siamo Infinito.
Dal testo: "E così inizia la nostra storia, penso.
We can be us, just for one day.
We can be heroes, just for one day.
Possiamo essere noi, solo per un giorno.
Possiamo essere eroi, solo per un giorno.
Se non altro, ci proveremo."
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non ho mai avuto interesse per quelli più piccoli di me.
Davvero, mai.
Nemmeno come amici.
Non è che penso che abbiano qualcosa che non va o che semplicemente non meritino che rivolga loro la parola… è solo che non ho mai conosciuto uno più piccolo con cui valesse la pena di iniziare un discorso.
Però credo che adesso, nelle mie condizioni, parlare con uno di loro sarà inevitabile: ho ventun’anni e sono finito in una classe di laboratorio con quelli di diciannove.
Deprimente, oserei dire.
Già, è la parola più giusta.
Adesso sono diventato “Louis-quasidiciannovenne-Tomlinson”, e fidatevi, non è una bella sensazione quando senti anche i bidelli che te lo gridano dietro, mentre passi per il corridoio.
Dovevo rimanere a giocare a football.
Dovevo limitarmi a quello.
Ma mio padre “Nooo, ma perché non fai anche quel corso? Ti aiuterebbe…”
Per inciso, lo odio, mio padre.
Ma se non avessi frequentato questo inutile corso di falegnameria, sicuramente la situazione si sarebbe scaldata, e non avevo granché voglia di vedere la mamma prenderle o di fare a pugni con lui, quindi ho lasciato perdere.
E così eccomi qui, seduto in fondo, cercando di nascondermi nella mia felpa della squadra per non essere notato… ma chi voglio prendere in giro?
Il signor Snow entra in aula con un’andatura un po’ claudicante, reggendo una valigetta di pelle morbida.
Un ragazzo si alza e gli da una mano a portarla sulla cattedra.
Ha i capelli ricci nerissimi, ma non riesco a inquadrarlo bene, dato che sono mezzo sdraiato sul banco.
- Bene, - inizia il signor Snow, appoggiandosi alla cattedra – io sarò il vostro insegnante di falegnameria, il professor Snow. Adesso, vediamo di fare l’appello.
È uno dei professori più anziani, probabilmente, dato che ha tutti i capelli bianchi e anche una folta barba candida come la neve.
Quando chiama “Harry Styles”, la mano del ragazzo che prima l’ha aiutato scatta verso l’alto.
Harry, quindi…
Alzo appena la mia quando chiama il mio nome, ma tutti si sono voltati a guardarmi.
Tutti mi conoscono, qui.
Sfido io, a non conoscere il capitano della squadra di football.
- Ah, quindi sei finito nel mio corso… - borbotta Snow, accarezzandosi i peli sul viso.
Annuisco, senza trovare il coraggio di replicare: in un altro momento, davanti ai miei soliti compagni, avrei tirato fuori una battutina scema ma comunque irresistibile, ma qui non ne vedo l’utilità.
Saremo circa una ventina, qui dentro; ovvio, nessuno vuole davvero fare falegnameria in uno stupido corso d’università.
Mi domando se anche questi ragazzi, a casa, siano stati costretti da qualcuno come è successo a me.
Mi domando se anche Harry sia stato costretto.
Ammetto che il modo in cui ha aiutato Snow è stato ammirevole, anche perché si è preso parecchie occhiate malevole da qualcuno.
- Dunque, la falegnameria non è solo un corso, né tantomeno un gioco, - predica Snow, incrociando le braccia sul petto – è una cosa molto seria.
Dato che non mi interessa particolarmente sentire un vecchio che parla di quando ha scoperto che “la falegnameria è la mia vocazione, e lo capii in guerra”, silenziosamente prendo il mio cellulare e inizio a messaggiare coi miei amici, che a quest’ora si staranno godendo un po’ di riposo prima degli allenamenti.
- Signor Tomlinson, può consegnare il suo telefono qui.
La voce fredda e imperturbabile di Snow eccheggia nell’aula, e ancora una volta ho gli occhi di tutti puntati addosso.
Sento che le mie guance divampano, ma mantengo una certa compostezza alzandomi e camminando tra le fila dei miei compagni di corso.
Appoggio il mio Nokia sulla cattedra senza troppa forza, e mentre ritorno al mio banco sento Snow che mi dice “allora ci vediamo in detenzione, più tardi”.
Perfetto, fantastico!
Oggi niente allenamenti.
Il coach mi ucciderà, lo so.
All’improvviso, mentre mi rassegno a un’ora e mezza chiuso in un’aula a far niente, una suoneria dal motivetto allegro rompe il silenzio.
Vedo Harry Styles, il ragazzo dai ricci capelli corvini, agitarsi per provare a spegnerla, ma ormai è troppo tardi.
Snow allunga la mano, e il ragazzo gli consegna il suo iPhone senza protestare, ma arrossendo visibilmente.
- Qualcun altro che si voglia aggregare per passare una fantasmagorica ora in detenzione? Non fate complimenti – scherza Snow, allargando le braccia come farebbe una brava guida turistica per dare più enfasi al suo discorso.
Silenzio di tomba.
- Bene, credo che fossero dei chiari segnali per dirmi che vi stavo annoiando. Ho recepito il messaggio.
Sorride.
In fondo, non sembra cattivo.
- Il primo progetto che voglio portiate a termine sarà la costruzione di un orologio. Però, per rendervi la cosa un po’ più facile, vi assegno un compagno con cui lavorare.
Ci accoppia in base all’elenco: il numero uno, un certo Harvey Barkley, fa coppia col due, Hannah Bennett.
- Adesso il numero sedici, Harry Styles, va con il numero diciassette, Louis Tomlinson.
Harry si alza e cammina verso di me.
Sta sorridendo.
Adesso che è un po’ più vicino, ammiro la bellezza dei suoi profondi occhioni verdi, e anche quella del suo sorriso.
- Ciao, - mi dice, prendendo una sedia dal banco accanto, vuoto.
- Ehi… - gli dico, distendendo le labbra.
Di sicuro” penso “sarà un ragazzino noioso”.
Ma non è così.
- Davvero vuoi metterti a parlare di legna e lancette? – mi chiede, alzando le folte sopracciglia con un’espressione scettica.
- Ovvio che no, - rispondo, e senza pensare mi metto a ridere sommessamente.
Sorride mostrando le sue arcate dentarie praticamente perfette.
- Posso farti una domanda? – dice, sporgendosi un poco sul banco.
- Certo – gli rispondo, avvicinandomi.
- Che ci fai tu in questo posto?
In un certo senso, me l’aspettavo.
Solo che non so come rispondere.
- Forza maggiore… - gli rispondo, rimanendo vago.
- Ti capisco… - mormora lui.
Lo guardo, come per chiedere informazioni, ma la campanella suona.
- Alla settimana prossima, ragazzi – ci congeda Snow.
- Allora… ci vediamo in detenzione – mi dice Harry, senza sorridere.
Suona più come una domanda, che come una semplice constatazione.
- A dopo, - rispondo, avviandomi.
Il mio primo pensiero è “devo avvisare il coach Borman, sennò domani mi ammazza”.
Il secondo è “non vedo l’ora di conoscere meglio Harry Styles”.
 
 
 
L’aula della detenzione, come al solito, è quella al primo piano, che non utilizza mai nessuno.
Una volta doveva esserci un corso di musica, ma quando l’insegnante si è licenziato il progetto è caduto in pezzi.
A presiedere non è il signor Snow, ma la signorina Bryan, che insegna letteratura.
Appena sono entrato in aula, mi sono seduto vicino ad Harry, che mi ha sorriso.
Non credevo che potesse essere così ipnotizzante, stare con lui.
- Vedete di non fare troppo chiasso, - dice la signorina Bryan, dando un’occhiata all’orologio – avvertitemi quando scade il tempo.
Mi volto verso Harry, che però sembra immerso nella lettura di un libro.
- Ehi, - dico, imitando il saluto che gli ho riservato alla lezione di falegnameria.
- Ehi. – mi risponde, senza staccare gli occhi dalle pagine.
- Posso fartene una io, di domanda?
Adesso mi guarda.
Non c’è scocciatura, nei suoi occhi verdi, ma solo pura curiosità.
Il che voleva dire che non se l’era presa per l’interruzione.
- Quando hai detto “ti capisco” oggi, al corso… beh, che intendevi?
Sospira.
Non so perché, ma mi aspetto una storia triste.
E, dallo sguardo grave che hanno i suoi occhi adesso, probabilmente non rimarrò deluso.
- Mio padre faceva il falegname, è morto due mesi fa…
- Mi dispiace – dico subito, e sento che è vero.
- Grazie. Da allora, devo tirare io avanti la sua bottega, perché nessuno in casa sa il mestiere…
- E tua madre?
Mi pento subito di averlo detto.
Louis, cazzo, chiudi quella fottuta bocca, per una buona volta!
Sì, papà ha ragione.
Me lo dice sempre.
- Scusami, ogni tanto parlo e non penso… cioè, il più delle volte.
- Di niente e, fidati, lo faccio anche io. È per questo che mia madre mi grida dietro ogni volta.
Stavolta sono io a sospirare.
- Beh, abbiamo appurato che la falegnameria non è nostro forte… - mormora lui, sorridendo.
È troppo forzato, quel sorriso.
Mi sembra anche che i suoi occhi siano velati di lacrime, ma non dico nulla.
- Diciamo di sì – mi limito a dire.
- Ma dobbiamo comunque farlo, quel dannato orologio.
- Già…
- Ragazzi, più piano! – ci ammonisce la signorina Bryan, alzando gli occhi dal suo giornale.
Sinceramente, non credevo che una come lei potesse leggere il Rolling Stones, ma tutto è possibile e lecito in guerra e in amore.
Ma non ci si picchia.
- Che dici, hai un progetto in mente? – mi chiede Harry, riaprendo il suo libro.
Per tutta la durata della nostra breve conversazione aveva tenuto l’indice della mano destra come segnalibro, e infatti gli si era arrossato.
- Meno di zero, - ammetto, con una punta di vergogna – e tu?
Scuote la testa.
- Però possiamo farcene venire qualcuna. Potremmo vederci questo fine settimana e pensarci.
Annuisco, pensando mentalmente che è già un miracolo che il coach non mi abbia ucciso, figurarsi se saltava un altro allenamento.
- Ti chiamo io. Mi dai il tuo numero?
Suonava strano, detto da me.
Non ho mai chiesto il numero a un ragazzo, tantomeno a uno più piccolo di me.
Ma Harry mi sembra uno a posto.
Con un po’ di scheletri nell’armadio, certo, ma pur sempre uno a posto.
- Certo. – e me lo scrive su un pezzo di carta del suo quaderno.
- Cosa leggi? – chiedo, indicando il suo libro.
- Mia sorella mi ha implorato di leggerlo. Non è male.
Sulla copertina leggo appena tre parole: Noi Siamo Infinito.
Suona tanto come un romanzo sdolcinato e romantico fino a farti vomitare, magari qualcosa di Nicholas Sparks.
Lo odio, Nicholas Sparks.
Non ha inventiva, fa tutti quei cavolo di romanzi uguali.
Come se tutto potesse essere come viene descritto nei suoi stupidi libri.
Bah.
 
 
 
È venerdì, e dalla detenzione sono passati due giorni.
Per due giorni ho rigirato il fogliettino che mi ha dato Harry tra le mani con nervosismo, senza sapere se chiamarlo oppure lasciar perdere.
Per questo fine settimana non sono previste partite, quindi sarei libero di andare da lui a iniziare la costruzione dell’orologio, ma qualcosa mi blocca.
Non so perché, ma sento che sia… strano, che debba chiamarlo.
Harry mi sembra a posto, ma… non lo so.
Convincendomi che si tratta solo di uno stupido progetto scolastico, compongo il suo numero dal mio cellulare e chiamo.
Risponde al secondo squillo.
Troppo presto, non so che dirgli.
- Pronto?
La sua voce suona limpida, fresca.
Probabilmente è bravo anche a cantare, penso.
Poi scaccio quel pensiero inutile e fuori luogo.
- Harry, ciao… sono Louis… Tomlinson, quello del corso di falegnameria.
- Ah, Louis! Ciao, come va?
Si stava abbandonando ai convenevoli.
Anche lì non ero preparato.
- Bene… e tu?
- Bene…
Prima che possa fare qualche altra domanda di cortesia che può solo confondermi di più, inizio a parlare.
- Ti chiamavo per sapere quando possiamo iniziare a lavorare all’orologio.
- L’orologio, certo. Che dici, sabato mattina alle nove va bene per te?
Concordiamo per le nove.
Mi da il suo indirizzo.
Ciao, ciao, buona serata, grazie anche a te.
L’ho fatto.
Sono a posto con la mia coscienza.
Dopo tre ore da che ho chiuso con Harry, capisco che sto aspettando sabato con una certa ansia.
 
 
 
La casa di Harry è abbastanza grande perché ci vivano lui, sua madre e sua sorella, ma è più piccola della mia.
Poco male, non me ne importa niente.
Vado da lui in macchina, dato che ieri ho avuto un allenamento pesante e voglio riposarmi il più possibile.
Sembra felice oggi, e mi accompagna in camera sua.
- A casa non c’è nessuno… - mi dice, come per scusarsi.
- Ah. – commento.
Non mi viene in mente nulla di meglio.
A dispetto di quel che credevo, siamo riusciti a fare almeno una base per il nostro orologio, il che è un enorme passo avanti, considerato le nostre conoscenze in materia di falegnameria.
La porta di sotto sbatte; Harry alza gli occhi al cielo, ma crede che non l’abbia visto.
-         Dev’essere mia madre – m’informa, alzandosi.
Lo imito, e entrambi scendiamo in cucina.
Sua madre è una donna di mezz’età con qualche striatura di bianco nei capelli castani, dal fisico abbastanza atletico.
Noto che barcolla e rischia di cadere più volte, e ha in mano una bottiglia vuota di Heineken.
- Mamma… - le dice Harry, avvicinandosi.
Lei sussulta, guardandolo quasi impaurita.
Si spinge lontano, ma barcolla ancora di più e cade con un tonfo sordo sul pavimento.
- Mamma. – ripete Harry, ma suona più come un rimprovero ad un bambino che ha mangiato troppo gelato che a una donna ubriaca che è caduta.
I cocci della bottiglia di birra sono vicino a lei, che nel frattempo controlla di non essersi tagliata.
Suo figlio si china per aiutarla ad alzarsi, ma lei lo respinge malamente.
Quando lui si abbassa nuovamente, lei prende un coccio e gli taglia l’avambraccio.
- Vattene! – gli urla – vattene via!
- Ah! – strilla Harry per il dolore.
Rimango immobile sulla soglia, senza sapere cosa fare.
La mamma di Harry corre via, e io lo aiuto ad alzarsi.
- Ti devo portare in ospedale… - gli dico, tamponandogli il braccio con uno strofinaccio bagnato.
Il dolore gli appanna la vista, sembra che stia per svenire.
Un po’ sorreggendolo un po’ trainandolo riesco a farlo salire in macchina e a portarlo al pronto soccorso.
- Che gli è successo? – domanda preoccupata l’infermiera che lo medica.
- Un paio di ragazzini ubriachi in un parcheggio… - dico, anzi mento.
- Pff, si ubriacano già a quest’ora… - commenta lei.
Colgo negli occhi di Harry una nota di gratitudine, e gli sorrido fugacemente.
Durante il tragitto verso casa sua, continua a non parlare.
- Ti va un po’ di musica? – gli chiedo, giusto perché il silenzio mi sta esasperando.
Annuisce.
Dal porta cd riesco ad arraffare il mio disco preferito, uno in cui ho inserito tutte le mie canzoni preferite, e ho fatto partire la prima traccia, Heroes dei Wallflowers.
Harry non si scompone.
Inizio a preoccuparmi, adesso.
Continua a guardare fuori dal finestrino, le lacrime continuano a sgorgare dai suoi occhi.
I, I wish I could swim
Like the dolphins, like dolphins can swim
Normalmente canterei a pieni polmoni, ma oggi che c’è Harry non me la sento.
La canzone va avanti, mi ripeto le parole in testa, mimandole solo con le labbra, senza azzardarmi nemmeno a sussurrarle.
- Ehi, Louis…
Harry.
Si è ripreso.
We can be heroes…
- … grazie.
…just for one day.
Rimango interdetto.
Gli getto un’occhiata: lacrima ancora.
Non mi piace, lo fa sembrare debole.
- Figurati – gli rispondo, e gli do una pacca sulla spalla.
I, I will be the king
And you, you will be the queen
Svoltiamo nella sua via, e Harry si fa scappare un sospiro.
Non vorrei lasciarlo qui, anche se sua madre è scappata chissà dove: adesso ha una fasciatura sul braccio, il che lo rende ancor più vulnerabile.
Mi fermo davanti al suo vialetto, e spengo il motore del pick-up.
Si slaccia la cintura, e mi guarda.
Adesso sta piangendo.
I suoi begli occhi verdi sono cerchiati di nero, il suo naso è rosso.
- Harry, non piangere… - gli dico, ma sembra più una richiesta disperata che una consolazione.
Si mette le mani in faccia, si lascia andare.
Gli metto un braccio intorno alle spalle, e mi abbraccia.
Sento che ne ha bisogno, e, in un certo senso, anche io.
We can be us, just for one day.
- Shh, shh – provo a calmarlo.
Dopo pochi minuti, smette di singhiozzare.
Alza nuovamente i suoi occhi su di me, più neri che mai.
Tuffo il mio sguardo nel suo; capisco che siamo uguali.
Si avvicina a me, lo imito; siamo ormai a poco più di quattro millimetri l’uno dall’altro.
Non avevo mai baciato un ragazzo, prima.
Certo, se si conta Beth Porter, il capitano della squadra di wrestling, allora l’avevo già fatto.
Ma con Harry è stato diverso.
È stato più dolce… c’era tutto quello che mi è mancato in ventun’anni di vita: amore, carezze, bene, bontà.
Tutto.
 Possiamo essere noi stessi, solo per un giorno.
Harry è corso fuori dalla macchina, io sono andato a casa.
Non è che sono sconvolto, ma è stato… strano e bellissimo insieme.
Non riesco a capire.
Forse non voglio capire.
 
 
 
Sto andando a casa di Harry.
È domenica, non ci sentiamo da ieri, ma devo andare a chiarire la situazione.
Questa cosa non può essere rivelata.
Sono fottuto, altrimenti.
Basta football, basta reputazione, basta tutto.
We can be heroes, just for one day.
Io no, non posso essere un eroe, nemmeno per un giorno solo.
Harry mi apre la porta, ma non sorride.
- Ciao, - gli dico.
Mi esce un tono più duro di quel che avrei voluto, quindi provo a rimediare stirando le labbra in un debolissimo sorriso.
- Ciao. – lui non sorride.
Per niente.
Rimaniamo lì a guardarci per un po’, poi trovo un po’ di coraggio per parlare.
- Posso entrare?
- Certo.
Si risveglia, proprio come nel pick-up ieri.
Entro.
La casa è deserta.
Nessuna traccia di sua madre.
Bene, molto bene.
- Prego.
Mi invita a sedermi sul divano, davanti a cui c’è un piccolo tavolino di vetro trasparente.
Ci sono sopra alcune riviste, un bicchiere di Coca-Cola con ghiaccio e una radiolina.
Mi siedo, e lui vicino a me.
- Mi dispiace.
È lui il primo a parlare.
Rimango zitto e aspetto la fine.
- È stato un attimo di… debolezza.
Aggiunge l’ultima parola con una voce strana.
Non lo pensi davvero, lo so Harry, che non lo pensi davvero.
- Non è successo niente – gli dico, ma non è così.
- Grazie.
- Ti va di parlare un po’?
Ne ha bisogno.
Glielo leggo negli occhi.
È rimasto zitto per troppo tempo, non ha molti amici… però io lo voglio ascoltare.
Non m’importa di quanto possa essere triste, lui ne ha bisogno.
Annuisce, e sorride.
- Mio padre è morto in un incidente d’auto. Non è che io e mia sorella ci siamo rimasti poi tanto male… sai, era uno che iniziava a sbronzarsi alle otto del mattino e finiva alle otto di sera, quando se ne andava a letto.
- Cavolo… - commento.
- Già. Comunque, mia madre iniziò ben presto a bere con lui. Non che me ne freghi qualcosa, ma comunque è così. Ogni tanto a questi attacchi, come quello di ieri. Non sempre, ma… frequentemente.
Annuisco.
Mi dispiace per lui, e anche per sua sorella.
- Ma era la prima volta che…
Alza il braccio bendato.
Annuisco ancora, in silenzio.
- Capisci perché devo andare a lavorare alla bottega di papà?
Sta quasi piangendo.
Un’altra volta.
Lo abbraccio, e ricambia.
Ha bisogno di me, ancora.
E per un po’, probabilmente.
Ci baciamo.
Non riesco a farne a meno.
E nemmeno lui.
Le sue labbra sono morbide, e riesco a sentire un lieve aroma di Coca nel suo alito.
È piacevole.
Ci staccamo.
Adesso dobbiamo parlarne seriamente.
- Che si fa?
Lo chiede come se avessimo appena rubato otto milioni di sterline e fossimo ricercati da Scotland Yard.
Ma, in fondo, non è così?
Se sua madre lo venisse a sapere… probabilmente sarebbe sbronza marcia, quindi non rappresenterebbe un problema grave, ma i miei?
La squadra?
Sarebbe… tragico.
Non me lo posso permettere.
Ma non posso stare lontano da lui.
Lui ha bisogno di me.
Io ho bisogno di lui.
Appoggio la testa sulla sua spalla, e lui appoggia il capo sopra il mio.
Rimaniamo così per un po’, prima di decidere cosa fare.
- Non lo diremo a nessuno. Useremo il progetto di falegnameria come scusa – dico, e mi sento abbastanza convinto di questo.
- Sì…
E così inizia la nostra storia, penso.
We can be us, just for one day.
We can be heroes, just for one day.
Possiamo essere noi, solo per un giorno.
Possiamo essere eroi, solo per un giorno.
Se non altro, ci proveremo.
 
 
 
Io e Harry stiamo insieme da un mese e qualche giorno.
Nessuno sospetta niente, il che è un bene, visto che i nostri incontri stanno diventando sempre più frequenti.
Sua madre non è mai in casa, quindi vado sempre da lui.
I miei credono che esca coi miei compagni di squadra.
Harry ha iniziato a venire a vedere le partite, e sono felice di vederlo urlare come un forsennato rischiando quasi di cadere dagli spalti.
Sono scene troppo comiche.
La nostra relazione va bene, anche se…
Beh, un punto non troppo chiaro c’è.
Se vogliamo concludere, deve ubriacarsi.
Non voglio che diventi come sua madre e suo padre, ma lui dice che è l’unico modo.
Allora gli lascio fare.
- Cavolo, ero talmente ubriaco che non mi ricordo niente.
Me lo dice sempre, quando gli chiedo se si ricorda cosa abbiamo fatto.
È frustrante.
L’alcool lo sta uccidendo.
Ho iniziato a portare via di nascosto tutte le bottiglie che tiene in camera, ma serve a poco.
Invece che due bottiglie al giorno, adesso ne beve una.
- Harry, dai, concentrati.
È da un’ora che siamo fermi qui a fissare la base del nostro orologio, e lui continua a bere.
Ride, e accende il suo stereo.
Clicca qualche pulsante, e poi alza il volume.
Lil’ Jon e i 3oh!3.
La canzone è Hey.
But hey, I don’t care, wherever there’s a party
I’m the first one with a drink in the air.
Ma hey, non me ne frega, dovunque c’è una festa
Sono sempre il primo con un drink in aria.
Mi alzo e spengo lo stereo.
Afferro il suo polso destro, e lo costringo a guardarmi.
- Eh dai, era solo per scherzare… - prova a biascicare.
Il suo alito è totalmente intriso d’alcool, mi da la nausea.
- Harry, la devi smettere! – grido, scuotendolo.
- Sì, sì, va bene… - biascica ancora, ma sembra un po’ più lucido.
Lo lascio andare, prendo la mia borsa e me ne vado.
Voglio stare lontano da lui per un po’.
 
 
 
Harry ha smesso di bere.
Sono due settimane, ormai.
Sono fiero di lui, e anche lui è contento.
Adesso non ha più bisogno di ubriacarsi, per stare con me.
È una cosa buona.
Meno buono il fatto che lo sto aspettando da trenta minuti qui nel mio garage; è in ritardo anche stavolta.
Da poco tempo, quando i miei sono fuori, lo faccio venire da me.
Mamma e papà non sospettano niente, nemmeno quando trovano la loro doccia usata.
Non potrebbe andare meglio.
Suonano alla porta, e vedo che Harry è arrivato.
Scendiamo in taverna, e ci mettiamo comodi sul divano.
- Sicuro che i tuoi siano fuori? – mi chiede sospettoso.
È sempre in apprensione, quando viene a casa mia.
- Sì, sono a cena, tranquillo.
Da quando ha smesso di bere, quando stiamo insieme un bacio tira l’altro.
La prima volta non sapevamo nemmeno noi cosa fare, ma dopo un po’ abbiamo fatto pratica.
Riusciamo ad andare avanti anche per due ore di fila.
Adesso che ci siamo rivestiti e siamo abbracciati, è in questi momenti che sento che la nostra relazione va bene davvero.
- Ehi, Lou…
Lo guardo.
Ha la testa appoggiata sulla mia spalla, e mi guarda anche lui.
Ha uno sguardo un po’ da bambino, innocente e vispo.
We can be heroes...
- Ti amo.
... just for one day.
Adesso mi tiro su a sedere.
Ma non guardo più lui.
Guardo la figura che c’è dietro di lui, imponente e un po’ traballante.
- Papà…
Harry si volta, mio padre esce dall’ombra che la parete proietta su di lui.
È sbronzo marcio.
- Louis… che cazzo stai facendo?
Urla.
Urla di brutto.
È arrabbiato… no, è più che arrabbiato.
Mi alzo dal divano, mi metto davanti ad Harry.
Non voglio che ci vada di mezzo anche lui.
Non deve.
Perché lui ha bisogno di me e io ho bisogno di lui.
- Louis…
Mio padre barcolla pericolosamente verso di me, e mi sbatte il suo pungo sulla faccia con una forza allucinante.
La stanza inizia a vorticare, vedo puntini dappertutto.
Il mio cervello funziona solo per darmi un campanello d’allarme: Harry.
Sento il sangue che mi cola sul mento, e con voce impastata riesco comunque a gridargli: “vattene via!”.
Rimane fermo, sta tremando.
Sento la mano di mio padre che mi afferra i capelli, ma non riesco a difendermi.
Sferra un poderoso calcio all’altezza del mio sterno che mi fa mancare il respiro per un attimo, lasciandomi a terra rantolante.
- È meglio se gli dai retta…
È mio padre.
Sta parlando ad Harry, che finalmente si scuote e se ne va con la coda tra le gambe.
 
 
 
Mi ha picchiato a lungo, mio padre, quella sera.
Il giorno dopo sono andato a scuola con così tanti lividi che ho dovuto inventarmi una specie di pestaggio organizzato da quattro o cinque drogati.
Io e Harry non ci parliamo da settimane.
Credo che per noi sia finita qui.
Devo fare qualcosa.
Anche perché ho dimenticato di dirgli una cosa importante.
 
 
 
Harry,
 
mio padre non vuole che ci vediamo più.
Non riesce a capirlo.
Non posso disubbidirgli… cioè, non voglio.
Non voglio perché ho paura di quel che potrebbe fare alla mamma… o anche a me.
Sono un codardo, lo so, ma ti ho scritto questa lettera perché fa male, dirtelo in faccia.
Non voglio vederti piangere.
Non voglio piangere davanti a te.
Però sappi che ci sarò, se mai avessi bisogno di qualcosa, io ci sarò.
Sempre.
Fossi anche migliaia di chilometri lontano da te, arriverò.
Te lo prometto.
Ti ho perso come ragazzo, ma non voglio perderti come amico.
Potremmo essere noi, solo per un giorno.
Non capirai, ma non ha importanza.

Ti amo,
                            Louis



Angolino dell'Autrice:

Ehi, gente! 
Bhe, devo precisare una cosa: io non sono una fan sfegatata dei 1D, ma, grazie alla mia amorevole compagna di banco a cui è dedicata questa storia (ecco Marti, i tuoi cinque minuti di popolarità), sono diventata una Larry shipper.
Quindi chiedo perdono se questa storia non vi è piaciuta oppure ho dimenticato qualcosa sui personaggi: come ho detto, sono un po' ignorante in materia!
Ricordate: critiche (positive, negative o neutre) sono graditissime, alla prossima!
  
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