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Autore: LimoneMenta    17/06/2013    0 recensioni
[Jules Verne]
[Jules Verne]Axel e suo zio sono finiti nel bel mezzo di un gruppo di animali che si potrebbero identificare come antenati degli elefanti. Axel crede di essere spacciato quando suo zio nota una ragazza muoversi tra gli animali...
Se recensite mi fate contenta :3
Genere: Avventura, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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«No!» gridai. «Siamo senza armi. Che potremmo fare in mezzo a questo gruppo di esseri giganti? Venite via, venite. Nessuna creatura può sfidare la collera di simili mostri!»                                                                                                                         
«Nessuna creatura umana?» rispose lo zio abbassando la voce.
«Ti sbagli, Axel. Guarda laggiù, mi sembra di scorgere un essere vivente simile a noi. Un uomo!»  Guardai dove stava indicando, deciso a non crederci. Mi dovetti ricredere, invece. In mezzo a quegli antichi bestioni, antenati dei nostri elefanti, scivolava una figura dalle indubbie caratteristiche umane. Aveva movenze direi quasi “feline”, e si dirigeva dalla nostra parte. Quello che meglio distinsi, era la classica camicia da esploratore, del tutto simile a quelle indossate da mio zio e me. L’intrepido professore avanzò nascosto dal fogliame, ed io lo seguì nella più totale disperazione. La paura prese il sopravvento su di me: cosa avremmo trovato? Certamente un uomo. Ma sarebbe stato un esemplare antidiluviano come quelli illustrati sui libri di scuola, o forse un uomo proveniente dalla nostra stessa epoca che aveva intrapreso tale viaggio prima di noi?                                          
La seconda ipotesi fu quella che si avvicinò di più: sì, perché la creatura alla nostra stessa epoca, ma non era un uomo. Si trattava invece di una semplice adolescente. Mio zio restò stupefatto, ed io con lui. Fissai la creatura come se fossero passati anni dall’ultima volta in cui aveva visto un abitante della superficie. La fanciulla non era certo meno confusa di noi. Capì subito che appartenevamo entrambi alla sua razza, ma certamente si stava chiedendo come eravamo arrivati lì.                                                                                                                                           
La osservai meglio: era alta e slanciata con un fisico snello. I capelli castani erano legati in un semplice intreccio che risaltava i riflessi miele. La pelle era pallida e le attribuiva un aspetto quasi etereo. Indossava una semplice camicia maschile da esploratore. Le gambe erano scoperte, ma la ragazza non sembrò preoccuparsene come invece avrebbe fatto una donna di lassù. Teneva stretto nella mano un pugnale con un’elaborata impugnatura e non sembrava convinta di doverlo abbassare. I suoi occhi erano vigili ma contemporaneamente spaventati. Lo zio alzò lentamente le mani per mostrare di essere senza armi per difendersi.                                                                                                                  
«Chissà quale lingua parla» chiese sottovoce. La ragazza lo guardò sorpresa, deglutì e poi disse: «A quanto pare la vostra».
 
Tornai indietro a prendere Hans e raggiungemmo mio zio e la fanciulla. Quando arrivammo, Hans non sembrò affatto colpito dal suo abbigliamento essenziale, ma ci eravamo abituati alla sua faccia inespressiva. Mio zio spiegò che dovevamo seguirla all’interno dell’isola perché ci trovavamo in una zona parecchio ricca di bestie selvagge. Così iniziò il nostro piccolo corteo: lei, che non ci aveva ancora svelato il suo nome, stava in testa, seguita da mio zio e me; chiudeva Hans al fondo della fila.                                                                                                  
Attraversammo la foresta antidiluviana vagando tra centinaia di specie sconosciute ed estinte. La ragazza ci indicava dove poggiare i piedi senza correre pericoli e ci segnalava dettagli che i nostri occhi inesperti avrebbero trascurato.   
Ad un tratto, l’intrico di piante iniziò a diradarsi fino ad allargarsi in una spaziosa radura. Al centro stava un imponente albero, un possibile antenato del nostro baobab. Tra i suoi rami si sviluppava quello che all’inizio sembrava un insieme di assi, ma osservando attentamente, capii che si trattava di un’ingegnosa costruzione che fungeva da abitazione. Posta così tra i rami era un ottimo riparo dalle bestie che si aggiravano libere intorno. Il comodo spiazzo era cinto da quello che riconobbi essere filo spinato. Attraversammo un alto e robusto cancello costruito con lo stesso legname della nostra zattera e ci dirigemmo verso la “casa sull’albero”. Una normalissima scala di corda ed assi scendeva giù per il fusto dell’albero permettendo comodamente l’arrivo nell’abitazione.                                                  
Notai che la ragazza non era più con noi e la cosa mi preoccupò, perciò chiesi spiegazioni a mio zio. Con un sorriso, egli indicò un punto in mezzo ai rami: credo che nostra ospite dovesse preferire arrampicarsi in mezzo ai rami, perché era esattamente ciò che stava facendo.
La casa sull’albero era un prodigio di ingegneria. C’era tutto ciò di cui si poteva aver bisogno, dal braciere sospeso al bagno con vasca. Tutto ciò che era fatto in legno (dalle assi dell’abitazione agli oggetti al suo interno) era ricoperto di una particolare resina che rendeva impermeabile e, come scoprii dopo, ignifugo.             
C’era una cucina perfettamente attrezzata per la preparazione di qualsiasi tipo di vivanda. Un’ampia piattaforma arredata con arborea minuzia, prendeva il posto di quello che in superficie era chiamato soggiorno. Notai stranito la presenza di varie “stanze da letto”.                                                                                                     
«Chi altro c’è qui?» chiesi con curiosità. La voce di mio zio arrivò sorpresa: «Che cosa intendi, Axel?»                                                                                                         
«Intendo dire che in questo luogo ci vive qualcun altro. Chi altro c’è?»                 
Silenzio. La casa piombò nel silenzio. Mio zio tradusse in un sussurro ciò che avevo detto ad Hans, ma non lo sentii. L’unica cosa che avvertii fu lo sguardo di lei addosso. E preferii non aver parlato, perché lo sguardo che mi rivolse era di pura sfida. Come un invito a provare ad intromettermi nella sua solitudine.                    
«Nessuno. Ormai non c’è più nessuno. Ma hai ragione: una volta eravamo in tanti»                                                                                                                      
«Quanti?»                                                                                                                        
« Una coppia per ogni stanza. Cinque stanze, cinque coppie, dieci persone».                   
Sistemati alla bella e meglio, demmo letteralmente assalto a tutto ciò che venne messo in tavolo. Mentre io non mi preoccupai affatto della mia dignitosa immagine e mangiavo della carne (non volli sapere di che animale) a mani nude, vedevo mio zio lottare interiormente contro la voglia di seguire il mio esempio. L’unico che mantenne la propria tranquillità per tutto il pasto fu naturalmente Hans. Rebecca (questo è il suo nome) ci osservò tutto il tempo senza toccare cibo. Scoprii alla fine la sua storia.
I suoi genitori erano una coppia tedesca che faceva parte di una spedizione iniziata ventidue anni fa per la nostra stessa destinazione. Erano partiti in tredici, ed arrivati in dieci. Cinque stanze, cinque coppie. Erano passati quattro anni ed erano rimasti in due: i suoi genitori. Si stavano preparando per tornare quando sua madre scoprì d’essere incinta. decisero quindi di restare lì finche non fosse stata abbastanza grande per poter salire in superficie. 
Poi un giorno, sua madre l’aveva portata con sé su una scogliera per vedere il mare. Rebecca si era avvicinata troppo al margine della rupe e la donna era inciampata e poi caduta giù, mentre si le avvicinava nell’intento di allontanarla. Così, a cinque anni, perse la madre. Quattro anni dopo, suo padre l’aveva portata a vedere gli “elefanti” di quel luogo. Gli animali si spaventarono nel vederli, come con i topi, e avevano iniziato a correre impazziti ovunque. L’uomo era riuscito a spingerla via prima che venisse schiacciata, e sotto la zampa dell’animale era rimasto lui.                                                                                                                         
Si era ritrovata da sola a soli nove anni, eppure era riuscita a sopravvivere.                          
 I suoi genitori le avevano insegnato a cacciare, a pescare e a riconoscere le piante velenose da quelle commestibili. Il cibo non le mancava, e sua madre le aveva mostrato come intessere abiti con la fibra di una  pianta carnivora.                                  
Aveva cominciato e poi continuato da sola a studiare francese ed inglese, fino a parlarli perfettamente.
Così si concluse la sua storia. Dopo il suo silenzioso consenso, mio zio decise di stabilire lì il nostro rifugio. Ognuno trasferì i propri bagagli nella sua stanza e ci preparammo a dormire. Ragionai per diverso tempo sulla vita di Rebecca prima di riuscire a prendere il sonno. L’ultima cosa che vidi prima di chiudere gli occhi fu lei, distesa su una lunga sedia a dondolo, lo sguardo pieno di dolore perso in lontani pensieri.
  
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