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Autore: shadow_sea    19/06/2013    6 recensioni
What if, ossia un finale alternativo alla mia seconda storia.
Non avrei voluto scriverla, ma alla fine è lei che si è imposta alla mia tastiera con un’ostinazione che non ho saputo contrastare. Chino semplicemente il capo e ve la propongo.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Garrus Vakarian
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Premessa
Dovevo scrivere questa storia che mi sta angosciando da qualche giorno. Mettendola nero su bianco, spero di liberarmi da questo peso che mi affligge e mi impedisce di scrivere i miei soliti capitoli a cui sto lavorando da tanti mesi.
Volevo farla diventare un finale alternativo al capitolo 14 della mia seconda storia, ma mi rendo conto che questo passo mi peserebbe davvero troppo. La sola possibilità mi atterrisce.
Non sarà il capitolo 15 (o 14 bis o come altro diavolo si potrebbe mai numerare) e non comparirà neppure in quella serie. Sarà una one shot isolata.
Questo comandante non ha un nome di battesimo, ma è necessariamente Trinity, per i riferimenti che troverete nella narrazione. Ho pescato a piene mani in uno dei miei capitoli della mia prima storia (non dico quale o si capirebbe già ora dove andrò a parare) perché, per quanto volessi svincolarmi dalla mia coppia, alla fine mi sono dovuta arrendere, capendo che non ci sarei mai riuscita.
La pubblico come se avessi partorito un aborto, per liberarmi da questo pensiero opprimente. Se non vi piace scrivetelo liberamente. A me ha solo avvelenato il sangue. Ora mi prenderò una meritata pausa. Ho bisogno di riposare.
Se fosse una bella storia, di cui andare fiera, mi piacerebbe dedicarla ad Ann e Len, ma temo non lo sia. Accettate semplicemente il pensiero...



WHAT IF


I will always love you


“Ci sono dolori funzionali, come quelli che portano ad individuare una malattia nascosta o a cercare di capire il senso di se stessi nel mondo o addirittura il senso del mondo in sé”.
“Ci sono dolori causati da danni fisici e anche questi servono a qualcosa: indicano con precisione la regione colpita, protestano per ottenere una cura”.

“Ci sono dolori comuni, condivisibili, anche se spezzano l’animo di chi li racconta e di chi li ascolta. Perché, a volte, il racconto di un dolore genera una sofferenza addirittura maggiore in chi è capace di provare compassione (inteso come compartecipazione, non come forma di disprezzo superiore). Shepard aveva quel dono, lo chiamava empatia”.
“No!” protestò Garrus, correggendosi e sbattendo un pugno sul macchinario contro cui aveva poggiato la fronte nella batteria primaria “Shepard ha quel dono e lo chiama empatia”.

“L’intensità di un dolore dipende sempre dal proprio credo religioso o dalla sua mancanza, dalla razza a cui si appartiene, dalla propria personale soglia alla sofferenza fisica e mentale” continuò a meditare, aspettando pazientemente che le gocce del tempo cadessero senza rumore, non per vera necessità di pensare a qualcosa, ma semplicemente perché il tempo passasse senza lasciare traccia di sé.

“Il dolore può svelare la fragilità di un individuo in un solo istante, ribaltando improvvisamente l’immagine astratta che i conoscenti e i familiari avevano di lui, perfino l’immagine che lui aveva di se stesso. Ma la mia fragilità mi era fin troppo nota da anni” pensò freddamente. Gliela avevano rivelata le troppe presunte morti di lei, le troppe volte in cui era restato a fissare il vuoto avanti a sé, ammutolito e privo di pensieri logici o coscienti, in attesa di un segno che svelasse, in un senso o in un altro, cosa le fosse accaduto.
La prima occasione in cui aveva provato quella sensazione di friabile fragilità del suo corpo robusto e vigoroso, protetto da placche ossee e con un’impalcatura di ossa metalliche, era stata durante la missione che lei aveva portato a termine da sola nel sistema Batarian. A pochi minuti dalla distruzione del portale galattico, che avrebbe sbriciolato ogni organismo vivente in quel sistema, nessuno aveva notizie di Shepard da oltre due giorni.
Poi ne erano seguite altre, di occasioni simili. Tante, troppe. Quella che stava vivendo era solo l’ultima di una lunga serie.

“No! Non l’ultima!” gridò a se stesso, continuando a serrare fra le mani la lamina lunga e stretta con il nome del suo comandante stampato sopra che lui aveva rifiutato di apporre su quel maledetto memoriale, come se quel gesto mancato potesse cambiare qualcosa.
“Non l’ultima...” ripeté in un tono di preghiera che era sconosciuto alla sua razza.
Gli Spiriti non potevano essere implorati a quel modo. Gli Spiriti non erano banali dei, come quelli consacrati da civiltà illuse. Dei che tutelino gli individui non possono esistere, sarebbero un puro nonsenso.

Il suo dolore era muto. L’unica persona a cui avrebbe potuto parteciparlo, per fronteggiarlo, alleggerirlo, renderlo sostenibile, era la stessa che glielo causava con la sua assenza. Se fosse stata lì, lui non avrebbe provato quel dolore che, comunque, non poteva essere espresso con parole articolate. Forse un grido avrebbe potuto descriverlo meglio, ma la sua manifestazione più efficace era l’assenza di qualsiasi suono, la mancanza di movimento addirittura, la cessazione perfino del respiro, se fosse stato appena possibile.

“Ci sono dolori che producono interrogativi, stimolano il pensiero, costituiscono una sorta di strada impervia che, quando intrapresa, sia pure a fatica, portano a crescita e miglioramento”.
“E poi ci sono i dolori che paralizzano, eliminano dal corpo ogni impulso vitale, come batteri debellati con un antibiotico potente”.

“Forse questo dolore, così assoluto e totale, è quello che si avvicina di più alla felicità, intesa anch’essa come assoluta e totale. Anche quella non ha un proprio suono e richiede silenzio completo e immobilità”.
“Questo dolore mi libera dalla mia essenza fisica, come farebbe una gioia completa. Nulla esiste fuori di me o dentro di me oltre ad esso. E’ la mia essenza più pura, un distillato genuino e autentico che mi definisce con precisione inequivocabile”.

“Ecco, forse la differenza fra dolore estremo ed estrema felicità è solo qui: il dolore annichilisce tutto ciò che gli è estraneo; la felicità esalta il colore di un tramonto, il suono di una musica lontana, la gradevolezza di un contatto materiale... le mie dita che accarezzano i tuoi splendidi capelli rossi”.
“No, così fa troppo male” si rese conto, mentre un gemito gli sfuggiva dalla bocca serrata “Non ti puoi permettere di crollare ora, Garrus Vakarian. Torna ad assaporare l’essenza intima del dolore, quella senza forma, suoni e colori, senza sbavature e contaminazioni con l’esistenza reale della tua Shepard. Limitati ad assaporare ed aspettare, perché questo dolore così lancinante potrebbe svanire in un attimo, se solo qualcuno ti rassicurasse che lei è lì fuori, ferita ma viva”.

Fu a quel punto che qualcuno aperse la porta della batteria primaria, interrompendo quelle elucubrazioni malate. Garrus non si girò, rimase solo in attesa di conoscere il responso. Nessuno sarebbe entrato lì senza possedere quella risposta definitiva.
Non cercò di capire chi avesse parlato, non aveva importanza. Non si girò, ma si sforzò di annuire perché chiunque avesse varcato la soglia del suo santuario privato non si sentisse in obbligo di ripetere quella frase.

Adesso era veramente legato alla fisicità del proprio corpo, improvvisamente pesantissimo. Non avrebbe potuto muovere un solo muscolo, trasformato in una statua di metallo e osso, inchiodata alla sedia, al macchinario, al pavimento, perfino all’aria impalpabile.

“Il mondo andrà avanti. Loro, gli altri, vivranno e la ricorderanno. Le conferiranno onori, le intitoleranno strade, edifici e navi spaziali. Troveranno nuovi obiettivi e nuovi scopi. Saranno gli insetti laboriosi che ricostruiranno i portali, medicheranno i feriti, ripareranno i veicoli danneggiati: la vita va avanti e li chiama. E loro, gli altri, accorreranno a rispondere”.
“Io adesso sono separato da loro, dagli altri. E non c’è alcun possibile riscatto a questo dolore che proseguirà infinito e invariato in tutti i giorni futuri della mia esistenza. Perché non mi era rimasto altro che te in questa galassia” capì senza speranza di poter sbagliare “e ostinarsi a vivere, ora, vorrebbe solo sottoporre me stesso a una crudeltà senza scopo”.

“Mi ricordo quando mi hai parlato dei problemi che ci si crea nell’affrontare il concetto di eutanasia, Shepard. Mi hai detto che a te pareva disumano proseguire cure che allungano la sofferenza di un individuo malato senza più speranza di guarigione. E io non ho questa speranza”.
“Non so se l’illusione che ci si possa davvero ritrovare ad un bar sia realistica o meno. Ma non lascerò passare del tempo inutile per soddisfare questa ultima curiosità che, a dire il vero, non mi incuriosisce neppure più. Mi basta terminare di soffrire senza scopo. Per quanto magnifico possa essere il dolore nella sua forma più totale, ammetto di preferire un lungo sonno incosciente”.

Garrus si riscosse improvvisamente prendendo coscienza di ciò che quell’ultimo pensiero poteva significare. Il miraggio di poter dormire questo sonno infinito era riuscito a far breccia nella patina di dolore che lo aveva immobilizzato fino a quel momento. Aveva un obiettivo e avrebbe lottato con tutte le sue forze per ottenerlo. E in quel frangente sentiva che le sue forze erano energiche non meno di quelle che avevano consentito a Shepard di distruggere i Razziatori.
Si avviò da Kaidan per chiedergli di aiutarlo a portare a termine il suo progetto.

Il comandante Bailey li aiutò a sottrarsi alle estenuanti pratiche burocratiche che avrebbero impedito il trasporto del corpo del comandante Shepard a bordo della Normandy e l’autorità di Kaidan in veste di Spettro consentì che la nave partisse senza dover chiedere permessi o dichiarare dove fossero diretti.

Il maggiore Alenko fece sbarcare tutto l’equipaggio, tranne Garrus, Tali, Joker e la dottoressa Chakwas, invitando gli altri compagni a rendersi utili nelle tante operazioni di ricostruzione e rassicurandoli che sarebbero tornati il prima possibile.

Solo quel ristretto gruppo di amici sapeva che a bordo della Normandy c’era la salma del proprio comandante. Tutti gli altri avrebbero partecipato ad un rito funebre in cui avrebbero pianto sulla bara in cui giaceva un corpo che non sarebbe potuto essere identificato.

Il corpo di Shepard venne sistemato sulla nave, là dove riposavano sempre i caduti nelle battaglia, in quel vano gelido che avrebbe consentito di mantenerlo nelle condizioni in cui era stato trovato.
Garrus si sdraiò sul piccolo ripiano nel nucleo dell’IA, quello occupato dal corpo della dottoressa Eva prima e da Legion poi, e sottoposto a coma farmacologico, come aveva richiesto.
Il tempo per raggiungere la destinazione si era dilatato a dismisura dopo la distruzione dei portali.



Time


La prima e ultima volta in cui era sceso su quel pianeta, Joker sedeva sulla panca all’interno della Kodiak e non al posto del pilota, ma ben altre erano le differenze fra il momento che stava vivendo in quell’istante, alla guida del mezzo di sbarco, e quanto era successo più di un anno prima.
Ricordava perfettamente una Shepard immobile, subito dopo l’atterraggio su quel pianeta, davanti al portellone ancora chiuso, che aveva fissato lui e Garrus in silenzio per qualche istante, prima di premere il pulsante di apertura della stiva.
Un chiarore biancastro aveva accecato momentaneamente i loro occhi, poi tutti e tre erano scesi affondando gli stivali in uno strato spesso di neve, senza riuscire a vedere nulla, oltre a un chiarore troppo intenso.
Era stato proprio lui a rendersi conto, prima di Garrus, di quello che aveva di fronte e l’emozione lo aveva fatto crollare in ginocchio. Era restato immobile ed in silenzio, mentre un leggero vento spazzava il suolo attorno alle sue gambe e qualche fiocco di neve si attaccava sopra l’armatura leggera.

Joker completò la manovra di atterraggio e si diresse verso il portellone.
- Aspetto che torniate - comunicò Garrus, con una voce rauca che risentiva dei lunghi mesi trascorsi in silenzio, addormentato in un coma che gli aveva consentito di giungere fino a quel momento senza crollare.

Solo Kaidan era rimasto a bordo della Normandy, perché non era possibile lasciare completamente deserta una nave spaziale.
La dottoressa Chakwas e Tali seguirono Joker, che ricordava perfettamente la disposizione dei resti della Normandy SR1.
Le guidò dapprima verso il piccolo monumento alla loro vecchia nave, quello che Shepard aveva collocato in solitudine, quando era stata l’unica conoscitrice della destinazione di quel pellegrinaggio, e poi accompagnò le due donne alle postazioni che avevano occupato un tempo, tanti anni prima.

Le soste ai margini di quella che era stata l’infermeria e davanti alla sala macchine furono penose come ognuno di loro si era aspettato: quegli ammassi di resti, contorti dai danni causati dalle esplosioni e dall’impatto sul suolo del pianeta ghiacciato, riportavano vivide alle memoria le immagini di alcuni visi, di alcune frasi, di alcuni gesti che pensavano di aver dimenticato e che ora li colpivano dolorosamente, con una intensità che li stordiva.
Poi Joker le condusse alla sua postazione e rimase a fissare ancora una volta la sua poltrona, assurdamente integra in mezzo a quel disastro, mentre le due donne rimasero ai suoi fianchi in silenzio, sapendo che quella superficie gelida avrebbe cullato il loro comandante per tutti i secoli in cui quel pianeta sarebbe sopravvissuto alle catastrofi planetarie.

Tornarono a bordo. Joker al posto di guida e Tali e la dottoressa nella stiva. Le due donne si sedettero senza alzare lo sguardo, per paura di mostrare un dolore che Garrus non avrebbe sopportato e aspettarono di essere certe che lui stesse camminando nella neve, con passi che non facevano alcun rumore, prima di trovarsi l’una nelle braccia dell’altra a singhiozzare senza riuscire a riprendere fiato.

Il turian non aveva mai detto nulla su quello che sarebbe accaduto dopo, ma entrambe sentivano che quel suo silenzio era stato l’unico modo in cui potesse salutare tutti loro. Non avrebbe tollerato di leggere un dolore che non poteva paragonarsi al suo.

Il silenzio persisteva troppo a lungo, realizzò Garrus, girandosi su stesso. Non poteva vedere l’espressione di Joker, per la lontananza eccessiva, ma la nave da sbarco era ancora lì, con i motori spenti. Raccolse meglio il corpo del comandante in modo da poterlo tenere con un solo braccio e fece un gesto di saluto in direzione del pilota.
Poi si girò di nuovo avviandosi lentamente verso il fantasma di quel ponte antico e familiare. Sentì l’aria vibrare sotto la spinta dei motori e sorrise finalmente. Questo momento era soltanto loro e non poteva essere condiviso, neppure con i più cari amici di tutta una vita.

Si sedette sulla poltrona con lentezza, attento a non far sbattere il casco di Shepard contro i pannelli divelti dell’abitacolo. Si accomodò bene, impegnato nel farle assumere quella posizione raccolta che lei amava tanto, con la nuca contro il suo petto e il capo leggermente piegato, in modo che potesse spiargli il volto in cerca di un sorriso. Le sistemò le gambe e le braccia fino a quando fu sicuro che fosse tutto come doveva essere.

Questa volta non sarebbe stato necessario dirle alcuna parola consolatoria, neppure un semplice come ai vecchi tempi o un rassicurante non c’è Shepard senza Vakarian.

La gioia assoluta aveva bisogno solo di silenzio, di un silenzio altrettanto profondo di quello che accompagnava il dolore estremo. Entrambi necessitano silenzio e immobilità come salvatori che liberano dalle catene dell’essenza fisica.

Comprese che quel sentimento estremo era gioia e non dolore: lo comprese dalla musica cristallina che ascoltava nel vento che respirava in quel silenzio, dall’armonia delle forme di tutti i frammenti di Normandy ammorbiditi dall’abbraccio della neve, dalla bellezza suggestiva della luce che proveniva dal sole lontano, rendendosi conto di essere più ubriaco di quanto ricordasse di essere stato in tutta la sua vita.

Quel silenzio infinito, appena lambito dal soffio del vento, era tutto quello di cui avevano bisogno: li riscattava dalle emozioni violente che avevano vissuto in troppi anni di battaglia, mentre la neve che continuava a cadere lenta e regolare li avrebbe lentamente e inesorabilmente coperti con un manto morbido che nelle centinaia di anni a venire li avrebbe fusi insieme, proteggendoli contro sguardi estranei.

Spostò la mano quel tanto che serviva per disattivare il regolatore della temperatura dell’armatura e tornò a passarle le braccia intorno al corpo cullandola dolcemente, con un movimento morbido, aspettando di addormentarsi in un sonno al di là del tempo, grato di poter stringere fra le braccia l’unica giustificazione della sua esistenza.

Se lei aveva rinunciato alla vita con gratitudine e gioia, abbandonandosi alla soddisfazione di aver portato a termine la sua missione, lui sentiva che quegli stessi sentimenti stavano scaldandogli l’anima mentre il corpo cominciava a gelare: aveva riportato la sua donna a casa e sarebbe rimasto a tenerle compagnia per tutti i secoli a venire.
Shepard non poteva riposare in un mausoleo sulla Cittadella. Lei avrebbe voluto fissare le stelle e i suoi occhi azzurri come il cielo. E nessun’altro posto, neppure l’amata Normandy SR2, avrebbe potuto donarle la pace, il silenzio e l’infinità a cui lei aveva diritto e di cui lui aveva un disperato bisogno.

Qualche tempo dopo, quando il pianeta ebbe eseguito una rotazione completa su se stesso, fu Kaidan a scendere su Alchera, guidando lui stesso la navetta da sbarco.
Visitò il piccolo monumento alla SR1 e si fermò qualche istante davanti alla sua vecchia postazione, ricordando quante volte lei si fosse fermata a chiacchierare con lui. Ma non doveva esagerare nel soffermarsi sui suoi ricordi personali o sul suo dolore: sarebbe stato fuori luogo.
Era sceso su Alchera per un altro motivo: per salutare due dei suoi amici più cari, amici che aveva perso e poi ritrovato. Era questa l’unica forma di redenzione possibile a errori dai quali non poteva più tornare indietro.

Guardò verso quelle due figure lontane, abbracciate sulla poltrona che era stata di Joker, che volgevano il capo l’una verso l’altra, come dimentichi di tutto quello che stava loro attorno. Non si avvicinò neppure, rispettando la sacralità che evocava quell’immagine inaccessibile, che sarebbe rimasta immutata nei secoli dei secoli e protetta da un segreto che nessuno di loro avrebbe mai violato.
  
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