The Warrior
Di fronte all'aversario si erge il Guerriero,
e dovunque noi andiamo lui ci sorveglia.
Con la spada e lo scudo, con la lancia e l'arco,
Jaime
Lannister aveva sempre desiderato divenire un guerriero. Era una delle sue più
grandi aspirazioni, la più importante dopo quella di poter rendere fiera e far
sentire amata la sua adorata gemella. Sin da quando era soltanto un infante,
aveva giurato a se stesso che sarebbe stato investito come cavaliere dal re in
persona. Proprio come suo padre. Lord Tywin gli aveva insegnato a combattere
con la spada, a tirare con l’arco e a cavalcare tra i floridi campi nei pressi
di Castel Granito, la fortezza secolare della loro famiglia. Aveva imparato
velocemente, Jaime, spronato dai suoi sogni e dai sorrisi sinceri della sua
Cersei. Nulla gli risultava più facile di maneggiare la sua fedele spada. Ma la
sua spada di bambino, quella di legno di noce, quella che aveva usato per i
primi due anni di addestramento, non gli era più confacente. Non era per lui.
Jaime desiderava qualcosa di meglio. Qualcosa di più prezioso. Una spada che
soltanto il Lord Protettore dell’Ovest possedeva e aveva il diritto di brandire
in battaglia. La spada di un uomo.
Entrare
nelle stanze di suo padre era un’impresa degna del più abile e silenzioso tra
gli individui. Cersei gli aveva sempre ripetuto, da quando Jaime le aveva rivelato
cos’aveva in mente, che non bisognava mai mettere piede nelle camere private
dei loro genitori. Tywin non aveva mai ricevuto nessuno da quando sua moglie,
la sua amata Joanna, era morta di parto. Se l’avesse trovato a frugare tra le
sue carte e i suoi oggetti personali, sicuramente avrebbe ricevuto una
punizione esemplare. Nessuno avrebbe potuto salvarlo dall’ammonizione e lo
sguardo gelido di suo padre. I suoi occhi verdi erano qualcosa di assolutamente
spaventoso per Jaime, sebbene evitasse di chinare il capo quando lo
trafiggevano con indifferenza quasi disumana. Doveva essere coraggioso. Era
l’erede di Castel Granito. Era un Lannister. Un leone. E un leone non si
lasciava abbattere da nessuno. Era questo ciò che si aspettavano lui.
Invincibile, coraggioso e ligio al dovere. Non avrebbe dovuto desiderare di
brandire la spada di suo padre prima del tempo. Ma Jaime ne aveva bisogno.
Doveva brandire l’erede di Ruggito di Luce. Almeno per una volta. Una sola
volta prima di tornare a usare le solite daghe costruite dal fabbro del
castello. Quando ebbe acquisito a piene mani il coraggio per l’impresa, era
l’alba, un’alba timida e rosata che illuminava di una luce soffusa le stanze
del castello. Suo padre stava conversando con suo fratello Kevan nella Sala
esterna. Lo sapeva. Aveva scorto il cavallo dello zio e l’aveva riconosciuto
subito. Sperava solo fosse un discorso lungo e laborioso.
Jaime
aveva undici anni quando brandì per la prima volta la spada di Tywin. Fu una
sensazione meravigliosa. Appagante. Semplicemente indescrivibile. Era come
sentirsi padroni del mondo intero. Nel palmo destro vi era l’elsa maestosa e
decorata da un prezioso rubino rosso sangue e la lama candida era pesante. Era
una spada da uomo. Da re. Jaime si era sentito così felice e così soddisfatto
di sé solo tra le braccia della sua amata Cersei.
La
portò dinanzi ai suoi occhi verdi e brillanti brandendola e sferrando due leggeri
fendenti che fecero sibilare l’aria circostante. Era perfetta per lui.
Per
la seconda volta si sentì un vero uomo. Si sentì invincibile. Potente e fiero
come un leone. Sorrise e l’immagine si riflesse distintamente nel ferro della
daga. Nessuno specchio avrebbe potuto restituirgli un riflesso più fedele di
quello che scorse nella spada di Tywin.
Sì,
Jaime sapeva che sarebbe divenuto un cavaliere. Ne era certo. Proprio com’era
certo che il suo ruggito avrebbe fatto tremare la terra e tutti gli uomini che
avessero osato contrastarlo.
Jaime fu destato da quel sogno ad occhi aperti
dal pianto sommesso del bambino dinanzi a lui. Tommen, il suo figlio più
piccolo. Aveva soltanto otto anni. Ed era con lui nelle celle della Fortezza
Rossa. Umide, buie e invivibili. Un bambino spaventato. Un leoncino
infreddolito e stanco, affamato e disilluso.
Quando Daenerys Targaryen aveva conquistato
Approdo del Re, cavalcando Dracarys, il più grande tra i tre draghi, le sorti
dei vecchi regnanti non erano state le più rosee. I Lannister erano stati
imprigionati nelle celle della Fortezza. Tutti quelli presenti nella capitale
giacevano da due giorni senza acqua né cibo. Jaime aveva tentato di domandare
alla guardia di far bere il suo bambino, almeno lui, ma gli aveva riso in viso
e aveva ribadito che le regole della prigione erano chiare e valevano per
tutti.
« Smettila di piangere, Tommen,» quasi strillò
Joffrey lanciando, per quanto gli era possibile data la stanchezza e il buio
che regnava sovrano nella prigione, un’occhiata stizzita verso il fratello.
Tommen smise per un attimo, portandosi le ginocchia al petto che, come quello
di un colibrì, si alzava a intervalli troppo ravvicinati. Aveva paura. Ed era
solo un cucciolo. E a Cersei sembrava non importare nulla di quel piccolo
principe dal cuore dolce e i modi sensibili.
« Vieni qui,» sussurrò gentilmente Jaime aprendo
di poco le braccia, non ricordandosi del moncherino che gli faceva
terribilmente male. Se avesse fatto infezione, allora sarebbe stato davvero
costretto a farsi tagliare il braccio. Tommen alzò lo sguardo smeraldino verso
di lui e notò che suo padre gli stava sorridendo quasi speranzoso che
accettasse la sua offerta. Tommen ricambiò, un po’ più felice, e si gettò tra
le braccia di Jaime facendosi cullare da lui.
Piangeva perché non poteva far altro. Perché
avrebbe tanto desiderato che sua madre si accorgesse di lui. Che sua madre
volesse bene a lui proprio quanto ne voleva a Joffrey. Ma sua madre non aveva
mai fatto nulla per attutire e smussare la distanza che vi era tra lui e suo
fratello maggiore, l’erede al trono. Soltanto sua sorella riteneva che lui
fosse più importante di Joffrey. Più importante di chiunque altro al mondo. Gli
mancava Myrcella, ma era felice che fosse andata in sposa al più piccolo del
Martell. Almeno lei era al sicuro. Tommen non si sarebbe mai perdonato se a sua
sorella fosse accaduto qualcosa di brutto. Avrebbe dovuto ringraziare lo zio
Tyrion, ma se solo schiudeva le labbra ormai secche e inaridite, di colpo si
ricordava che non toccava acqua da circa due giorni e mezzo.
La battaglia contro la ragazza Targaryen era
durata poco, le due ore centrali della notte, ed era stata disastrosa per loro.
La sconfitta era stata palese e schiacciante. E Joffrey aveva dovuto
arrendersi. Joffrey avrebbe preferito distruggere la capitale piuttosto che
darla a Daenerys e renderla la vincitrice della guerra dei Cinque Re, ma Tyrion
l’aveva bloccato esclamando che l’avrebbe gettato lui stesso da una torre se
non avesse smesso di ragliare come un asino. Aveva molte ragioni per
ringraziare suo zio. Davvero.
« Fate silenzio. Tutti. Nelle celle non si
parla,» tuonò una guardia che vagava tra i prigionieri. Oltre ai Lannister vi
erano anche alcuni alfieri di suo padre, i membri del Concilio Ristretto e altri
sostenitori del vecchio reame che si erano schierati con Tywin. Jaime cullò
Tommen tra le braccia, sperando che si addormentasse e non sentisse più i morsi
della fame e della sete. Il bambino si strinse a lui con una forza degna di un
combattente e Jaime percepì un moto d’orgoglio e di amore attraversagli il
petto arrivando al cuore. Tommen era il figlio che gli somigliava di più.
Sebbene fosse il meno amato dagli altri poiché era il più piccolo. Quasi
nessuno si era curato delle sue sorti e Jaime doveva ammettere che era stato un
bene. Se fosse divenuto matto come Joffrey, che era stato oltremodo viziato,
Jaime non l’avrebbe potuto sopportare. Guardandosi intorno notò che Cersei, la
sua amata, la madre dei suoi figli, la donna che non poteva essere spezzata da
nulla, sedeva con le spalle poggiate contro il muro freddo di fronte a lui,
algida e imperturbabile, mentre carezzava distrattamente la mano del suo figlio
maggiore. Aveva lo sguardo rivolto nel nulla, in un punto indistinto tra Jaime
e Tywin che sedevano vicini.
Con la coda dell’occhio notò che suo padre era
immobile, con gli occhi chiari spalancati e diretti dinanzi a sé. L’avrebbe
quasi dato per morto se non fosse stato per il respiro che gli faceva alzare ritmicamente
il petto. Un vecchio leone il cui ruggito non s’era mai affievolito nel tempo.
Tyrion, invece, poco distante da Cersei, aveva le mani strette in quelle della
sua giovane e bella moglie che riposava stanca sulla sua spalla. I lunghi
capelli rossi di Sansa, semisciolti e quasi scomposti, coprivano con dolcezza
la giubba marroncina di Tyrion e suo fratello stava inspirando il loro dolce
profumo con forza quasi disperata. Voleva salvarla. Era sua moglie.
Jaime sospirò per lo sconforto e Tommen sollevò
lo sguardo uguale al suo. Jaime gli sorrise e posò un lieve bacio tra i suoi
capelli color dell’oro. Se solo avesse avuto ancora la sua spada, se solo
avesse avuto ancora la mano destra, se solo Joffrey non fosse stato così
stupido, forse avrebbe potuto salvare i suoi figli, la sua Cersei, suo padre e
suo fratello. Avrebbe dovuto prendere Tommen e andar via da Approdo del Re
quando ne aveva avuto la possibilità. Come aveva sognato davvero di fare quando
Brienne era tornata a Tarth dopo averlo riportato a casa. Sarebbero andati a
Castel Granito e suo figlio sarebbe stato al sicuro. Forse anche Brienne gli
avrebbe fatto compagnia. Avrebbe potuto proteggerlo e Brienne avrebbe potuto
insegnarli a combattere con la destra, come lui non poteva più fare. Sarebbero
stati felici. Jaime ne era certo. Però era rimasto. Perché amava Cersei e non
poteva sopportare l’idea di non rivederla mai più. Era stato uno stupido.
Tyrion gli aveva raccontato tutto. I suoi numerosi amanti, la brama di potere,
la ferocia che aveva dimostrato di possedere contro chi osava contrastare lei e
suo figlio, il completo disinteresse mostrato per Tommen e Jaime stesso. A
Cersei importava solo del trono. E di Joffrey. Il tempo in cui loro due si
erano amati davvero era finito. Jaime doveva accettarlo.
« Iniziano i processi,» esclamò una guardia poco
lontana appena sopraggiunta dalle scale sovrastanti che conducevano ai piani
superiori del palazzo reale. La sua voce era roca, bassa e quasi gutturale.
Cavernosa. Come il resto di quella dannata prigione. Tommen sollevò lo sguardo
e si sporse verso la fonte della voce sebbene non potesse vedere l’uomo che
aveva pronunciato quelle parole. Un messaggio che lo fece deglutire a vuoto. Il
momento della resa dei conti era oramai giunto e Tommen poteva percepire il suo
cuore battere come mai aveva battuto prima di quel momento. E con il suo anche
quello di suo padre. Jaime lo strinse più forte a sé come per proteggerlo, come
se quelle guardie volessero portare suo figlio, il suo bambino, via da lui.
Lontano dalle sue braccia che potevano accudirlo. Lontano dai suoi occhi che
potessero guardarlo con orgoglio e sorridergli con affetto. Lontano dal suo
cuore. Jaime Lannister aveva paura per la prima volta nella sua vita. Una paura
irrazionale. Devastante. Terribile. Non per le sue sorti, ma per quelle di
Tommen. Di Tyrion. Anche di suo padre e Cersei, « La regina è nella Sala del
Trono,» aggiunse per comunicare la destinazione dei processati. Non erano
trascorsi che due giorni da quando Daenerys Targaryen, Nata dalla Tempesta,
Madre dei Draghi, aveva preso il potere e i servitori la chiamavano già regina
e sembravano essere lieti del suo potere. Jaime non poteva poi biasimarli.
Joffrey non era e non sarebbe mai divenuto un buon re.
« Chi dobbiamo far salire?» domandò l’altro uomo,
quello che prima li aveva ripresi per aver parlato. Jaime lo sapeva. Sapeva
bene chi avrebbe assaporato per primo la giustizia della nuova regina di
Westeros. I vecchi regnanti. La sua famiglia. E anche loro lo sapevano. Lo
sapeva Tyrion e strinse più forte la sua giovane moglie. Lo sapeva Cersei e
afferrò la mano di suo figlio mentre guardava disperatamente suo padre, come
per pregarlo di salvarli ancora una volta. Lo sapeva Tywin. Il vecchio leone di
casa Lannister osservò i suoi figli, come per imprimersi per l’ultima volta le
loro immagini nella mente prima della fine.
Jaime Lannister aveva sempre desiderato essere un
guerriero quand’era bambino. Non il Lord. Non il re. Il guerriero. Ma mentre
stringeva il suo piccolo Tommen tra le braccia, si rese finalmente conto di chi
desiderava davvero essere.
Jaime Lannister desidera soltanto poter essere
padre.
« I Lannister.»