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Autore: Ily Briarroot    04/07/2013    1 recensioni
Continuavo a correre nell'oblio da un sacco di tempo, ormai. Intorno e sopra di me vedevo soltanto una lunga parete nera che si estendeva lontano chissà per quanti metri o chilometri. Non ne vedevo la fine, ma sentivo che, se avessi proseguito, sarei stata al sicuro.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kenny, Lucinda, Paul | Coppie: Kenny/Lucinda
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Anime
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Note dell'autrice: 
E' la prima fanfic che pubblico in cui mi concentro sulla coppia Lucinda/Kenny, oltre ad accennare una tematica non molto leggera come quella che scoprirete leggendo :) quindi, nel complesso, credo di averla scritta un po' meglio rispetto ad altre mie fic illeggibili xD è un po' vecchiotta, l'ho scritta qualcosa come quattro anni fa, ma la pubblico adesso perché pensavo di averlo già fatto prima! Beh, che altro dire? Buona lettura!

* * * * * * * * * * * * *


My light



Aprii gli occhi, riuscendoci solo dopo alcuni debolissimi tentativi. Li avevo appannati e la vista sfocata e lottavo per mettere insieme le immagini davanti a me che, per il momento, erano solo tanti pezzi di un puzzle scombinati fra loro, incastonati male l'uno accanto all'altro. Ma, dall'altra parte, avevo paura di ciò che mi sarebbe potuto piombare davanti. Sbattei le palpebre con foga finchè non fui in grado di vedere il pavimento di legno su cui ero sdraiato. Non pensai subito a come fossi finito a pancia in giù su quella superficie fredda e non avevo il coraggio di alzare la testa, anche se qualcosa mi diceva che avrei dovuto farlo subito. Cercai di muovere appena le dita delle mani, scoprendomi debole. Respirare era un'incredibile fatica per il continuo alzarsi e abbassarsi del mio petto, che riuscivo a percepire per puro miracolo.
Tranne che per l'indice che ero chissà come riuscito a spostare, avevo il corpo come paralizzato. Mi voltai verso la mano sinistra e un senso di nausea mi avvolse non appena vidi del sangue coprirla quasi del tutto. Non feci in tempo a pensare se fosse mio o di qualcun altro, perchè quell'istinto di alzarmi da terra immediatamente - che avevo ignorato fino ad allora - mi schiacciò per l'ennesima volta e non riuscii a trattenermi.
Alzai piano la testa e il busto, poggiando sui gomiti. Mi venne voglia - quasi bisogno - di urlare dal dolore che mi colpì improvvisamente il fianco. Aspettai qualche secondo in quella posizione, in attesa che la vista mi tornasse normale. Guardai di fronte a me e riuscii finalmente a distinguere i particolari della stanza in cui mi trovavo. Le immagini non avevano ancora acquistato contorno, ma non importava. La mia attenzione fu catturata da qualcosa di molto più importante sul pavimento, alla mia altezza.
«L-Lu...» balbettai, sorpreso che dalla mia gola potesse provenire anche un solo filo di voce. Abbassai il volto, concentrandomi sulla ragazza stesa davanti a me. I suoi capelli sciolti sporchi di sangue le coprivano metà del volto. Era rivoltata a pancia in su, con delle chiazze di quel liquido rosso acceso qua e là sul corpo; il vestito rosa pallido era ormai completamente fradicio. Rannicchiata su sè stessa, le braccia dal gomito in giù erano completamente zuppe, così come la mano stretta attorno all'addome grondante di sangue e l'altra distesa nella mia direzione.
«No...».
Nonostante tentassi in tutti i modi di resistere e la voglia di alzarmi in piedi e correre nella sua direzione fu più forte, persi le poche energie che ero riuscito faticosamente ad accumulare. Crollai, ripiombando completamente sul pavimento. Cercare di non perdere i sensi fu dura. Era così facile chiudere gli occhi e sprofondare nell'incoscienza, anche solo per quel momento. Ma non potevo mollare. Dovevo farlo per lei.
D'un tratto, non pensai più al dolore che mi occupava il petto o alla testa che mi girava in maniera incontrollabile. Feci scivolare le braccia in avanti, sul legno freddo, e poggiai per la seconda volta il peso del corpo sui gomiti, strisciando in avanti. Riuscii a muovere anche una gamba, piegandola leggermente per darmi più spinta. Non mi accorsi di tremare finchè non la raggiunsi.
Allungai un braccio e le afferrai delicatamente la mano più vicina facendo attenzione a non farle male. La sporcai leggermente di sangue e mi trascinai ancora di più verso di lei. Mi diedi la spinta con l'altro braccio e, piano, riuscii a sedermi, mentre la stanza mi girava intorno ad una velocità impressionante.
Il tremolio violento della mia mano fece muovere anche la sua e mi illusi, per un secondo, che lei fosse cosciente. Le spostai i capelli dal viso e mi resi conto della pozza di sangue che ci circondava. Cercai di non farci caso.
«N-No...» ripetei, distogliendo lo sguardo dall'altra mano premuta sul ventre e dal resto del corpo. Quello non poteva che essere un incubo. Un sogno dal quale mi sarei svegliato da lì a qualche secondo.
La scossi lentamente per la spalla, sperando, pregando che respirasse ancora.
«Lucinda...» mormorai, spostando la presa dalla sua mano al polso per misurarne i battiti cardiaci. Restai senza fiato per un tempo che sembrava infinito finchè non sentii pulsare qualcosa di appena percepibile. Espirai, era ancora viva. Il cuore batteva ancora, debolissimo, ma batteva. Le sollevai delicatamente la testa e la posai sulle mie ginocchia, mentre continuavo ad accarezzarle la testa. Non avrei mai potuto portarla in ospedale in quello stato, non sarei riuscito neanche ad alzarmi in piedi.
«A-Adesso... ce ne andiamo» sussurrai. «Resisti... t-ti prego...».
Solo dalle gocce trasparenti che scivolarono fra i capelli di lei realizzai che stavo piangendo. Dopodichè, tutto ciò che mi circondava diventò nero e l'unica cosa che feci in tempo a vedere prima di perdere i sensi fu la sagoma di qualcuno che cercava di raggiungerci velocemente.

Continuavo a correre nell'oblio da un sacco di tempo, ormai. Intorno e sopra di me vedevo soltanto una lunga parete nera che si estendeva lontano chissà per quanti metri o chilometri. Non ne vedevo la fine, ma sentivo che, se avessi proseguito, sarei stata al sicuro.
Andavo avanti con questo pensiero, conscia del fatto che prima o poi sarebbe terminata e, di conseguenza, avrei saputo la verità. Cercavo di non dare retta a quella parte di me che mi consigliava di fermarmi e riprendere fiato o di mollare del tutto, che tanto era inutile continuare a lottare perchè sentivo vagamente di aver lasciato indietro qualcosa e, senza quel qualcosa, non avrei mai potuto farcela. Ignorai quei pensieri, mentre vedevo il tunnel scorrere veloce. Avevo il presentimento che una volta giunta al traguardo mi sarebbe venuto in mente il motivo per cui mi trovavo in quel posto, sola.
Le gambe cominciarono a cedere all'improvviso, ma non mi fermavo. Volevo uscire da quel luogo tetro il più in fretta possibile, sentivo che dovevo farlo.
Passarono secondi, minuti, forse ore, finchè, attraverso l'oscurità, una piccola luce attirò la mia attenzione. Più procedevo, più diventava lontana. E sentivo che non avrei resistito a lungo, non sarei riuscita a raggiungerla, qualunque cosa fosse. Rallentai di nuovo, respirando a fatica.
«NO!».
Una voce proveniente dal quel punto luminoso mi fece sussultare. Mi avvolse di uno strano calore e realizzai di averla già sentita da qualche parte. Di una cosa ero sicura: la conoscevo bene.
«Continua a lottare, Lucinda! Coraggio!».
Ripresi a correre, senza pensare a cosa stessi facendo o a chi appartenesse quella voce. Sentii che le energie mi erano tornate di punto in bianco. Ma la luce chiara di poco prima si stava come affievolendo, ma potevo, dovevo, raggiungerla.
«Non ti arrendere! Non mi lasciare!».
Era vero: dovevo tenere duro. Corsi, senza staccare gli occhi dall'uscita luminosa.
«Resisti, ti prego... fallo per me».
Vidi la luce quasi accecante che, stavolta, si avvicinava velocemente. Mancava qualche metro e sarei stata al sicuro, seguendo quella voce che mi infondeva coraggio, che mi dava forza. E ci riuscii: superai quello strano confine, ma non feci in tempo a rendermene conto. Quando realizzai di non essere più dove credevo di essere poco prima, quando non vidi più nè l'oscurità tetra alle mie spalle nè il bagliore nel quale dovevo essere mi sentii sprofondare. La voce non mi aveva abbandonata: continuavo a sentirla sempre più chiaramente, nelle orecchie, nella mente, nel cuore. Un dolore acuto in qualche parte non individuata del mio corpo prese il sopravvento, ma non potei urlare. All'improvviso, il nuovo luogo in cui ero non era affatto come il precedente. Il mio sguardo era rivolto al soffitto bianco sopra di me, mentre qualcosa, o qualcuno, mi teneva la mano. L'altra, invece, era collegata ad una flebo attraverso un tubo sottile trasparente. Mi accorsi solo dopo alcuni secondi della mascherina d'ossigeno che mi dava sollievo. Respirare faceva male.
«Lucinda!».
Era la voce familiare di poco prima. Sentii la stessa mano calda stringere la mia un po' più forte. Ero convinta che l'oscurità nel quale mi ero persa poco prima fosse la vera realtà. Non riuscivo a capire dove mi trovavo, cosa fosse successo. E il dolore si faceva largo nel mio corpo con più foga.
Sgranai gli occhi per cercare di mettere a fuoco la visuale. E, stavolta, riconobbi quasi subito il ragazzo che stava al mio fianco con uno sguardo preoccupato.
«K-Kenny...».
Balbettai, scoprendo che il mio era poco più che un sussurro impercettibile e che, quasi sicuramente, lui non avesse sentito.
«Sshh, non ti sforzare».
Non risposi, osservando le sue labbra curvarsi forzatamente fino a diventare qualcosa di simile a un sorriso.
«Finalmente ti sei svegliata... stavo morendo di paura» disse, accarezzandomi la fronte con l'altra mano. Avevo un milione di domande da fargli, ma mi sentivo completamente a pezzi.
«C-cos'è... successo?» riuscii a chiedergli.
Mi fissò un attimo negli occhi, scuri e seri come non mai. Cercò di continuare a sorridere, nonostante non ne avesse voglia. Nonostante tremasse.
«Niente di cui tu debba preoccuparti adesso».
«Invece sì».
C'era qualcosa che voleva a tutti i costi tenermi nascosta, qualcosa che gli faceva male. Mi strinse più forte la mano, scostandomi una ciocca di capelli dalla fronte. Era spaventato. Cercai di sforzarmi a ricordare ciò che poteva essere accaduto, ma avevo il cervello completamente vuoto. L'unica parte razionale del mio corpo mi suggeriva che essere cosciente era già un miracolo e mi intimava di non sforzarmi più di tanto. Ma non le ubbidii.
«Adesso pensa solo a riposarti. Avremo tempo per parlare, Lulù».
Mi venne in mente, di nuovo, il lungo tunnel buio che avevo dovuto percorrere ignorandone il motivo. E capii che Kenny era stata la mia speranza, il mio appiglio. Realizzai di amarlo più di quanto pensassi.
Ricambiai la stretta della sua mano, facendogli capire che lo volevo lì con me. Avevo poca forza per parlare. Lui si bloccò, quasi a disagio.
«Spiegami... cos'è successo». Abbassai un secondo lo sguardo, giusto un secondo prima di vedere la sua espressione. «Ti prego, Kenny. Devo... devo sapere».
Strinsi di nuovo più forte la sua mano calda, certa che non avrei resistito troppo a lungo senza perdere i sensi. La vista cominciò ad appannarsi ancora, ma non volevo sprofondare di nuovo nel buio. Inoltre, quella sensazione di essermi dimenticata qualcosa di troppo importante mi invase per l'ennesima volta. Mi faceva credere che essermi risvegliata non aveva senso.
Kenny cominciò a fissare il lenzuolo bianco, distogliendo lo sguardo da me. Stava riflettendo.
«Tre... membri del Team Rocket si sono infiltrati in casa e... ci hanno... attaccati». Probabilmente si stava sforzando di trovare le parole adatte per non traumatizzarmi. Fece una pausa, aspettandosi una mia reazione. Mi studiava, cercando di capire se fosse il caso di continuare. Poi riprese, abbassando lo sguardo.
«Avevano con sè dei... qualcosa di simile a dei coltelli. Sono entrati come se niente fosse e ci hanno... colti di sorpresa».
Mi sforzavo di non tremare, con poco successo. Sgranai gli occhi, fissandolo.
«Perchè? Che c-cosa... volevano da noi?».
Raddrizzai a fatica la schiena, appoggiandola sullo schienale del letto sotto lo sguardo contrario di Kenny.
«Lucinda, non...».
"Vai avanti» lo pregai. «Io sto bene».
Si arrese. Strinse il lenzuolo candido con tutta la forza che aveva, mentre un tremolio lo scosse appena. Deglutii.
«Come tutti, hanno sentito parlare di noi. Sanno che siamo coordinatori all'altezza delle loro aspettative. Volevano tutte le medaglie che abbiamo vinto fin'ora e... le hanno prese».
Stavolta tremavo sul serio, mentre una strana rabbia mi cresceva dentro. Kenny tornò a fissarmi, a intrecciare meglio la sua mano con la mia.
«Ma come?! Hanno fatto... tutto questo... per delle medaglie?» chiesi, conoscendo già la risposta. La testa cominciò a girarmi di nuovo.
«Sai quanto valgono quelle medaglie e quanto sia difficile vincerle. Abbiamo faticato un sacco per averle e non valgono poco. Tutti i coordinatori del mondo pagherebbero per averle. C'erano anche quelle di tutti i vari gran festival».
«Ma erano... tantissime! Come diavolo...».
«Lo so, Lulù. Abbiamo impiegato una vita per arrivare dove siamo ora e per conquistarle».
Non risposi. Respirai profondamente, non ancora convinta di aver digerito la notizia. C'era qualcosa che mi sfuggiva, ma la mente non rispondeva.
«Continua» sussurrai, osservandolo negli occhi neri.
«Sei sicura?».
Annuii. Dovevo sapere la verità.
«Mi ero piazzato davanti a te per proteggerti, ma... uno di loro ti ha... afferrata da dietro, puntandoti uno di quei coltelli contro. Ero paralizzato, non... non riuscivo a muovermi. Un altro di loro mi ha spiegato che cosa cercavano e che se non gli avessi consegnatom tutto... si sarebbero... vendicati su di te».
Rimasi ferma a fissare il vuoto. Quelle immagini mi stavano tornando in mente una dopo l'altra.
«Ho fatto come diceva quell'uomo, gli ho consegnato le medaglie ed è scappato. Quello che ti teneva in ostaggio ti ha... ferita comunque. Alla gola. Anche se avevano giurato di non farlo. Mi sono avventato su di lui, cercando di toglierti dalle sue braccia, ma quell'altro...quello con cui non avevo fatto i conti...».
Mi guardò ancora.
«...Era dietro di me. Mi si è quasi gettato addosso e mi ha ferito il fianco destro, oltre ad altre parti del corpo qua e là nel tentativo di liberarmi. E quello che ti teneva... lui... ti ha colpita ancora, all'altezza...». La sua stretta di faceva quasi male. «Dello stomaco».
Ricordai tutto, una sequenza di immagini dopo l'altra. Ogni scena, perfettamente. La mia vista confusa concentrata su Kenny che faceva di tutto per proteggermi, mentre ero stretta tra le braccia di uomo alto, robusto, dai capelli scuri, che mi puntava un coltellino contro. Mi stringeva così tanto da non permettermi neanche di respirare e gridai quando l'altro uomò si avventò su Kenny, minacciandolo con quel coltellino già macchiato di sangue. Cercavo di proteggere qualcosa, qualcosa che mi era molto caro e che, pensavo, non avrei mai permesso a nessuno di portarmi via. Arrivò come un fulmine a ciel sereno, l'ondata di disperazione che mi attraversò il sangue all'improvviso, per bloccarsi nel mio cuore. Sentivo le lacrime che stavano per traboccare dai miei occhi, mentre lasciavo andare piano la mano di Kenny e mi sfiorai il ventre.
Lui mi guardò per un secondo e strinse gli occhi, come se si sentisse in colpa. Mi sembrava un incubo. Scivolai di nuovo sotto le coperte, fino a trovarmi di nuovo sdraiata sul materasso morbido.
«L'ho perso» mormorai soltanto, lasciandomi schiacciare da un qualcosa di pesante che non mi permetteva di prendere fiato. Kenny annuì, posando dolcemente la mano sul mio braccio. Sussultai al suo tocco. Una voglia di vendetta, brutale vendetta, si fece largo dentro di me. Ecco cosa mi mancava, ecco qual'era la cosa senza la quale vivere non aveva senso. Adesso sì, volevo tornare davvero in quel tunnel senza essere risvegliata.
«Mi dispiace, Lulù. Probabilmente... sarebbe successo anche se quell'uomo non ti avesse ferita. Eri ... spaventata a morte».
«Non mi importa sapere come sia successo. Ma è successo». Le mie parole erano fredde, glaciali. Non mi riconobbi. Kenny mi strinse il polso. Scostai da me il lenzuolo con un gesto istintivo. Gemetti, cercando di trattenere il dolore che pulsava dal petto al ventre. Non importava, quello che avevo dentro faceva più male.
Le sue mani mi trattennero per le spalle, impedendomi del tutto anche solo di sedermi.
«Stai giù! Sai benissimo che non ti devi muovere per nessuna ragione!» esclamò, spingendomi verso il cuscino. Mi divincolai.
«Smettila, Kenny. Lasciami andare! Non credi che questa sia una ragione più che giusta?!».
Gli urlai contro, sentendomi in colpa nello stesso istante. Le lacrime sgorgarono da sole dai miei occhi, senza alcun controllo. Mi accorsi che stavo piangendo solo quando le sentii scendere fredde lungo la mia guancia.
La presa di Kenny allentò, probabilmente per paura di farmi male. Non era arrabbiato, era triste. Mi guardava con quegli occhioni neri che amavo con tutta me stessa.
«Ascoltami, Lulù» disse, sfiorandomi una guancia per asciugare una lacrima del quale non mi ero nemmeno resa conto. Non gli risposi. Sospirò. "So che avrei dovuto proteggerti. Avrei dovuto proteggere te... e lui. Sono stato un fallimento sia come compagno che come padre, però...».
«Non è vero! Non... non sei mai stato, non sei e non... sarai mai un fallimento» lo interruppi, dicendo tutto d'un fiato, con le poche forze che avevo. Gli accarezzai il viso, sollevando a fatica il braccio. Accennai un sorriso.
«Hai fatto quello che potevi... non è colpa tua. Sei la persona migliore che potessi mai incontrare in tutta... la mia vita».
Kenny prese la mia mano, stringendola. Rispose al mio debole sorriso e chiuse gli occhi per un secondo.
«Potremo... sempre riprovarci» disse.
Abbassai lo sguardo, mentre un'altra verità si faceva largo in me.
«Lo so. Ma io... volevo lui».
«Non cambierà niente. Sarà sempre nostro figlio».
«Cambia invece».
Per un breve, brevissimo istante, vidi un luccichio nei suoi occhi e mi resi conto che anche lui provava la stessa cosa. Non riuscì a rispondermi.
«Chiunque siano questi tizi» cominciai, parlando più a me stessa che a lui, «la pagheranno".
C'era un odio che ribolliva in me, una rabbia che non avevo mai sentito prima. Avevo il desiderio di alzarmi immediatamente e trovarli. Forse mi avrebbero uccisa, ma probabilmente avrei avuto il tempo di vendicarmi su qualcuno di loro. Kenny mi scostò di nuovo i capelli dalla fronte.
«Non c'è più questo problema: li hanno presi non appena si sono allontanati dalla loro base».
Lo stupore e una vaga ombra di sollievo presero, anche se non del tutto, sopravvento su quella strana sensazione di vendetta che si era concentrata in me.
«Li hanno... arrestati?» chiesi, mentre il respiro cominciava a farsi di nuovo irregolare.
«Sì. Le medaglie non le hanno trovate, sono nascoste nella loro sede. Ma sono riusciti a rintracciare quei tre. E' tutto finito, Lulù».
Mi passai una mano sugli occhi, asciugandomi gli ultimi residui di lacrime. Osservai Kenny che mi sorrideva. Non avevo notato prima i graffi che aveva lungo le braccia e i lividi che aveva da ogni parte visibile del suo corpo.
«E tu come stai?» gli chiesi, studiandolo.
Mi lanciò un'occhiata incredula.
«Bene. Mentre avevo perso conoscenza mi hanno bendato le ferite».
«C-cosa? Eri svenuto?» chiesi, sgranando gli occhi.
Kenny annuì.
«Allora... come abbiamo fatto... ad arrivare qui?».
«Tutto merito di Paul. Ha capito che era successo qualcosa ed è entrato in casa. Se non avesse chiamato l'ambulanza...» si interruppe e io capii al volo ciò che sarebbe successo in quel caso. Neanche Kenny aveva la forza per dirlo ad alta voce.
Si alzò in piedi, prendendomi alla sprovvista.
«E' meglio che ti riposi finchè non riprenderai completamente le forze» disse.
Alzai di nuovo il braccio, sfiorandogli lentamente il fianco destro. Non appena fui sicura di poterlo fare, gli appoggiai delicatamente una mano sopra. Lui sussultò appena.
«Ti fa male?» sussurrai, accarezzando piano quel punto.
Kenny scosse la testa.
«No» disse, fermando la mano e prendendola tra le sue. "Ma non devi preoccuparti per me. Io sto bene. Quella che deve riprendersi sei tu».
Annuii ancora incerta, mentre cercavo di non pensare alla piccola felicità che avevo dentro di me fino a qualche ora, forse giorno, prima. Adesso mi sentivo incredibilmente vuota.
«Devo... ringraziare Paul, allora» mormorai.
«Puoi farlo benissimo dopo. Adesso dormi, torno tra poco per vedere come stai».
Si sporse verso di me, togliendo per un secondo la mascherina dell'ossigeno che avevo incollata al viso. Sentii il suo fiato caldo sul mio collo per un istante e salì, in cerca delle mie labbra. Una volta trovate, mi baciò come se non l'avesse potuto fare per anni, infondendomi quel calore e quella sicurezza che solo lui sapeva darmi. Rimanemmo così interi secondi. Dopodichè si staccò piano dalla mia bocca, come se stesse facendo una fatica immane, e con dolcezza. Rimase comunque a qualche centimetro di distanza dal mio volto.
«Ho avuto paura di non poterlo fare mai più» dichiarò, guardandomi negli occhi.
«Ora puoi farlo tutte le volte che vuoi» risposi.
Raddrizzò di nuovo la schiena, allontanandosi da me di un paio di passi.
«Ci vediamo dopo, Lulù. E... ci riproveremo, è una promessa. Avremo il bambino più bello del mondo».
«Sì» dissi. La voce non potè fare a meno di tremare.
Lo vidi sorridermi un'ultima volta prima di allontanarsi definitivamente dalla stanza, conscia del fatto che quella promessa sarebbe stata mantenuta. E ci sperai davvero, anche se non potei fare a meno di pensare a quel vuoto che aveva preso il sopravvento su di me. Mi sfiorai ancora il ventre, sentendo attraverso la stoffa delle lenzuola e del pigiama la benda che mi avvolgeva lo stomaco e l'addome. Ma avrei combattuto con Kenny. Lui non mi avrebbe mai lasciata sola, qualunque cosa sarebbe successa d'ora in poi. Era la mia speranza, la mia luce nell'oscurità. E sentivo che avrebbe continuato ad esserlo per sempre. 


Uscii dalla stanza, chiudendomi la porta bianca alle spalle. Mi ci appoggiai, sospirando. Solo dopo un pò mi accorsi che Paul era di fronte a me, a braccia incrociate e con la schiena rivolta verso la finestra socchiusa. Aveva la fronte corrucciata, come sempre, e mi studiò da cima a fondo. Non parlò, rivolgendomi uno sguardo quasi omicida.
Ad un tratto fece un passo in avanti, infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni scuri. Se non lo conoscessi da anni, quello sguardo mi avrebbe sicuramente fatto paura.
«Allora?» chiese spazientito. Accennai un sorriso.
«Ti ringrazia» risposi, mentre la sua espressione si fece lievemente più seria. Probabilmente sospettava che gli stessi nascondendo qualcosa.
«Come sta?».
Mi ignorò completamente, fissandomi negli occhi.
«Si è svegliata qualche minuto fa, ma deve riposare. E' ancora molto debole.» Non volevo pensare al suo dolore, che si rispecchiava talmente tanto nel mio. Non ero sicuro di essere riuscito a nasconderlo e, se pensavo che la cosa più cara che stavamo per avere ci era stata portata via così, in un soffio, senza neanche potermene rendere conto, il dolore al petto tornava violento. La mano di Lucinda appoggiata delicatamente sull'altra profonda ferita mi aveva dato un certo calore, un certo sollievo.
«Non è in pericolo di vita?».
La voce di Paul interruppe i miei pensieri, facendomi tornare alla realtà.
«No».
Chiuse un secondo gli occhi, come se quella risposta l'avesse in qualche modo tolto da un peso enorme. Tornò a guardarmi quasi con astio.
«Il moccioso?».
Mi lasciò perplesso per un secondo.
«Non c'è più nessun moccioso, Paul. L'ha... l'abbiamo perso. La ferita era troppo profonda, inoltre... credo che sarebbe successo comunque quando quel...». Evitai di usare la parola bastardo solo perchè cercavo un aggettivo più azzeccato. «...Quando quell'assassino l'ha presa in ostaggio. Era al secondo mese e... ».
«Non lo sai che fino al terzo mese ci sono più possibilità di aborto?» m'interruppe, lanciandomi un'occhiata che avrebbe fatto scappare chiunque. «Comunque, sappi che io avrei potuto proteggerla meglio. Non avrei lasciato i miei pokemon al Centro Medico proprio in quel momento, non avrei mai permesso che facessero del male a lei e a mio figlio».
Sbattei un pugno sul muro, facendomi male. Sapevo che aveva ragione, anche se Lucinda aveva cercato di convincermi del contrario solo poco tempo prima.
«Ho fatto tutto il possibile» dissi freddo, cercando di non far tremare la voce. Paul mi diede le spalle, procedendo di qualche passo.
«Avrei saputo fare di più, se avesse scelto me. Ma non l'ha fatto. Quindi... beh, augurati solo che non le succederà più niente se non vuoi che ti trovi e ti prenda a calci» disse, tremendamente serio. Si allontanò ancora, mentre le scarpe cigolavano sul pavimento lucido.
«Paul».
Lo feci fermare, ma non si voltò e non mi vide sorridere.
«Grazie per... averle salvato la vita».
Riprese a camminare, alzando un braccio in cenno di saluto.
Lo seguii sparire dal corridoio con lo sguardo, mentre un altro pensiero affiorava in me. Paul aveva ragione. Dovevo proteggerla, dovevo starle accanto e fare in modo che non le succedesse niente. E l'avrei fatto per sempre, finchè lei fosse stata parte di me.
  
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