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Autore: Shian Tieus    22/01/2008    7 recensioni
Monologo medio (90vv. ca.) in endecasillabi sciolti ed argomento storico. Tratta della battaglia delle termopili, ma è stato in gran parte elaborato prima che il fenomeno cinematografico conoscesse le luci della ribalta. I più smaliziati si divertiranno a cacciare le citazioni qui e la.
Genere: Drammatico, Poesia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lo spartiato

Lo spartiato

 

Il sacrificio della patria nostra

è consumato, tutto, ora, è perduto.

Mai più vedrò lacedemoni terre

o le colline del Peloponneso.

Mai più, liberi da preoccupazioni,

ci riuniremo in simposio, nel quale,

mentre lo schiavo suona la sua cetra,

carne caprina dalle alte colline

viene servita nel piatto comune.

Ma quando nell’oscurità dell’Ade

non potremo godere di alcun bene

che i benevoli dei, su questa terra

e che Prometeo, nostro protettore

han fatto piovere dal sacro Olimpo

a cosa gioverà tutta la gloria

che questi giorni di sangue daranno

a Sparta e ai suoi trecento Opliti?

Non ameremo giovani ed etere,

non più il miele taglierà il vino

quando sopra di noi non stenderà

il suo manto stellato il divino,

oscuro cielo che Ecate apre

bensì il cupo grigiore averneo.

Che propizi ci siano gli Dei greci

e con clemenza gli Dei anatolici

trattino i nostri corpi devastati

Ade concedici una morte rapida

e Ares, fa che essa sia gloriosa

e che la cantino generazioni

a centinaia, dopo che i nostri

figli e le discendenze della grecia

giaceranno con noi sotto il suolo.

Si canti che la morte ci raggiunse

insieme a settecento combattenti

Tespiesi, e che da tutta la penisola

giunsero per soccorrere la Grecia

e in questo stretto passo combatterono.

Anche se tutta la gloria è incapace

di qualsiasi conforto sostenere,

contro la fredda terra di magenta

impregnata che accoglie i nostri corpi

privi d’ogni calore nella carne.

Dimmi, Febo: a che cosa serviranno

nell’Ade la soave cetra o lira

ostentante le glorie dei cadaveri?

Mai più berrò, come il poeta Archiloco

del vino ismarico, appoggiato all’asta.

Mai più Tirteo e il suo nobile canto

consolerà in queste notti buie

intrise di paura per il sibilo

di archi anatolici, tesi a colpire

le nostre menti stanche e disilluse.

Mai più i sissizi comuni vedranno

novemila famiglie che da pari

siedono al tavolo, mentre gli iloti

servono il brodo nero, di cui i greci

hanno il sapore in enorme dispetto.

fra tutti quanti gli aedi di Grecia

solo, prendo la cetra nella destra

e canto tutto l’immenso coraggio

della speranza degli ultimi uomini

che si ergono contro Serse il Dio

mentre, nella sinistra, ho lo scudo...

E il sole sorge su un’altra giornata

il cielo colorando di vermiglio

come la terra, fra qualche minuto.

Siamo in trecento, qui alle Termopili

trecento uguali, nobili spartiati

con settecento tespiesi, col re

Leonida, dei satrapi sfidante

che dall’oriente vengono a disfare

ciò che uomini e Dei hanno voluto

per i secoli eterni e i millenni

che fosse fegato di civiltà:

La Grecia del Pelide, degli Atrei,

di Giasone, di Ercole, di Ulisse

di Edipo, dell’Olimpo, la dimora

dei signori e padroni dei viventi.

Dell’Elicona, che in questa occasione

mi è propizio al pari del noto Esiodo,

di Delfi, dove Febo si pronuncia,

di Olimpia, dove, messa via la lancia

e lo scudo riposto lì vicino

l’unica guerra che resta agli atleti

non sparge alcun sangue, ma solo foglie

e onore e gloria per il vincitore.

La Grecia dell’Arcadia, luogo in cui

portano i pastori le vaste greggi

a godere del sole e delle fonti

d’acqua pulita e dei fiori il profumo.

Speme non ho di riveder le terre

dove venni alla luce ne di scorgere

Siracusa, Napoli o le colonie.

Solo mi resta riporre la cetra.

Ares, dio della guerra, a te consacro

la mia lancia, il mio scudo e al fin quel vivere

che mi rimane, con l’ultimo carme

che spando per il vento, stamattina

  
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