Lo spartiato
Il sacrificio della patria nostra
è consumato, tutto, ora, è perduto.
Mai più vedrò lacedemoni terre
o le colline del Peloponneso.
Mai più, liberi da preoccupazioni,
ci riuniremo in simposio, nel quale,
mentre lo schiavo suona la sua cetra,
carne caprina dalle alte colline
viene servita nel piatto comune.
Ma quando nell’oscurità dell’Ade
non potremo godere di alcun bene
che i benevoli dei, su questa terra
e che Prometeo, nostro protettore
han fatto piovere dal sacro Olimpo
a cosa gioverà tutta la gloria
che questi giorni di sangue daranno
a Sparta e ai suoi trecento Opliti?
Non ameremo giovani ed etere,
non più il miele taglierà il vino
quando sopra di noi non stenderà
il suo manto stellato il divino,
oscuro cielo che Ecate apre
bensì il cupo grigiore averneo.
Che propizi ci siano gli Dei greci
e con clemenza gli Dei anatolici
trattino i nostri corpi devastati
Ade concedici una morte rapida
e Ares, fa che essa sia gloriosa
e che la cantino generazioni
a centinaia, dopo che i nostri
figli e le discendenze della grecia
giaceranno con noi sotto il suolo.
Si canti che la morte ci raggiunse
insieme a settecento combattenti
Tespiesi, e che da tutta la penisola
giunsero per
soccorrere
e in questo stretto passo combatterono.
Anche se tutta la gloria è incapace
di qualsiasi conforto sostenere,
contro la fredda terra di magenta
impregnata che accoglie i nostri corpi
privi d’ogni calore nella carne.
Dimmi, Febo: a che cosa serviranno
nell’Ade la soave cetra o lira
ostentante le glorie dei cadaveri?
Mai più berrò, come il poeta Archiloco
del vino ismarico, appoggiato all’asta.
Mai più Tirteo e il suo nobile canto
consolerà in queste notti buie
intrise di paura per il sibilo
di archi anatolici, tesi a colpire
le nostre menti stanche e disilluse.
Mai più i sissizi comuni vedranno
novemila famiglie che da pari
siedono al tavolo, mentre gli iloti
servono il brodo nero, di cui i greci
hanno il sapore in enorme dispetto.
fra tutti quanti gli aedi di Grecia
solo, prendo la cetra nella destra
e canto tutto l’immenso coraggio
della speranza degli ultimi uomini
che si ergono contro Serse il Dio
mentre, nella sinistra, ho lo scudo...
E il sole sorge su un’altra giornata
il cielo colorando di vermiglio
come la terra, fra qualche minuto.
Siamo in trecento, qui alle Termopili
trecento uguali, nobili spartiati
con settecento tespiesi, col re
Leonida, dei satrapi sfidante
che dall’oriente vengono a disfare
ciò che uomini e Dei hanno voluto
per i secoli eterni e i millenni
che fosse fegato di civiltà:
di Giasone, di Ercole, di Ulisse
di Edipo, dell’Olimpo, la dimora
dei signori e padroni dei viventi.
Dell’Elicona, che in questa occasione
mi è propizio al pari del noto Esiodo,
di Delfi, dove Febo si pronuncia,
di Olimpia, dove, messa via la lancia
e lo scudo riposto lì vicino
l’unica guerra che resta agli atleti
non sparge alcun sangue, ma solo foglie
e onore e gloria per il vincitore.
portano i pastori le vaste greggi
a godere del sole e delle fonti
d’acqua pulita e dei fiori il profumo.
Speme non ho di riveder le terre
dove venni alla luce ne di scorgere
Siracusa, Napoli o le colonie.
Solo mi resta riporre la cetra.
Ares, dio della guerra, a te consacro
la mia lancia, il mio scudo e al fin quel vivere
che mi rimane, con l’ultimo carme
che spando per il vento, stamattina