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Autore: whitemushroom    13/07/2013    8 recensioni
Garland è alla ricerca del perfetto angelo della morte, la creatura che ghermirà le anime della gente di Gaya. Ma piegare al proprio volere la sua prima creazione si rivela un'impresa impossibile ...
Genere: Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Kuja
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Non un Jenoma - e altri racconti.'
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Non un Jenoma
 
 
Il sangue continuava a scorrere. Si fece coraggio, respirò a fondo e piantò di nuovo il coltello nella carne, stringendo i denti nel momento in cui la scarica di dolore attraversò il suo corpo. Affondò la lama con tutta la violenza che le sue dita conoscevano, immaginando di piantarla nel collo di Garland.
Ma niente. La maledetta non voleva saperne di venir via.
Scagliò l’inutile arma contro le invisibili pareti della sua prigione, ed il coltello esplose in decine di schegge. Si rannicchiò sul pavimento, aspettando che passasse il dolore per fare un altro tentativo; le prime volte il freddo del marmo gli aveva regalato un po’ di sollievo, ma in quel momento l’unica cosa che sentiva era il pulsare del suo sangue lungo tutta l’odiosa appendice.
La prima volta aveva tentato di sbarazzarsi della coda con una sfera infuocata: aveva creato il globo infuocato sul palmo della mano e l’aveva stretto intorno ad essa, aveva sopportato il dolore finché non aveva perso conoscenza. Al suo risveglio la maledetta era ancora lì, con solo qualche pelo bruciacchiato. La seconda volta aveva cercato di estirparla con le mani, strappandola proprio nel punto in cui la peluria argentea si univa alla carne; aveva usato tutta la forza della sua natura jenoma, la stessa che gli permetteva di spezzare il ferro delle spade e sradicare gli alberi, ma dopo una notte intera aveva desistito. La terza e la quarta volta … non le ricordava già più. E nemmeno la quinta. O la sesta. Sapeva solo di aver fallito più volte di quelle che si era concesso.
Fa male.
Aveva lasciato il coltello per ultimo. Detestava la vista del sangue, del suo sangue. Aveva un odore orribile, la semplice idea che quel fluido disgustoso si nascondesse sotto la sua pelle candida lo disturbava. Si era impossessato dell’arma proprio quella mattina, durante l’ennesima lezione di Garland; quando il vecchio aveva ripreso a blaterare sull’importanza del flusso delle anime che legavano Tera a Gaya, lui aveva fatto scivolare il coltello sotto i vestiti ed aveva aspettato, paziente, che la lezione terminasse e che l’uomo lo riaccompagnasse nella sua prigione. Avrebbe voluto piantarlo lì, nella gola bianca ed incartapecorita, dire al vecchio cosa ne pensava davvero di tutte quelle chiacchiere, ma non era uno stupido. Non poteva uccidere Garland. O almeno, non così. Non in quel momento. Non in quella forma.
Il sangue non accennava a fermarsi. La lama era penetrata solo per un po’, ma per quanto l’avesse spinta vi era qualcosa dentro la coda che l’aveva bloccata, lasciando solo i vasi tagliati e l’odioso fluido rosso che gli era sceso tra le dita, lungo i vestiti e fin dentro gli stivali, appiccicandogli i capelli al viso. La sola vista gli faceva venire il voltastomaco. Rassegnato, fece per lanciare un incantesimo di guarigione quando la porta della stanza si aprì di scatto, ed una sottile lama di luce bianca fendette la semioscurità in cui si era rifugiato. Il suono, il ritmo di quei passi era inconfondibile. La figura avvolta nel mantello nero lo scrutò con il suo solito sguardo severo; poteva leggere rimprovero, ira, disgusto in quegli occhi incorniciati da rughe profonde. Non vi aveva mai letto né pietà né amore.
“Mi sembrava di averti detto più volte di smetterla con questa idiozia” disse Garland. “Quella coda rappresenta tutto quello che sei. È l’inconfondibile marchio della superiorità dei Jenoma, un quinto arto dalle potenzialità incredibili che nessuna delle striscianti razze di Gaya possiede. È tutto quello che sei, Kuja”.
Odiava quel discorso. “Chi sono lo decido io”.
“Davvero?”. Odiava quello sguardo derisorio. “E cosa vorresti essere? Sentiamo!”
Vorrei saperlo anche io … deglutì, sostenendo lo sguardo del suo creatore. Aveva provato a spiegarglielo innumerevoli volte, ed il dialogo terminava sempre così, con la sua bocca secca, i denti che tormentavano le labbra nella furia e l’innegabile sguardo di vittoria di Garland. Come poteva spiegargli quello che sentiva? Come poteva spiegargli il nodo allo stomaco che provava nel vedere i suoi fratelli nelle capsule di alimentazione, centinaia di creature tutte uguali che galleggiavano nei fluidi proteici, schedati, controllati e maturati dalle macchine di Tera? Come pretendeva che si sentisse come loro, pietosi contenitori dallo sguardo vuoto, che passavano le giornate nell’inerzia, in attesa che quei perfetti corpi ospitassero delle anime non loro? Adorava leggere libri, ma non aveva mai trovato un modo per descrivere quello che gli si agitava nel petto.
Garland lo fissò. Tra loro due vi era la sottile barriera magica che il vecchio ergeva intorno a lui ogni notte, per impedirgli di fuggire. Mosse la mano, e Kuja sentì la magia dell’uomo avvolgerlo, tirarlo, sospingerlo a pochi passi da lui fino a quando non furono a meno di un braccio l’uno dall’altro, separati dallo scudo incantato. “Vorrei sapere quante volte devo ripeterlo. Tu sei ciò che io ho creato. Tu sei ciò di cui tutta Tera ha bisogno, e se pensi, desideri, sogni, odi, ami, è solo perché io ti ho dato un’anima”.
“Cosa c’è, vuoi sentirti dire grazie? Perché non te lo fai dire dalle tue altre marionette?”.
“Risposta sbagliata”.
Mosse la mano e lo scaraventò contro la barriera. Kuja richiamò intorno a sé qualche incantesimo di difesa, ma la sua magia fu avvolta, compressa e poi schiantata da quella del vecchio. L’aria satura di magia si strinse intorno al suo corpo, premendogli contro il petto; una scarica partì dai polmoni e lo attraversò fino alla punta della coda , e quando provò a gridare si accorse di avere la gola, la bocca ed il naso pieni di sangue. La magia gli pulsò nel cervello, urlare o prendere aria era impossibile. Cercò di richiamare un incantesimo una seconda volta, ma una forza invisibile gli controllava i polsi e gli torceva le dita in modo innaturale. “Pensavo che darti un aspetto diverso dagli altri Jenoma sarebbe stato utile per farti comprendere l’importanza del tuo compito. Ma evidentemente ho commesso un errore di valutazione”. Le parole di Garland sembravano provenire direttamente dal suo cervello. “Questo tuo bisogno di indipendenza deve essere … eradicato”.
Fu come se una mano invisibile gli stesse stringendo il cuore, poi lo rilasciasse, poi lo stringesse di nuovo; sputò altro sangue, ma la sua bocca ne fu di nuovo inondata. Gli occhi pulsavano al ritmo forsennato del cuore, e per quanto li chiudesse gli sembrava che potessero schizzargli fuori dalle orbite da un momento all’altro. Agitò persino la coda come flebile difesa, ma le mani invisibili di Garland la torsero proprio nel punto in cui si era ferito. Proprio quando era certo di star soffocando, la presa dell’incantesimo terminò e si ritrovò scaraventato sul pavimento, con la fredda cupola nera del soffitto che lo osservava e riempiva tutto il suo sguardo.
“Ricominciamo. Chi sono io?”.
“Garland” mormorò. Odiava il nuovo suono della sua voce. Sembrava lo squittio di un topo.
“Cosa sei tu?”.
“Kuja” rispose. Non aveva ancora finito di pronunciare il suo nome che la stretta tornò a serragli il petto.
“Forse non hai sentito bene. Riproviamo. Cosa sei tu?”.
Provò ad inghiottire il sangue, ma la pressione sullo sterno glielo ricacciò su per la gola. Biascicò le parole pur di non soffocare. “L’angelo della morte di Tera … Il mietitore di anime di Gaya …” gemette, ma la pressione non se ne andò. La risposta non era completa.
Trattenne la parola quanto più possibile, ma quella gli sfuggì dalle labbra. “ … un Jenoma …”
“Molto bene. Può andare”. L’incantesimo se ne andò, e Kuja scoprì di essere affamato d’aria. Rimase per terra ad ansimare, prendere l’aria, sentirne la freschezza dentro il petto; non trovava la forza di muovere le mani, i piedi o la coda, ma anche quella dolorosa sensazione di impotenza era meglio della punizione. La punizione.
L’uomo dal mantello nero gli diede le spalle e si diresse verso la porta. “Tu sai che sono dalla parte della vita, e che preferisco usare la violenza solo quando è l'unica soluzione. Ma il tuo comportamento illogico ti sta spingendo oltre il limite che ti è consentito”. Lo disse con il suo solito tono neutro ed assente, e gli lanciò un’ultima occhiata. “Un altro gesto del genere e mi costringerai a creare qualcuno che ti sostituisca. Per sempre”.
Ipocrita … come se non lo avessi già visto … Il suo sostituto esisteva già, e di sicuro sarebbe stato pronto al massimo tra qualche settimana. Lo aveva scoperto tre giorni prima, aggirandosi tra i laboratori dei Jenoma, che lo facevano passare ovunque, avvolti nel nulla che ovattava le loro coscienze. Galleggiava nella sua vasca nutrizionale, il corpo quasi formato e la coda gialla che si muoveva seguendo la lieve corrente. Garland doveva temere davvero tanto la sua indipendenza, perché questo secondo angelo della morte era identico a tutti gli altri Jenoma, con i corti capelli biondi e gli occhi azzurri, ancora inespressivi. Era rimasto ad osservare per una decina di minuti la creatura che lo avrebbe sostituito, pur sapendo che se il vecchio lo avesse scoperto la punizione sarebbe stata ancora più dolorosa del solito. Si era domandato cosa farne. Il fatto che quel suo fratello fosse lì, in attesa di essere completato, era la prova schiacciante che Garland aveva già progettato di distruggerlo, cancellarlo e sostituirlo con qualcuno di più docile, un Jenoma che avrebbe agitato felice la coda al suo passaggio. Ma non aveva provato odio. Non troppo, almeno.
Garland chiuse la porta, regalandogli di nuovo la semioscurità. I suoi passi metallici, cadenzati alla perfezione, si spensero lentamente.
Kuja lanciò su di sé un incantesimo di guarigione, ed il dolore molto lentamente si attutì.
Non sapeva cosa voleva essere. Le possibilità gli sfuggivano davanti agli occhi e gli mostravano dei quadri mutevoli che svanivano come la nebbia dell’albero di Iifa; scene che andavano e venivano, ricche di colori e di futuri tutti improbabili. Uno scenario che il suo creatore non avrebbe mai potuto capire. Si chiese per un attimo se il suo sostituto avrebbe mai provato la stessa cosa, se l’anima che Garland gli avrebbe messo nel petto si sarebbe mossa come la sua, alla ricerca di qualcosa che non sapeva nemmeno definire. Si chiese se avrebbe mai guardato Gaya dall’alto, beandosi della sua onnipotenza. Se avrebbe mai sentito la magia pulsargli nelle vene e sospingerlo nel cielo, fin sopra le nubi.
No.
Si mise seduto a fatica. Osservò i vestiti imbrattati di rosso e la coda argentata che riposava al suo fianco.
Non voglio essere sostituito. Non voglio morire.
Non poteva dargliela vinta a Garland. Non voleva. Non aveva alcuna intenzione di lasciare che quel cupo vecchio decidesse quando e come far terminare la sua vita. Aveva centinaia di bambole con cui giocare ad essere il Destino: lui non sarebbe stato una di quelle. Forse non sapeva ancora cosa sarebbe voluto diventare, ma di una cosa ne era sicuro. Non un Jenoma.
Come vuoi tu, vecchio. Sarò il migliore angelo della morte che tu abbia mai visto. E terrò anche questa maledetta coda, visto che insisti tanto. Si asciugò il viso con la mano, e guardò i rivoli di sangue rosso che scivolavano lungo la pelle bianca. E aspetterò con ansia il giorno di stringerla intorno al tuo collo …
 
Quella notte fece il suo primo sogno. Un stormo di draghi d’argento.
  
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