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Autore: Yoko Hogawa    15/07/2013    16 recensioni
C’erano molte cose di cui provava nostalgia.(...)
Ma una delle cose che gli mancava di più era l’aria aperta.
Era Londra. Erano le sue luci, i suoi rumori, le sue persone ed il loro lato oscuro. Era il vento gelido in cima al Waterloo Brigde ed era l’odore dell’acqua stagnante ad Hide Park.
Camminare, correre, respirare, parlare, vivere.
Vivere.
[Slash se volete, ma anche solo bromance]
Genere: Malinconico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Desclaimer: i personaggi di Sherlock e tutto ciò che riguarda il telefilm e l’opera non mi appartengono, ma sono © di Sir Arthur Conan Doyle e dei Mofftiss (...non mi esprimo nemmeno, in proposito). Se non avessi a cuore di cercare di scrivere questa parte ogni volta in modo diverso, probabilmente farei copia-incolla. Non prendo un soldo manco per scherzo (sì, vi appesto... o meglio, infesto, il fandom gratis ;D).
 
Note: questa oneshot doveva uscire in modo completamente diverso, ma ho avuto l’idea mentre pensavo a come scrivere il suddetto “modo diverso” e ho deciso di sfruttare la vena finché c’è.
Nasce tutto dalla mia passione per i programmi di DMAX della sera tardi, e dunque dalla recente scoperta di “Cacciatori di Fantasmi” (Ghost Adventures) che mi ha ispirato una AU/What if in cui Sherlock e John erano, appunto, investigatori del paranormale specializzati in fantasmi. Poi l’idea è cambiata in ciò che segue XD
 
Per questa volta non c’è nessun avvertimento in particolare. Non è angst, direi solo malinconica. Slash se volete, altrimenti solo bromance. La scrittura è una mia prova stilistica, spero non faccia pena.
 
A chi vorrà leggere, auguro buona lettura come sempre ♥
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Lying in Wait

 
 
 
 
Non ricordava com’era morto.
Non ricordava qual era la sensazione, com’era stato sentire la vita lasciare le proprie membra, il sangue colare sul petto fino a terra, spandersi sul tappeto dopo aver impregnato la camicia di cotone bianco come in un film drammatico di pessimo gusto.
Non ricordava com’era morto, no, ma lo aveva dedotto. Dopo.
Non era stato così difficile.
I sigilli della polizia avevano impedito a chiunque di entrare al 221B una volta rimosso il corpo – il suo corpo – dunque era rimasto tutto com’era al momento della sua... dipartita.
In realtà, erano bastati solo un paio di indizi. Il vetro della finestra presentava un buco circolare, per esempio, tipico di un proiettile sparato da lontano; forse da una delle finestre di fronte, considerando l’angolo di tiro. Per il resto, c’era ancora la macchia del suo sangue sul tappeto, poco distante dalla poltrona.
Morto per un colpo d’arma da fuoco.
Lasciava un retrogusto amaro in bocca. Il più grande consulting detective del mondo, tornato alla vita dopo tre anni di menzogne, ucciso da un cecchino in casa sua e di spalle.
Gli antichi Cavalieri l’avrebbero chiamata una morte disonorevole. Non era sicuro che la società moderna sapesse ancora cosa fosse l’onore, in verità, ma sicuramente si sarebbe trovato d’accordo con loro.
 
 
 
Non era “ritornato” subito. Non sapeva perché.
Giorni dopo, probabilmente, considerando che non aveva visto nessuno sulla scena del crimine. Significava che le indagini forensi erano concluse ma il locale era ancora sottoposto a sequestro.
La casa era rimasta esattamente così, come se non se ne fosse mai andato via. I libri in disordine sulla libreria, la posta infilzata sul caminetto con un coltello a serramanico, il tabellone del Cluedo inchiodato al muro vicino allo specchio. I suoi attrezzi chimici, in cucina, erano per metà sparsi sul tavolo e per metà dentro a grosse scatole di cartone. Aveva usato lo stretto indispensabile per quei pochi giorni in cui aveva potuto godere della vita dopo essere tornato a casa, dunque non aveva ancora finito di spacchettare ciò che mrs. Hudson – e forse John – avevano impacchettato quando lo avevano creduto morto suicida tre anni prima.
Il suo violino, caduto sul tappeto di fianco alla poltrona, era probabilmente l’ultima cosa che aveva toccato prima di morire (davvero). Non ricordava nemmeno quale pezzo stesse suonando, se un triste adagio o un rabbioso pizzicato.
Un Requiem sarebbe stato tristemente esilarante.
Sapeva di essere morto suonando perché, nonostante il violino fosse ancora nel salotto del 221B, non vi era traccia dell’archetto. Il rigor mortis è una brutta bestia, e se era trapassato tenendo stretto l’archetto non l’aveva mollato finché non gliel’avevano tolto di forza. In obitorio.
Sperò che qualcuno, magari Molly, glielo riportasse. Non sapeva ancora cos’era, se un fantasma o un poltergeist o una eco di morte, ma si stava già annoiando. Magari avrebbe potuto suonare qualcosa, nell’attesa.
Già, l’attesa. La sua personale attesa.
Non sapeva cosa stesse aspettando, o chi. Da vivo aveva letto abbastanza sui fantasmi per sapere che erano spiriti con qualcosa lasciato in sospeso, dunque doveva esserlo anche lui. Aveva la sensazione che stesse aspettando, qualcosa o qualcuno, anche prima di morire. Poteva capirlo perché quella mancanza, l’ansia particolare dell’attendere, gli era rimasta dentro e sembrava essere ciò che nutriva il suo spirito.
Lui stava aspettando.
Si sforzò di capire cosa, o chi, ma non ebbe successo. Era come cercare di ricordare un sogno di molti anni prima, o una scena vista al di là di un vetro opaco. Sapeva che c’era, da qualche parte, il ricordo, ma non riusciva a raggiungerlo. Era frustrante, ma nemmeno la frustrazione superava quel suo attendere, quella sua mancanza che sembrava sempre in procinto di essere colmata.
Almeno non sono uno spirito vendicativo, si disse.
Si chiese però chi aveva trovato il suo corpo.
Forse mrs. Hudson. O... John?
Sperava che non fosse stato lui. Non si erano lasciati bene, questo lo ricordava. Avevano litigato, quasi un mese prima, a proposito della sua finta morte. Non si erano più parlati da allora, nonostante Sherlock avesse tentato di rintracciarlo tantissime volte.
Ma... poi?
Avevano fatto pace? Era riuscito finalmente a parlargli? Era riuscito a scusarsi? (Aveva voluto farlo?).
Non se lo ricordava minimamente. E il peggio era che non sapeva se questa sua mancanza di memoria era dovuta alla sua morte o a un rifiuto insito alla sua condizione.
Si guardò attorno con un occhio più attento. Era buio ma il cielo era sereno e la luce della luna filtrava dalla finestra bucata di fianco a cui era “riapparso”, dunque poteva avere una buona visuale della stanza da dove si trovava.
Erano particolari piccoli, ma si notavano.
John aveva poche cose, ne aveva sempre avute poche, ma non c’erano.
I suoi libri. Il suo notebook. La sua coperta di pile. Se fosse andato in cucina, probabilmente non avrebbe trovato una delle due tazze a righe che avevano acquistato quando era cominciata la convivenza. Se fosse andato di sopra, probabilmente la camera sarebbe stata vuota se non per il letto e le tende alla finestra.
Dopotutto, John non aveva messo piede a Baker Street per tre anni prima del suo ritorno. E quando infine era tornato avevano litigato, dunque era rimasto per meno di un’ora. Viveva con una donna ora – Sherlock non riusciva a ricordarne il nome – dunque era normale che non fosse ritornato nemmeno prima della sua morte.
Era incoraggiante, però, il fatto che mancasse il secondo mazzo di chiavi. Significava che John l’aveva con sé. Significava speranza.
Sorrise – o almeno ebbe l’intenzione di farlo – ma ovviamente non sentì le proprie labbra muoversi. Non si sentiva niente, in realtà. Dopotutto, ammesso e non concesso che fosse veramente un fantasma, doveva sicuramente essere incorporeo. In teoria non aveva nemmeno più un cervello, e forse era proprio questo il motivo per cui non riusciva a ricordare nulla che riguardasse le ore prima della sua fine e i giorni fra essa e la sua “apparizione”. Non aveva più una mente corporea da cui attingere informazioni.
Tuttavia pensava, e poteva rievocare ricordi meno recenti. Certo, aveva dei buchi – come se non riuscisse a mettere a fuoco le cose meno importanti, quelle a cui dava meno peso – ma qualcosa riusciva a vedere.
Sprazzi della sua infanzia e di Mycroft, di sua madre e di suo padre, della scuola, dell’Università, della cocaina, di Lestrade, di Molly. Mrs Hudson compariva qui e là. Di John riusciva a ricordare tutto.
Sospirò. Non voleva pensare che ricordasse quelle determinate cose solo perché legate allo spirito – al cuore, come voleva chiamarlo John – e, essendo lui nient’altro che quello ormai, non fosse in grado avere altri ricordi; tuttavia sembrava l’unica spiegazione possibile in quel momento.
Cercò di muoversi. Se avesse potuto andare nelle altre stanze, vedere cosa ci fosse o meno, forse avrebbe potuto costruire un quadro più completo. Avrebbe cominciato dalla propria stanza, praticamente intoccata da una settimana, ma quando pensò di camminare verso la porta non si mosse. Non ci riuscì.
Se avesse potuto, avrebbe sbuffato.
Sarebbe stata una lunga attesa.
 
 
 
Scoprì molto presto di non riuscire a fare molte cose e di non avere bisogno di fare altre.
Imparò che muoversi, gironzolare per l’appartamento, non era più un fatto legato ai piedi, dunque al pensiero di camminare, ma era diventata una dimostrazione di forza di volontà. Era come se dovesse convincere sé stesso di essere in grado di farlo. Per i primi tre giorni non ce la fece, poi al quarto arrivò alla poltrona.
Entro la settimana era già in grado di muoversi per l’intero piano.
Poteva passare attraverso gli oggetti – dunque sì, era proprio incorporeo – ma non vedeva il proprio riflesso allo specchio. Probabilmente, pensò, era anche trasparente. Invisibile. Lui riusciva a vedersi le mani, i piedi, il cappotto e le frange della sciarpa, ma se lo specchio sopra al camino non lo rifletteva doveva essere invisibile a tutti gli altri.
Scoprì inoltre che poteva aggirarsi per l’appartamento al primo piano, dal salotto alla camera da letto fino alla cucina, ma non poteva oltrepassare la porta di ingresso e andare nel pianerottolo. Questo significava non poter scendere da mrs. Hudson o andare nella stanza di John (una di quelle che avrebbe voluto rivedere di più). La consapevolezza di essere intrappolato al piano di sotto lo infastidiva, ma dovette abituarsi in fretta.
Dopotutto, non aveva molte altre possibilità.
Scoprì inoltre di non aver più bisogno di dormire ma che la luce del giorno lo indeboliva. Si sentiva più forte durante la notte, soprattutto intorno alla mezzanotte. L’unica cosa che riuscì a pensare fu che quella era da sempre chiamata “l’ora delle streghe” e, forse, non era esattamente una cazzata.
 
 
 
Un mese dopo le porte dell’appartamento si aprirono e Sherlock poté vedere le sue prime persone da quando era morto.
Un poliziotto che non conosceva strappò i nastri gialli fuori dalla porta e qualcun altro, qualcuno che aveva le chiavi, diede la doppia mandata necessaria ad aprire la serratura.
Sherlock aveva trovato ormai posizione sul davanzale della finestra, dove poteva stare seduto e guardare al contempo sia dentro che fuori. Uno fra i lati negativi di essere un’entità senziente era la noia, ma almeno guardare la vita scorrere su Baker Street aiutava. Sperava sempre di vedere il volto famigliare di John fra la folla, magari fermo sul marciapiede opposto a guardare le finestre dell’appartamento, ma non l’aveva ancora visto.
Probabilmente era colpa del foro di proiettile nel vetro. Solo Dio sapeva se e quanto John si sentisse in colpa per ciò che gli era successo.
Quando finalmente entrarono, Sherlock notò con piacere che conosceva due delle tre persone che avevano messo piede in casa.
Oltre al poliziotto c’era mrs. Hudson, l’unica dopo John ad avere una copia della chiave. Aveva l’espressione stanca e gli occhi rossi e, per un istante, sembrò più vecchia che mai. Parlava con Mycroft, chiuso come al solito in uno dei suoi completi eleganti e con l’onnipresente ombrello alla mano, il volto fermo e serio così come la postura, rigida e controllata. Non sembrava diverso dal solito e se Sherlock avesse avuto ancora un naso da arricciare, lo avrebbe fatto.
Sperava che fosse John, in realtà.
« Io vi aspetto fuori » disse il poliziotto, passando loro accanto e mettendosi di guardia fuori dalla porta. Mrs. Hudson lo ringraziò cortesemente mentre Mycroft si limitò ad un secco cenno del capo.
« Dov’eravamo rimasti, mrs. Hudson? » chiese poi suo fratello, dando un’occhiata veloce al suo orologio da polso.
« Beh... penso che farò ripulire tutto e poi rimetterò in affitto l’appartamento » ricominciò la donna, probabilmente riprendendo un discorso che aveva in precedenza interrotto: « certo, sarà uno strazio, ma... » disse, ma si interruppe di nuovo.
Sherlock si accorse che stava guardando la macchia di sangue sul tappeto e i segni di gesso lasciati dalla polizia scientifica. Nemmeno la poca polvere depositatasi in quel mese aveva coperto quei macabri dettagli.
La vide deglutire e trattenere le lacrime. Si portò le mani a coprirsi gli occhi per poi girarsi di schiena alla finestra, in una posizione che le avrebbe impedito di vedere oltre quel triste quadretto di morte.
Sherlock sentì una punta di pena e compatimento.
« Non ce ne sarà bisogno » intervenne Mycroft. « Ho intenzione di tenere l’appartamento così com’è. Continuerò a pagarle l’affitto mensilmente come ho fatto negli ultimi tre anni. Sempre che il dottor Watson non abbia intenzione di tornare a vivere qui » disse.
Sherlock alzò il volto, interessato. Desiderava rivedere John, anche solo una volta, solo per un momento o un breve istante. Capire se stava bene, se poteva farcela.
Ma certo che ce l’avrebbe fatta. Lui era un soldato, non un burattino con una gamba rotta e un buco sulla spalla. Avrebbe superato anche questa perdita – per la seconda volta, in un certo senso – e sarebbe andato avanti con la sua vita.
Sherlock non seppe descrivere a parole quanto intensa fu la tristezza che lo travolse a quel pensiero.
Forse, peggio della morte e della maledizione dell’attesa, era la consapevolezza che un giorno sarebbe stato dimenticato.
Forse non subito, forse non da tutti. Ma prima o poi le persone che avevano vissuto con lui sarebbero morte e con loro il suo ricordo. E lui sarebbe rimasto per l’eternità lì, in attesa, a guardare fuori da una finestra rotta la vita che scorreva e la città che cambiava.
Con voce rotta, mrs. Hudson rispose. « Oh, no... John non vuole più mettere piede in questo appartamento. Quando gli ho chiesto se voleva conservare qualcosa di Sherlock, o se voleva entrare per prendere le poche cose che aveva lasciato, mi ha risposto di bruciare tutto. No, io... credo che John non ne voglia più sapere, di Baker Street » disse con una nota di tristezza nella voce malferma.
Sherlock dovette distogliere lo sguardo. Tutto sommato era logico che John avesse reagito in quel modo, era da lui.
Ma saperlo non mitigava la delusione.
Sentì suo fratello sospirare pesantemente e fu questo che gli fece riportare l’attenzione sui due.
« Grazie, mrs. Hudson » disse Mycroft: « le dispiace lasciarmi solo un momento? » domandò poi.
La richiesta spiazzò Sherlock, che si fece subito sospettoso. Cosa voleva fare Mycroft nel suo appartamento? Se doveva eliminare prove importanti per la sicurezza nazionale era in ritardo, probabilmente la polizia aveva già setacciato tutto l’appartamento.
« Oh, ma sì, certo » annuì la padrona di casa, dando a Mycroft un piccolo buffetto sulla spalla prima di uscire dall’appartamento.
Mycroft rimase solo.
Per un istante non si mosse, lo sguardo posato chissà dove. Prese un respiro a metà poi, come se quel movimento gli costasse fatica, girò la testa verso la macchia di sangue che adornava il tappeto.
Si avvicinò alla poltrona, battendo due volte per terra la punta dell’ombrello in corrispondenza del numero di passi che gli servirono per arrivarci. Deglutì e poi si chinò, piegandosi sulle ginocchia, e passò due dita sul tessuto macchiato del tappeto.
Il sangue era secco, dunque il politico non si sporcò le dita. Tuttavia si portò le dita davanti al viso e le sfregò sul pollice, come se stesse davvero sentendo la consistenza del sangue sulle dita.
« Sapevo che saresti morto giovane, prima o poi » disse infine, posandosi le due dita sulle labbra. Solo un tocco effimero, uno sfioramento fra i polpastrelli e la bocca. « Non credevo che te ne saresti andato in questo modo » concluse poi.
Dopo aver chiuso la mano a pugno ed essere rimasto il silenzio per un altro paio di minuti, si alzò ed uscì a passo lento dal salotto, poi dall’appartamento.
Sherlock era ancora alla finestra del salotto, silenzioso e pensieroso per ciò a cui aveva appena assistito.
Forse, pensò, ritenere che Mycroft fosse semplicemente ossessivo nei suoi confronti era stato uno sbaglio. Forse, sotto quei completi gessati e la dieta infinita, c’era ancora l’ombra di quel fratello maggiore con cui era andato d’accordo da piccolo, almeno per un po’.
Forse, Mycroft avrebbe sentito la sua mancanza, nonostante tutto.
E forse, Sherlock avrebbe sentito la sua.
 
 
 
Mrs. Hudson non mise più piede all’interno del 221B, e nemmeno Mycroft. Nessuno lo fece.
Mesi dopo l’ultima volta che li aveva visti, Sherlock era rimasto a guardare mentre due uomini in tuta da lavoro coprivano con delle lenzuola mobili e suppellettili, lasciando tutto così com’era senza toccare niente. Il suo violino, ancora per terra, finì sepolto per metà sotto il telo che andò a coprire la sua poltrona; solo il riccio e la tastiera rimasero fuori, ma nascoste alla vista a causa della massa informe della poltrona coperta dal lenzuolo.
Inchiodarono due assi di legno ad ogni finestra, piuttosto distanziate, e staccarono la corrente in tutta la casa. Se ne andarono parlando del più e del meno e, prima di scendere le scale, chiusero a chiave la porta e, probabilmente, inchiodarono delle tavole di legno anche su quella.
Non era passato molto tempo dalla sua dipartita, ma da questo poteva intuire che Mycroft non avesse intenzione di lasciare entrare nessuno, in quell’appartamento. Probabilmente lo aveva addirittura comprato, o aveva convinto mrs. Hudson a lasciarglielo come eredità testamentaria, per questo veniva completamente sigillato.
Classica scelta da Mycroft Holmes. Fortuna, almeno, che le tavole non gli impedivano di guardare fuori dalla finestra.
 
 
 
Da fantasma ti rendi conto del tempo che passa.
Passarono anni e la stanza, attorno a lui, cominciò a cambiare.
Se inizialmente la polvere era solo un lieve velo grigiastro sugli oggetti, una patina bianca che non nascondeva del tutto i colori, con gli anni divenne una coperta grigia e spessa, più simile a polvere di gesso che a polvere normale, sulla quale un essere umano ancora in vita – o, per meglio dire, corporeo – avrebbe potuto scrivere usando la punta di un dito.
La carta da parati cominciò pian piano a staccarsi. Prima in piccole scaglie, gli angoli in alto, che rimasero vittima dell’umidità che filtrava dalle pareti; finché non si staccò un intero foglio con un fruscio sinistro, andando a posarsi di traverso sul divano.
In quell’occasione, tutto ciò che Sherlock fece fu girare il capo. Appurato cos’era stato a fare quel rumore, tornò a guardare Baker Street, sempre in attesa.
La polvere ricoprì anche il pavimento. Sherlock provò varie volte a camminarci sopra nel tentativo di lasciare delle impronte, ma il velo di polvere rimase inviolato nonostante tutti i suoi sforzi. Scoprì che era difficile fare qualsiasi cosa che richiedesse una manifestazione corporea o semi-corporea e passò gran parte delle sue giornate a cercare di muovere gli oggetti, o semplicemente far cadere quelli in bilico. All’inizio non ci riuscì poi un giorno, mentre i suoi pensieri avevano preso una piega molto negativa a proposito della propria miserevole situazione di entità incorporea intrappolata fra quelle mura, riuscì a far cadere un’ampolla dal tavolo della cucina, che si infranse a terra con un rumore sordo che spezzò un silenzio vecchio di anni.
Sogghignò alla sua conquista. Sorrise un po’ di meno quando, dal corridoio del piano di sotto, sentì mrs. Hudson domandare se ci fosse qualcuno in casa.
La donna doveva essere vecchia, ormai. Non era il caso di spaventarla.
Anche se è quello che fanno i fantasmi.
 
 
 
La prima persona che ricambiò il suo sguardo, giù in strada, fu esattamente quella che pensava sarebbe morta per prima.
Non sapeva quanti anni fossero passati, in realtà, non di preciso, ma la figura di Irene Adler era ancora affascinante ed elegante dall’altra parte di Baker Street, di dirimpetto al portone del 221B.
Doveva essere un’apparizione di qualche sorta, perché la folla del pieno pomeriggio le passava di fianco e attraverso senza minimamente vederla o toccarla. Era una eco, capì Sherlock: la volontà di una donna – de La Donna – che aveva deciso di passare a fare un saluto prima di andarsene ovunque gli spiriti andassero oltre la vita e dopo la morte.
Paradiso o Inferno, forse, o forse la Reincarnazione. Il Nulla, pensava Sherlock.
Irene lo guardò con un sorrisetto sulle labbra dipinte di rosso. Indossava quel vestito bianco che le aveva visto indosso solo in fotografia e i capelli mossi erano raccolti come sempre sulla testa in quell’acconciatura dalla forma strana.
Sherlock ricambiò lo sguardo, ma non sorrise di rimando. Lei lo invitò a scendere, ma lui scosse piano il capo.
L’espressione che comparve sul viso della Donna disse quello che le loro voci non potevano. Aveva capito e, forse, aveva capito anche più di lui. Ebbe la voglia di chiedere a lei se sapeva chi lui stesse aspettando, se sapeva perché a lui era proibito attraversare il confine della vita e trovare la sua pace, ma sapeva già che non avrebbe ricevuto alcuna risposta.
Irene Adler lo salutò con un bacio, prima che un autobus la coprisse alla sua vista. Quando il mezzo fu transitato, della Adler non c’era più nessuna traccia.
 
 
 
C’erano molte cose di cui provava nostalgia.
La luce, per esempio. Le fiamme tremolanti di un camino acceso.
I suoni. I passi di John al piano di sopra, o sulle scale, o il gorgoglio del kettle in cucina. La sua voce.
Gli odori. Il caffè al mattino insieme allo sfrigolare del bacon sulla fiamma, l’aroma del tè con un goccio di miele, il dolce dei biscotti di mrs. Hudson. Odore di composti chimici, di carne decomposta, di terra, di pioggia. Da fantasma non sentiva gli odori ed era un gran peccato, perché dal buco nel vetro doveva per forza sentirsi, l’odore di pioggia.
Ma una delle cose che gli mancava di più era l’aria aperta.
Era Londra. Erano le sue luci, i suoi rumori, le sue persone ed il loro lato oscuro. Era il vento gelido in cima al Waterloo Brigde ed era l’odore dell’acqua stagnante ad Hide Park.
Camminare, correre, respirare, parlare, vivere.
Vivere.
 
 
 
Mrs. Hudson lasciò Baker Street in ambulanza un freddo giorno di gennaio.
La neve era scesa su Londra la notte prima, ricoprendo tutta la città di una coltre bianca che sembrava amplificare il silenzio. Erano le sei del mattino quando i lampeggianti blu ruppero la quiete e si fermarono, frenando, davanti al portone del 221B.
Sherlock vide tutto, dal suo posto accanto alla finestra. Vide i paramedici scendere di corsa, incontrare mrs. Turner, farsi aprire il portone. Li sentì entrare al 221A, chiamare mrs. Hudson a voce alta. Vide uscire la barella che portava una donna incosciente e più vecchia di molti anni verso la sua ultima dimora prima della fine.
Era invecchiata, la cara signora Hudson. Da molto aveva smesso di fare la tinta ai capelli, che erano rimasti bianchi come la neve che aveva coperto la capitale, ed una magrezza tipica della vecchiaia traspariva dalla camicia da notte ormai troppo larga.
Sherlock capì che non l’avrebbe più rivista. Non avrebbe potuto vederne lo spirito di sfuggita com’era successo con Irene, perché prima di essere caricata sull’ambulanza la vecchia guardò in alto, verso la finestra, verso di lui e... sorrise.
Lo aveva visto.
Sherlock le sorrise a sua volta.
Forse aveva sempre saputo di lui, in quegli anni di limbo. Forse aveva capito sin dall’inizio che c’era qualcuno là sopra, dietro le porte sbarrate del 221B, dietro la volontà di Mycroft di far sì che rimanessero tali, sotto la polvere e dentro il silenzio. Qualcuno che non se ne era mai andato, qualcuno in attesa.
Oh, sì, mrs. Hudson aveva sempre saputo.
In un qualche modo, lei gli aveva fatto compagnia, finché aveva potuto.
 
 
 
Quella notte le sirene della polizia risuonarono per tutta Londra.
A volte si fermavano, il silenzio scendeva per qualche minuto e Sherlock era in grado di sentire rumori di grida, spari e altri boati sordi rimbombare nel cuore della notte, echeggiando fra gli edifici. Poi le sirene ricominciavano ad ululare.
Non è mai buio, a Londra, ma quella notte il cielo era illuminato di un alone rosso sopra i tetti delle case. Non è mai vuota, Londra, ma quella notte nessuno passò per Baker Street.
Una rivolta, intuì Sherlock. Violenta. Impossibile capire chi combattesse e contro cosa, se degli estremisti contro il Governo o dei manifestanti contro la polizia, ma l’aria vibrava di malvagità ed è una cosa che cominci a sentire, quando sei fatto di puro spirito.
Fu quella notte che lo vide.
Lì dov’era comparsa Irene, sul lato opposto di una strada vuota e parzialmente illuminata dal riflesso rosso sangue del cielo sopra la città. Una figura lo guardava, ferma immobile nell’aria statica di quella notte strana.
Un impermeabile nero, ormai sgualcito, che gli aveva visto addosso centinaia di volte. I pantaloni di un completo grigio fumo. Una camicia bianca aperta su un filino in più di pancia e su di un petto striato di sangue e che portava ancora i segni degli elettrodi del defibrillatore. Capelli brizzolati ormai più bianchi che grigi.
Greg Lestrade.
Sherlock si alzò, sorpreso, appoggiandosi al vetro con una mano e chinandosi verso di esso. Avrebbe allungato fuori la testa se i confini delle mura in cui era rinchiuso glielo avessero permesso, ma perlomeno riusciva a vedere abbastanza bene anche attraverso il vetro sporco.
Lestrade gli sorrise come per chiedergli scusa, poi fece spallucce. Come per dire “doveva succedere, prima o poi”.
No, pensò Sherlock. Persone come Lestrade non si meritavano di morire così, sul retro di un’ambulanza, senza avere la possibilità di dire addio alle persone amate o di vivere pienamente gli ultimi anni di servizio prima della pensione.
Ma dentro di sé Sherlock sapeva che Lestrade, nel profondo, era come lui. Gente come loro non era fatta per essere chiusa fra quattro mura. Lestrade voleva respirare l’aria della Londra oscura e riempirsene i polmoni, per questo era morto dove gli spettava: fra le strade della sua città mentre faceva il suo dovere.
Lestrade gli sorrise ancora. Poi, portandosi due dita alla fronte, gli fece un saluto militare alla buona.
Sherlock lo vide scomparire lungo Baker Street mentre camminava con le mani in tasca.
 
 
 
È contradditorio per un fantasma avvertire la vecchiaia, eppure lui se la sentiva appiccicata addosso.
Come un vecchio dipinto il cui colore comincia a sfaldarsi, o un capo d’abbigliamento dimenticato in fondo all’armadio per troppo tempo.
Si sentiva immobile in un tempo che non smetteva mai di passare troppo piano. Abbandonato in un angolo come un oggetto da qualcuno che sarebbe dovuto venirlo a riprendere ma non si era ancora presentato. In attesa di qualcosa, o di qualcuno, che nemmeno ricordava e le di cui immagini sbiadivano pian piano negli anni, svanendo invece di rinforzarsi.
Poteva quasi sentire la polvere posarsi su di lui, i suoi vestiti ammuffire, la sua anima appesantirsi di malinconia, la sua volontà incrinarsi e scricchiolare, i suoi ricordi crollare una scheggia alla volta.
Quanti anni erano passati? Quante decadi?
I vetri delle finestre erano ormai opachi e i libri avevano cominciato a marcire.
Chi stava aspettando? Cosa stava facendo?
I raggi del pallido sole londinese non illuminavano altro che polvere e desolazione attorno a lui, vernice sfaldata su di un legno tarmato, tavole piegate del parquet e macchie d’umidità sul soffitto.
Perché era lì?
 
Qual’era il suo nome?
 
 
 
Il rumore della porta che si apriva lo risvegliò dalla sua stasi.
Sherlock alzò il volto dalle ginocchia, le gambe piegate e strette al petto, il minimo necessario per poter vedere attraverso i ciuffi neri cosa o chi stava interrompendo l’assoluta immobilità del 221B.
Vide per primo il fascio di una torcia. Era buio, notò con dispiacere, notte, dunque le due persone che avevano appena messo piede sul pavimento oltre la soglia non avevano il permesso di rimanere lì. Nessuna persona con un’autorizzazione penetra in un appartamento di notte, e soprattutto non lo fa con un paio di torce elettriche e i jeans.
Curiosi, capì. Ragazzini, a giudicare dalle ombre che riusciva a vedere al di là delle torce.
« Dove hai imparato a scassinare una serratura? ».
« Internet. Con quelle che si aprono ancora con la chiave è una passeggiata ».
Non si sbagliava. Il timbro di voce era tipico di due adolescenti.
« Dave, ripetimi perché siamo qui ».
« Stai scherzando, vero Jack? ».
« No. Questa casa mi da i brividi e ho della polvere anche nelle orecchie. Se i miei padri lo scoprono... ».
« Lascia perdere i tuoi padri! Questa è l’occasione della nostra vita! ».
Sherlock, disturbato dalla loro presenza e dal tono troppo alto delle loro voci, arricciò il naso, fissandoli.
Non dovevano essere lì. Non dovevano azzardarsi a mettere piede in quel luogo. Lo stesso pensiero di venirlo a disturbare non avrebbe dovuto sfiorarli. Chi erano? Come si permettevano?
« Lo so, lo so. Però... ».
« Questa è la casa del detective! Quello dei libri! ».
« Lo so, li ho letti anche io, sai? È il maledetto motivo per cui ti ho conosciuto ».
« E allora cos’hai da lamentarti? Non eri tu quello che voleva vedere la casa? È questa! ».
« Per me no. Per me l’autore se l’è inventato ».
« Stupidaggini, Watson ci viveva, qui dentro. Aveva anche un blog. Era il suo... ».
« Lo so, ti ripeto! Li ho letti anche io! ».
Sherlock sobbalzò. “Watson”? Chi era? Perché il nome suonava così famigliare?
Strinse i denti sotto le labbra serrate.
Quei ragazzini invadenti lo stavano facendo arrabbiare.
« Jack... non mi sento a mio agio ».
« Dave: sei, una, piaga. Rilassati. Questo posto è abbandonato da decadi ».
« È sempre proprietà privata ».
« Nessun Holmes abita più in città, ho controllato, e la vecchia padrona di casa è morta da anni. Siamo solo noi e questa meraviglia. Magari troviamo qualcosa... Watson ha scritto di non aver portato via niente, in uno dei suoi diari. Oh mio Dio, ehi! ».
« Cristo santo, cosa c’è?! ».
« Magari troviamo il violino! ».
No.
« Mi hai fatto prendere un accidente, Jack! credevo che avessi visto qualcosa! ».
No.
« E cosa, secondo te? Il fantasma di Sherlock Holmes? Che frignone ».
Sherlock... Holmes?
Sherlock Holmes.
Il suo nome. E Watson... Watson... John.
John Watson.
Il medico, il soldato. Il suo migliore amico.
John.
La persona che lui...
No.
« FUORI DI QUI! » urlò Sherlock alzandosi in piedi, sbattendo un piede con rabbia contro il pavimento di legno.
La sua voce fu un urlo muto, ma risuonò forte e chiaro il rumore sordo della sua scarpa contro il pavimento.
I due ragazzi raggelarono e si immobilizzarono.
« Dave... D-Dave, hai sentito...? ».
« Cos... cos’era? Cos’è stato? ».
« Non lo so... ».
Nonostante non avesse seriamente bisogno di respirare, Sherlock respirava profondamente e pesantemente. Capì che l’unico modo per liberarsi dai curiosi come quei due ragazzini ignoranti era comportarsi da fantasma e spaventare.
Posò gli occhi sulla lampada da lettura di fianco alla poltrona di John. Era stata coperta da un lenzuolo ma era l’oggetto più vicino ai due ragazzi, ancora sulla porta del salotto.
Dovevano vederlo, capire cos’era stato a cadere, osservare la caduta. Dovevano spaventarsi e raccontare alla gente di non tornare al 221B di Baker Street fino a che la struttura stessa si sarebbe eretta sulle proprie fondamenta.
Nessuno doveva disturbare la sua attesa. Nessuno.
Solo rabbia e disperazione colmavano Sherlock mentre si dirigeva senza nemmeno dover camminare verso il tavolino da tè di fianco alla poltrona che era stata di John. Il suo sguardo sottile non lasciava i due ragazzini che cercavano una calma di cui non erano padroni e attendevano, a loro volta, chissà quale segno, in silenzio e con il cuore in gola.
Patetici.
Pensateci due volte prima di tornare qui.
Con un movimenti calcolato della mano, Sherlock diede una spinta alla lampada da sotto il lenzuolo, che cadde con un tonfo sordo e un rumore di vetro infranto (probabilmente la lampadina).
I due ragazzi proruppero in un grido che lacerò violentemente il silenzio. Si aggrapparono disperatamente uno all’altro prima che l’istinto facesse il suo dovere e i due se ne andassero, inciampando, caracollando già dalle scale e fuori dall’edificio.
Lasciarono la porta aperta e, sul pavimento, una torcia.
 
Sherlock aspettò fino a che le pile della torcia non si esaurirono e la luce si spense.
Non entrò più nessuno, al 221B.
 
 
 
Il salotto in cui era rinchiuso da anni e anni era ormai irriconoscibile.
La carta da parati, così tipica con quel disegno particolare, si era ormai staccata del tutto e ricadeva a brandelli sul lenzuolo che copriva il divano, la cui pelle doveva essere ormai consumata e logora. Centimetri di polvere ricoprivano ogni superficie, nell’aria vi era odore della muffa che si era mangiata i libri e da molto tempo ormai Sherlock aveva smesso di udire lo scricchiolio delle tarme o lo squittio dei topi. La canna fumaria del camino era chiusa dai detriti e dalla fuliggine ormai addensata e la luce del giorno faticava ad entrare da quelle finestre, logore e dai vetri ormai opachi. Sotto di lui, il punto del davanzale su cui amava stare seduto era sporco a causa della pioggia e delle altre intemperie che penetravano dal foro nel vetro. Il soffitto, infine, era completamente macchiato da muffe nere e infiltrazioni d’acqua e umidità.
Erano lontani i tempi in cui quelle mura avevano brillato di luce propria. Erano lontani i giorni in cui nel salotto regnava un caos di libri e documenti, in cui John nascondeva l’unico pacchetto di sigarette rimasto nel tentativo di togliergli il vizio del fumo, in cui Sherlock passava ore seduto a pensare e a riflettere. I giorni in cui il suo continuo e testardo silenzio non scoraggiava John, il quale preparava sempre una tazza di tè in più. I giorni della gloria e del pericolo, delle risatine e delle notti senza sonno, di un’amicizia che, per una volta, Sherlock voleva illudersi non sarebbe mai finita.
Giorni di luce che quel salotto non avrebbe visto mai più.
E, forse, nemmeno lui.
 
 
 
Pensare era l’unica cosa che sembrava tenere insieme la sua salute mentale.
Pensare al passato, alle persone a cui teneva, a John.
Pensò ai tre anni, alle accuse che John gli aveva mosso una volta tornato, alla lite che avevano avuto.
Tre anni.
Tre anni, si ripeté fra sé e sé: cosa saranno mai, tre anni, in confronto a tre decadi?
 
 
 
Quando lo vide, dall’altra parte della sempre affollata Baker Street, era un giorno di pioggia di molti anni dopo.
Sherlock aveva visto Londra cambiare, in quegli anni. Tutto era mutato, dai vestiti al modo in cui le persone parlavano. Influssi di lingue orientali avevano macchiato l’inglese parlato e ora si potevano udire esclamazioni e parole in cinese e giapponese mescolate all’inglese di tutti i giorni.
Un re era morto e un re era nato. Un Governo era caduto ed un nuovo Governo si era formato in sua vece. E gli esseri umani erano ancora soli nell’universo.
Lui, tuttavia – la figura dall’altro lato della strada – non era cambiato minimamente.
Nonostante i capelli, stempiati e bianchissimi, e il fisico, magro e raggrinzito e dalla postura scorretta di chi ha passato molto tempo seduto, gli occhi azzurri erano ancora penetranti e supponenti, le labbra sottili strette in un’espressione guardinga.
Il tempo cambia tutto ma non cambia Mycroft Holmes.
Capì che era morto perché la pioggia non lo bagnava. Era in piedi, l’ombrello al fianco, vestito con un elegante gessato nero. Guardava verso di lui con espressione seria e severa, quasi aspettandosi che si giustificasse e gli dicesse il perché era ancora lì dopo tutti quegli anni.
Ma Sherlock non aprì bocca.
Mycroft sospirò, sollevò la manica del polso sinistro, ticchettò il quadrante del costoso orologio da polso con il dito della mano opposta. Lo guardò di nuovo.
Sherlock scosse piano la testa.
No, Mycroft, mi dispiace. Devo aspettare.
Mycroft chiuse gli occhi e sospirò di nuovo.
Aprì l’ombrello e, zoppicando, scomparve fra i tanti ombrelli aperti di quel giorno di pioggia in Baker Street.
 
 
 
Cominciò a perdere anche la cognizione del tempo.
Gli era ormai impossibile dire quanto fosse trascorso dalla sua morte, dal momento in cui si era risvegliato ed era cominciata la sua attesa. Decenni, sicuramente, ma non era più sicuro di quanti.
Molte volte aveva rischiato di perdere di nuovo la ragione, di dimenticarsi chi fosse. Aveva canticchiato con le labbra i motivi per violino che conosceva a memoria, da Bach a Paganini a Mozart, ma solo pensare a John lo aiutava a ricordarsi di sé, a ricordarsi della sua attesa apparentemente infinita all’interno di quelle mura una volta così famigliari e ora così estranee.
Strani scricchiolii cominciarono a fargli compagnia.
Cedimenti strutturali, presumeva. Le case di fianco al 221B non erano più abitate da un po’ – non sentiva più l’eco delle televisioni la sera, o voci impegnate in conversazioni di ogni tipo – dunque, probabilmente, era l’infrastruttura della casa che non sosteneva più il peso del tetto, o del primo piano, o che comunque cominciava ad accusare il colpo dell’età.
Si chiese come sarebbe stato, invecchiare insieme ad essa.
Da giovane – da vivo – non aveva mai pensato troppo alla sua vecchiaia. Aveva sempre desiderato una di quelle vite corte e piene, morire giovane per non dover sentire il proprio corpo cedere il passo all’incapacità di fare determinate cose, cose che lui amava e che non voleva lasciare. Questo, finché era stato solo.
Poi era arrivato John.
E chissà perché Sherlock aveva cominciato a pensare che se lui e John avessero potuto rimanere insieme fino ai sessanta, settanta, ottant’anni, probabilmente la vecchiaia non sarebbe poi stata così male.
Una casa nel Sussex, dove l’aria è buona come la gente. Un bel giardino, una poltrona comoda, le api.
Sarebbe stato bello. Avrebbe convissuto volentieri con l’artrite, la memoria ballerina e le articolazioni cigolanti se avesse potuto condividere tutto quello con John.
Purtroppo, però, non era più quella, la sua attesa.
 
 
 
Chissà se in fantasmi potevano morire.
O forse solo... sparire.
Chiudere gli occhi e lasciarsi andare, vagare nel limbo dell’incoscienza senza essere più svegliati.
Cosa c’era dopo la morte per chi trovava la pace? E per chi non vi riusciva?
Esiste un posto per coloro, spiriti rinnegati senza via d’uscita, che non trovavano assoluzione o soluzione per le loro cose lasciare in sospeso?
Venivano anche loro lasciati in sospeso, così...? Intrappolati senza possibilità di fuga in un universo buio, con il solo barlume della propria coscienza a ricordare che si è ancora presenti, in sé? L’ultimo bagliore d’esistenza che non si spegne mai ma annerisce soltanto?
Sherlock non lo sapeva, ma sentiva che era vicino a scoprirlo.
 
 
 
Lo riconobbe probabilmente già dallo scricchiolio del settimo gradino.
Il passo, l’andatura. Forse il rimbombo sulle scale del bastone, di quel suono che aveva già sentito, in un passato lontano.
Forse, solamente la presenza.
La stanza sembrò più luminosa del pallido sole che rischiarava quel mattino. L’aria più pulita, le ombre meno cupe.
Era cambiato, completamente diverso dall’ultima volta che lo aveva visto, ma Sherlock sarebbe stato in grado di riconoscerlo in mezzo ad una folla, in mezzo a centinaia di suoi cloni tutti identici a lui; Sherlock lo avrebbe sempre riconosciuto.
John Watson.
Vecchio, ora. La schiena piegata dall’età, le dita rovinate dall’artrite, i capelli bianchi e corti che solleticavano una cute macchiata e piena di rughe. Zoppicava appoggiandosi con forza al bastone, il suo vecchio bastone di metallo e legno a cui aveva già affidato una volta il suo equilibrio, usandolo dalla parte in cui la vecchia ferita alla spalla non gli impediva di perdere la presa sugli oggetti. Portava occhiali spessi dalla grossa montatura nera, una camicia a quadretti e una giacca di lana marrone con i bottoni rotondi, pantaloni di velluto a coste di un marrone più scuro ed un paio di vecchi mocassini logori a cui aveva cambiato i lacci almeno tre volte. Sherlock se li ricordava, quei mocassini. Erano quelli delle grandi occasioni. Incredibile che li avesse ancora.
Così vecchio, così... debole. Fragile. Bastava solo il pensiero perché perdesse l’equilibrio durante un passo, dovendo appoggiarsi alle due persone che lo accompagnavano – una donna di circa quarant’anni e un ragazzino che ne avrà avuti sì e no quindici – mentre apriva la porta cigolante del soggiorno ed entrava nella sua stessa stanza, ansimando, respirando per riprendere aria dopo la fatica compiuta nel fare quei vecchi e polverosi diciassette gradini.
Sherlock lo riconobbe nel momento stesso in cui alzò gli occhi. Dietro al chiarore della cataratta, dietro le lenti degli occhiali, c’erano ancora quelle profonde iridi blu che aveva imparato a conoscere e, con il tempo, ad amare.
Eccolo, il suo John. L’immagine a lungo attesa di chi pensava non avrebbe rivisto mai più.
Fu in piedi in un lampo, Sherlock, scrollandosi di dosso il tempo e l’inedia. Occhi fissi su quelli di John sperando che potessero ricambiare lo sguardo, inutilmente.
John non poteva vederlo ma non contava, non gli interessava: finché Sherlock sarebbe stato in grado di guardarlo, di sentirlo respirare, di avvertire la sua presenza nella sua stessa stanza, si sarebbe accontentato di non essere visto. Si sarebbe accontentato di essere testimone unico del loro incontro.
Quanti anni, quanti... lustri, quante decadi? Quanto tempo da quella notte, da quella litigata, da quello schiaffo? Da quei tre anni che ora erano l’unico tempo che riusciva a quantificare? Quanti interminabili giorni da quel senso di colpa, dalla speranza di una telefonata, dalla... morte?
Sembrava avere almeno novant’anni, John. Sembrava tenersi in piedi a stento, tenersi in vita a stento. Aveva l’aria di uno di quei libri antichi e logori che devono essere maneggiati dentro teche speciali indossando guanti di cotone.
Avrebbe voluto chiamarlo, dire il suo nome. Riempirsi la bocca di quelle quattro lettere che non aveva mai più pronunciato. Non lo avrebbe sentito, molto probabilmente, ma non importava, davvero non importava se poteva chiamarlo e sperare per un momento, un solo istante dopo tutto quel tempo, che si voltasse al suo richiamo.
Fu sul punto di farlo, ma si fermò.
« ‘ttaku, hai visto questo posto? Sugoi da! » esclamò il ragazzino, mescolando inglese e giapponese.
« Cade a pezzi... » borbottò invece la donna, tenendo John sottobraccio ma guardandosi intorno con una smorfia: « papà, ne sei sicuro? Ci vorranno anni per ristrutturarlo ».
John annuì piano con il capo. « Dovevo farlo prima. Invece sarà una delle cose che rimpiangerò prima di morire » disse.
« Non parlare così, nonno » gli rispose il ragazzino.
John gli sorrise. Poi si rivolse alla donna: « Sheridan, perché non scendi di sotto ad aspettare i responsabili dall’Ufficio Beni Culturali? Dovrebbero essere qui a momenti ».
La donna inarcò un sopracciglio, osservando il padre come se stesse prendendo in considerazione la proposta. Annuì poi, gettando un’occhiata al figlio poco distante: « Hamish, vieni anche tu » disse.
« Ok » rispose il ragazzino, seguendo la madre fuori dall’appartamento e giù per le scale.
Una volta solo – soli – John sospirò. Si avvicinò a passo malfermo alla sua poltrona, prese il lenzuolo e, senza avere la forza di sollevarlo, lo tirò finché non scivolò completamente in terra.
Anche la sua poltrona non era più la stessa. Il colore rosso aveva abbandonato la stoffa in favore di un malsano marroncino e il cuscino aveva ancora solo alcune delle strisce bianche che una volta delineavano la Union Flag. Con una smorfia e uno sforzo consistente, ignorando il degrado della poltrona e dell’ambiente circostante, John si sedette.
E fu come tornare indietro nel tempo.
Per un istante Sherlock fu in grado di rivedere i capelli biondicci, le sopracciglia inarcate, le labbra piegate in un sorriso, gli occhi chiusi ad ascoltare il violino e le mani chiuse attorno ad una tazza di tè caldo.
Fu solo un istante ma, per la prima volta, fu come essere davvero a casa.
Fece ancora per pronunciare il nome di John, ma fu lui stesso ad impedirglielo.
« Sherlock? ».
Sherlock si irrigidì. Poteva vederlo? Eppure non lo stava guardando direttamente e non aveva dato segno di averlo notato dal momento in cui era entrato nella stanza.
Ma le parole successive chiarirono l’impossibilità di quella speranza.
« Mi sento stupido a parlare con te, ma la gente dice che sei ancora qui. Che ti sentono, di notte, suonare il violino. Non so se crederci o no, in realtà, però... se c’è una sola possibilità, io... Dio, che stupidaggine. Come quando guardavo quei programmi sui cacciatori di fantasmi alla TV e tu non facevi altro che sbuffare e fare facce sconcertate » disse.
Sherlock, ancora in piedi accanto alla finestra, fece un passo e si avvicinò. Stava parlando con lui ma, al contempo, era come se parlasse con se stesso. Sentimentalismi. John ne era il re.
Si mise in piedi davanti alla poltrona in silenzio, a qualche passo dall’ex medico militare, semplicemente ascoltando.
« Sono vecchio, Sherlock. Ho vissuto una vita piena, con alti e bassi e... sì, nonostante tutto, incredibilmente noiosa » rise.
Sherlock sorrise al suono della sua risata.
« Per tutti questi anni non ho mai voluto tornare qui. Ho lasciato che questo posto marcisse insieme all’ultima immagine che ho di te... » fece una pausa. « Ti ho trovato io, lo sai? Ero venuto per... beh, per litigare ancora. Per capire, per farti ammettere di avere sbagliato a lasciarmi solo per tre anni. Se avessi saputo che avrei passato i successivi cinquanta a rimpiangerti, ti avrei perdonato prima ».
La mano di Sherlock si mosse al suo fianco, un riflesso condizionato.
Silenzioso, continuò ad ascoltare.
« È passato tanto tempo, ma è un’immagine che non si cancella. Il sangue, il vetro rotto... » alzò lo sguardo verso la finestra, dritto attraverso lui: « ...un incubo ricorrente che ancora mi tormenta. Anni fa mi stringevo la bocca con le mani per non svegliare Mary, adesso non ho nemmeno più la voce per gridare » raccontò.
Voleva toccarlo. Provare a sfiorarlo. Appoggiargli la mano sulla guancia e dirgli “va tutto bene, sono ancora qui”.
Chissà se avrebbe sentito quella carezza. Chissà cos’avrebbe percepito, invece.
« Ho scritto tanto, però. Era l’unico modo che avevo di permettere al tuo ricordo di invadermi, l’unico che riuscivo a sopportare. Probabilmente rideresti del successo che hanno avuto i libri basati sui nostri casi. Tutto il mondo ti conosce, ora. Sei il detective più famoso della storia » disse, ridacchiando di nuovo.
Ma era una risata triste, e Sherlock non la riflesse.
John sospirò. Un lungo sospiro tremulo. « Ci faranno un museo » continuò poi, alzando le braccia ed indicando la stanza: « hanno intenzione di raccogliere e restaurare tutte le nostre vecchie cose, anche il tuo violino, se è ancora qui. Ho già donato alla fondazione che si occuperà della ristrutturazione i manoscritti dei miei libri e i miei diari e abbiamo trovato qualcosa, fotografie e certificati più che altro, fra le cose di Mycroft. Sarà bello, immagino. Io non lo vedrò » ammise.
« Sto morendo, Sherlock » continuò poi: « credo che, ad un certo punto, una persona semplicemente se ne accorga. Sto morendo e l’unico posto in cui... l’unico ricordo che... era qui, dovevo tornare qui, Sherlock... » deglutì, gli occhi lucidi.
Sherlock alzò il braccio, la mano tesa verso John. Fece per toccarlo, pensò di farlo. Pensò di fargli sentire la sua presenza, farsi sentire che non era solo, ma... non poteva. Non poteva. Se fosse stato possibile avrebbe preso fra le mani il suo viso e lo avrebbe guardato negli occhi, semplicemente, senza dire niente. Ma in quelle condizioni, in quel momento, non poteva farlo.
Non voleva.
L’unica cosa che John avrebbe sentito sarebbe stata un brivido freddo lungo la schiena, una sensazione sgradevole di tristezza e solitudine. Perché era di quello che Sherlock era ricettacolo, ora: mestizia e attesa.
John si portò una mano alla bocca, poi agli occhi poco prima che lasciassero andare una lacrima fuggiasca. Trattenne il fiato per alcuni istanti poi respirò profondamente.
« Una parte di me è morta con te » sussurrò.
Sherlock chiuse gli occhi, abbassando il braccio.
Lo so,pensò, ma una parte di me è vissuta in te.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ci vollero altri cinque anni, alla fine.
L’appartamento tornò pian piano al suo vecchio splendore. Rimpiazzarono la carta da parati con una identica, ricostruirono mobili e suppellettili, riverniciarono pareti e soffitti.
Trovarono il violino, e il teschio. La maggior parte dei libri era distrutta e fu sostituita da vecchie copie provenienti da tutta l’Inghilterra, e alcune anche dall’America e dalla Nuova Zelanda. Vecchie edizioni di libri che nessuno sfogliava più, ritrovate ancora intatte in soffitte polverose, in vecchie biblioteche o fra le file di libri antichi di chissà quale collezionista svedese.
Gli oggetti più importanti erano esposti dentro a delle teche, un cordone di velluto vietava l’accesso oltre gli spazi pensati per poter permettere alla gente di entrare e muoversi. Vecchie fotografie ormai scolorite o ingrigite dal tempo facevano mostra di sé lungo i corridoi, raccontando senza parole la vita fra quelle mura.
Sherlock, in piedi davanti alla finestra ora di nuovo integra, guardò il cielo.
Sorrise quando sentì i passi lungo le scale, poi oltre la porta d’ingresso, poi sulla soglia del soggiorno.
Lentamente, si voltò.
Capelli biondo cenere, occhi blu, postura dritta e sicura. Un sorrisetto piegava le labbra sottili e perfette di un uomo giovane e nel fiore degli anni.
« Sherlock » pronunciò la sua voce.
Il sorriso di Sherlock si allargò.
« John. Ti stavo aspettando ».
 
 
 
 
 
 

Fine.

   
 
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