E rieccoci infine con il capitolo finale di questa storia! Gosh,
mi sembra un’eternità da quando l’ho incominciata, in una notte tempestosa –
nel vero senso della parola – di febbraio. Ora mancano solo due altre mie
storie da finire, uh-uh …
Siccome il capitolo è piuttosto lunghetto, non vi tarmerò con
note introduttive; eventuali spiegazioni/giustificazioni/abbiate-pietà-di-me ci
saranno nell’epilogo, che arriverà prossimamente.
Spero che questa conclusione – molto sofferta – possa piacere
e che nessuno si offenda per certe considerazioni fatte nel corso della storia.
Ringrazio tutti i miei lettori e recensori, in particolare: April88; Lady_Loire, Mary Uchiha, Cucciola Blu e Sagitta72.
Grazie
anche a coloro che hanno messo questa storia tra le preferite, ricordate e
seguite!
Vi
auguro buona lettura!
H.
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Agosto 2012
“Quousque tandem abutere, frater, patientia
nostra?”
La
stretta, dapprima brutale e asfissiante per la sua determinazione nel
trattenerlo, si allentò nella disperata dolcezza di un abbraccio.
“Per
favore, fratello”, furono le uniche
parole dell’evanescente e deforme figura. “Basta così”, e un viso ritornato
sorprendentemente umano si nascose nell’incavo di una spalla fraterna e
tremante. “Basta così, Itachi. Hanno patito abbastanza, non infierire!” Eppure,
malgrado la linea dura e inflessibile della bocca del fantasma, quest’ultimo
non accennò a sciogliersi da quella confortevole prigione di braccia.
“Che
cosa vuoi da me, Sasuke?”
Rabbia,
frustrazione, angoscia nel veleno di
quella domanda.
“Lasciala andare. Lasciali andare. Lasciaci
andare. È abbastanza!”
“No”,
giunse senza alcuna esitazione la lapidaria sentenza, che però vacillò per
mitigarsi in un più conciliante: “Non sarà mai abbastanza! Mai! Devono essere
castigati! Tutti devono essere castigati!”
Litania
centenaria, convinzione suprema e alfa e omega di quell’esistenza innaturale.
“La
malvagità risiede nella nostra famiglia, è radicata in essa! Non permetterò che
compia altri danni!”
“Come
puoi saperlo? Non sei il custode delle loro vite! Vero, ti recammo in vita un
grave oltraggio, ma abbiamo anche pagato il fio col nostro sangue! Nella nostra
epoca! Non in quella altrui! Non col sangue altrui! Itachi … fratello … Neanche
tu puoi ignorarlo in eterno: non attraverso l’annientamento potrà la nostra
famiglia redimersi, bensì vivendo e sbagliando e pentendosi e facendo ammenda
dei loro errori!”, un timido sorriso complice arricciò le labbra violacee del
secondo fantasma. “Qualsiasi cammino li abbia riservato la vita, devono essere
loro stessi a percorrerlo. Anche se li conducesse alla perdizione … Tu lo sai …
tu lo sai … Questo non è da te … Non divenire il mostro che in vita ti ha
divorato … ”
Itachi
scosse ostinato il capo, irremovibile. “Il karma degli Uchiha verte alla
malvagità e neppure i discendenti di mia figlia ne sono stati esenti, tu
medesimo ne sei testimone!”
Vero,
tutto vero.
Non a
caso si era sempre vociferato come gli Uchiha venissero dall’inferno e come
all’inferno tutti sarebbero un giorno ritornati, nessuno escluso.
“Allora”,
replicò altrettanto cocciuto il minore, guardando fissamente il fratello dritto
negli occhi vermigli “elencami le nefandezze di Naruto, l’ultimo tuo discendente! Rivelamele e io tacerò
fino al Giudizio Universale!”, fu l’ultima disperata richiesta di Sasuke e il
silenzio da essa generato ridestò, seppur debolmente, la timida fiammella della
speranza.
Zoppicante
barlume che addolcì lo scarlatto di
quelle iridi incandescenti nella mite ossidiana da Sasuke tanto amata, la quale
ancora tremò, inumidendosi, tentennando, rosa dal dubbio e dalla fatica e
dall’esasperazione dell’anima intrappolata nel cieco labirinto del furore e della
sua creatura più crudele, il senso di colpa.
Si
trattò di un attimo, però, una minuscola crepa di spossatezza e confusione: una
volta rimesso il proprio destino eterno negli artigli del grande nemico, da
soli non è mai facile sottrarsi alle sue invisibili catene, non se la paura di
chiedere aiuto e perdono risulta maggiore alla prospettiva di venire per
l’eternità consumati dal fuoco nero dell’abisso.
“Che
importa ormai?”, ridacchiò cupamente rassegnato Itachi, sollevando di peso
l’incorporea figura di Sasuke e stritolandola fino ad assorbirla dentro di sé.
“La fine è vicina. Villa Nakano adora
la sua promessa sposa e non desidera per nulla al mondo lasciarla …”
E quando
il viso del fratello, scomparendo, non gli ricordò più il benefico balsamo del
perdono, ecco che Itachi si portò alla finestra, contemplando con freddo
compiacimento – a lui così estraneo, così lontano dalla sua vera natura – le piante del giardino della casa maledetta,
le quali, anch’esse animate da una volontà scellerata e feroce, avevano
tramutato la loro estiva bellezza in un lercio manto di putrido rancore,
ghermendo Hinata e trascinandola seco dalla loro “madre”, Villa Nakano, che la
attendeva piena di impaziente godimento, la porta tramutatasi in fauci ingorde
e le numerose finestre in occhi febbrili e insonni, novella Argo Panoptes [1].
Volevi essere la mia padrona, pareva schernirla l’imponente
edificio e il fantasma con esso, e invece
sarai tu in mio potere!
Come fu per le giovani spose che
ti precedettero.
Come fu per gli Uchiha.
Come fu per Itachi.
Come è ancora per lui. In fin dei
conti, non è mai stato libero dalla sua famiglia.
Da me.
Tanto è l’odio di voi uomini, da
trasformare il rifugio in una prigione. Da insozzarlo con le vostre faide, con
la vostra ipocrisia. Mi nutrite. Mi rendente forte, invincibile.
Non lamentatevi poi se ne dovrete
pagare le conseguenze.
Così
parlò arrogantemente trionfante il grande nemico per bocca di Itachi - dietro
di lui, dentro di lui - in quel momento
Hinata poté distinguerlo bene.
Era
sempre lui.
L’approfittatore
per eccellenza delle debolezze dell’uomini.
E dei
loro sbagli.
È
l’alma maledetta della suicida Sposa Mancata, costretta come punizione a vagare
sulla terra.
L’ultima
cosa che gli occhi di Naruto videro, riemergendo a stento a galla dopo il
tuffo, fu la gigantesca onda abbattersi contro
di lui, simile alle fauci di un mostro che azzannavano una preda moribonda.
Poi, fu
solo l’oscurità del mare color del vino.
Morire
annegati era una fine davvero atroce: i polmoni inadatti all’ambiente marino
reclamavano ruggendo aria, nonostante la consapevolezza che non avrebbero
ricevuto nient’altro che acqua. Insistevano, premevano dolorosamente per aprire
solo per un istante la bocca, onde respirare un poco e presto tutto il corpo
incominciò anch’esso a tendersi per lo spasimo, mentre il cuore batteva
all’impazzata, protestando la sua impellente necessità di ossigeno.
Non
v’era scampo all’imminente incontro con la morte: quattro minuti al massimo si
poteva restare senz’aria; d’altro canto, tuttavia, dischiudere la bocca
significava ingurgitare salata e mortifera acqua marina e il tutto mentre la vista si affievoliva,
fissando impotente l’agognata superficie del mare allontanarsi sempre di più,
sprofondando nell’incoscienza …
“Sono
morto?”, si domandò ad un tratto il biondo, quando si riprese dallo svenimento,
sorpreso di non sentirsi più addosso la pressione dell’acqua.
Una voce
profonda e divertita gli rispose: “No, per il momento. Ma se ci tieni tanto,
posso sempre rimediare a questo piccolo
inconveniente …” e un sardonico sogghignare fece eco alle sue parole.
Naruto
aprì gli occhi, guardandosi intorno spaventato e incuriosito allo stesso tempo:
il posto in cui si era risvegliato era il più insolito che avesse mai visto,
caratterizzato, infatti, da una spiaggia senza alcun tipo di vegetazione e che
si slungava all’infinito, stagliandosi dal cielo plumbeo in una perfetta linea
retta. Inoltre, davanti al giovane si ergeva imponente una porta di legno
dipinta di rosso scarlatto e dalla maniglia nero carbone; tuttavia, ciò che
colpì in particolar modo Naruto, fu che codesta entrata non era circondata da
alcun muro: attorno a lei, c’era il nulla, se ne stava in piedi così, isolata
da quel paesaggio uscito da un dipinto di Dalì.
Il biondo
rimase interdetto: a che cosa serviva una porta, se non c’era un edificio
chiuso dietro ad essa? A che pro tenerla, poi?
“Curiosa
quella soglia, eh?”, gli chiese l’uomo alle sue spalle e Naruto sobbalzò per la
sorpresa. “Tutti coloro che sono entrati non sono mai più tornati indietro a
raccontarlo, eppure, nonostante ciò, la gente muore lo stesso dalla voglia di passare per di qui! Ah, per la
cronaca: anche tuo padre e tua madre l’hanno già varcata”, gli comunicò con
tono rilassato, quasi fosse la cosa più normale del mondo.
“Papà e Mamma?”,
ripeté confuso Naruto, che non riusciva bene a capire a che cosa l’uomo si
stesse riferendo.
L’individuo
annuì, arruffandosi i capelli già di loro spettinati. “Uh - uh, sicuro! E le Parche
avrebbero deciso che tu dovresti raggiungerli fra …”e controllò pensieroso
l’orologio da taschino “fra due minuti e tredici secondi esatti. Tuttavia,
poiché sono un bastardo rompiscatole di natura, credo che sarà assai divertente
rovinare i piani delle tre megere, non trovi?” e sorrise complice, mettendo
bene in vista tutti e trentadue i denti lievemente appuntiti. “Insomma, chi
vuole morire al giorno d’oggi?”
“M-morire?”,
balbettò Naruto, capendo solo ora il significato della porta, mentre fissava come
ipnotizzato la maniglia nera stagliarsi dal rosso della porta. Ora si spiegava
l’insolita voglia di aprirla …
“Oh sì:
morire, perire, crepare, tirare le cuoia, decedere … scegli tu il verbo che più
ti aggrada, il significato è lo stesso, non cambia nulla”, puntualizzò
ineffabile l’uomo, scrutando attento il biondo.
“Quindi
… quindi chi oltrepassa quella porta è …
morto?”, volle accertarsi Naruto, gli occhi che gli si inumidivano dalla
frustrazione e impotenza: maledizione, non voleva morire! Aveva ancora mille
progetti da portare a termine prima di presentarsi davanti a San Pietro!
E
ciononostante, una piccola ma insistente parte di lui premeva per aprire quella
solenne porta e godere del più pacifico dei riposi.
“Esatto,
” fu la risposta incolore che ricevette.
“Senza
speranza?”, continuò il giovane.
“Alcuna.”
“Ed io?”
“Oh tu!
Non mi hai ascoltato prima? Dovresti subire lo stesso fato, ma …” e fissò Naruto
dritto negli occhi, inchiodandolo con uno sguardo birbante e il suo sorriso s’allargò compassionevole,
quando l’altro lo invitò disorientato a proseguire.
“ … ma
tu ed io potremmo giungere ad un accordo, come tra due gentiluomini, no?” e
l’uomo cinse Naruto per le spalle con un braccio. “Sai, ne ho vista tanta di
gente schiattare, anche fin troppa per la verità, però ti confesso che i decessi dei bambini …” e qui Naruto socchiuse
indispettito gli occhi “… non li ho mai digeriti più di tanto e quello tuo
prossimo non è da meno”, disse, inginocchiandosi per terra, e si mise a
spianare la sabbia quasi volesse pulire il suolo sottostante, il che avvenne
incredibilmente, poiché l’ocra venne sostituito da una superficie liscia e
trasparente, attraverso la quale era possibile osservare il fondale marino e
appoggiato ad esso un corpo che Naruto conosceva molto bene.
“Ti sei
visto, eh? Questo sei tu, o meglio, tu da vivo, per quel poco che ti rimane.
Così quello là avrebbe deciso!” e
pronunciò l’ultima frase con grande disprezzo, o almeno fu quel che parve al biondo, che boccheggiò sinceramente
preoccupato:
“Non mi
puoi aiutare in qualche modo, dattebayo?”
“Dovrei?
E che ci ricavo in cambio?”
“In
cambio?”, ripeté indignato Naruto, reprimendo una voglia matta di strangolare
quel gran furbastro. “Riceverai la mia
riconoscenza, che altro pretenderesti, dattebayo?”, berciò, rimanendo subito
dopo urtato dalla fragorosa risata di scherno che la sua frase provocò
nell’individuo.
“La tua riconoscenza? Carino, io sono morto. Che
me ne faccio della riconoscenza di un vivo e per di più di un vivo che neppure
mi conosce? No, no, non spreco i miei servigi per ricompense così … intangibili! Che c’è, ora non vuoi più
il mio aiuto?”, arcuò egli il sopracciglio, arricciando maligno l’angolo della
bocca dinanzi al palese sospettoso tentennamento di Naruto, il quale aveva
nuovamente stretto gli occhi in una linea sottile, cercando la fregatura in
quell’affare. “Non ti preme più vivere solo perché non mi atteggio da
bonaccione generoso?”, rise sarcastico l’uomo, davanti al conflitto interiore
che si consumava nell’animo del biondo: accettare o non accettare? Si poteva
fidare di un … fantasma? Specie dopo tutto quello aveva patito per mano dei
suoi simili? E soprattutto, che cosa poteva offrire in cambio ad uno che in
teoria non avrebbe mai più avuto bisogno di guadagni terreni?
“Vedi di
sbrigarti: il tempo per me è denaro, per te è ossigeno …”, lo incalzò impaziente
e sbadigliando l’uomo, imitando con la lingua il ticchettio delle lancette
dell’orologio, suono che rese Naruto ancora più nervoso, ma allo stesso tempo
rassicurato che una qualche speranza di salvezza gli era stata offerta e lo
sconosciuto ghignò soddisfatto nell’osservare tale nuovo sentimento
manifestarsi timidamente negli occhi azzurri del giovane: dinanzi al grande abisso,
ogni ancora di salvezza per salvarsi era buona, in barba alla morale.
“Che ti
dovrei dare in cambio? Non ho nulla da offrirti!”, allargò esasperato Naruto le
braccia.
“Oh no,
al contrario, hai molto da concedermi e più di quanto tu possa immaginare …
Facciamo così: io ti salvo la vita e tu mi prometti che esaudirai un mio
desiderio, di qualsiasi natura esso sia!”
“Anche
cattivo?”
“Certo! Soprattutto se è cattivo: dov’è sennò il
divertimento?”
“Eh
no!”, protestò Naruto: lo sapeva che non doveva fidarsi di quello strano
individuo! “Non ci sto a queste condizioni!”
“Non
credo che tu sia nella posizione più favorevole per dettarne, ma se ci tieni … un
minuto e quarantacinque secondi …” e lo sconosciuto si alzò, accingendosi ad
andarsene.
Fissando
ora l’uomo, ora il se stesso morente sul fondale marino, il biondo si torse le
mani, mordicchiandosi incerto le labbra.
“Non
voglio commettere nulla di malvagio …”, si lagnò con voce flebile, pigolando
quasi.
“Un
minuto e trentasei secondi …”, fu l’implacabile replica dell’uomo, sempre dando
le spalle al giovane.
“Se
almeno mi dicessi in modo più specifico che cosa dovrei fare …”
“ … Un
minuto e ventinove secondi …”
“Sei uno
stronzo!”, ruggì offeso Naruto, il volto rosso dalla frustrazione.
“Ne
prenderò atto. Intanto, fra un minuto e diciassette secondi tu sarai un bel
nulla!”, ribatté cinicamente lo sconosciuto, per niente toccato dall’ingiuria
del biondo.
“Ma …”
“Un
minuto e dieci secondi!”
“Non
potremmo …”
“Un
minuto e due secondi !”
“Magari
…”
“Cinquantanove
secondi!”
“Per
favore …”
“Quarantotto!
Testardi fino alla fine, eh? Che t’importa del male o del bene che compirai in
futuro, quando da morto non potrai far altro che marcire, me lo spieghi? Addio,
sempliciotto!”
Naruto ringhiò
sconfitto: per quanto lui per primo detestasse ammetterlo, quel sillogismo era invero
intaccabile.
“Aspetta!
Se accetto, mi aiuterai sul serio?”, fermò egli lo sconosciuto, afferrandolo
per un braccio e costringendolo a voltarsi.
Il
ghigno dell’uomo si allargò soddisfatto e tuttavia sinceramente rincuorato,
come se Naruto lo avesse sollevato da un enorme macigno . “Ci puoi scommettere.
Andata?” e gli porse la mano, che Naruto guardò dubbioso, prima di serrargliela
con forza e che, facendo perno su di una gamba, usò per scaraventarlo a terra,
sventolandogli sotto il naso leggermente grifagno il crocefisso che teneva
sotto la camicia.
“Pensavi
sul serio di fregarmi coi tuoi tranelli, eh?”, berciò battagliero il biondo,
piccato dall’espressione assolutamente scioccata dell’altro, che lo fissava
come una bestia rara dello zoo.
“Cosa?”,
aggrottò la fronte l’uomo, puntellandosi confuso sui gomiti e per nulla
impaurito dal simbolo religioso, anzi, solo leggermente perplesso.
“Inutile
che giochi al nesci, dattebayo! So chi sei! Sei il diavolo e speravi di corrompere la mia anima, approfittandone della
mia delicata situazione!”
“Oh,
cielo!”, roteò lo sconosciuto gli occhi, schiaffeggiando via annoiato la mano
di Naruto – quella che brandiva il crocefisso – e rialzandosi in piedi, nel
frattempo che si spolverava via la sabbia dai pantaloni. “Mi domando da quale
ramo dei tuoi antenati tu abbia ereditato la tua cretineria! Spero non da me,
perché mi sentirei abbondantemente umiliato …”
Puntandogli
offeso il dito contro, Naruto berciò: “Non sono cretino, dattebayo! Sono un
povero disgraziato che è stato buttato in mare dai fantasmi! E che ha vissuto
in una casa maledetta per un anno! E che l’ex-inquilino di detta casa ha
tentato più volte di farmi la festa! E che sta per morire affogato! E la cui
fidanzata sta per ritrovarsi un dito in meno! E che … e che … Dattebayo! Non
sono un cretino! E tu comunque sei e resti il diavolo!”
Incrociando
le braccia, l’uomo si sentì in dovere di dissentire a riguardo. “Non sono il
diavolo, signor disgraziato. Sono –
ero – un mercante il che, da un certo punto di vista, potrebbe anche
corrispondere al vero …”
Siccome
Naruto, in fin dei conti, non era poi così denso come la gente si divertiva a
descriverlo, quella piccola informazione lo chetò immediatamente, slogandogli
la mascella dall’incredulità.
“Kisame?”
Il
sopracitato batté spassionatamente le mani. “Bravo. Vuoi un bonbon?”
“No, del
ramen”, replicò a tono Naruto, pur tuttavia seguitando a sbattere incredulo le
palpebre: accidenti, già dal racconto di Uchiha Sasuke, il biondo aveva intuito
che l’amante del fratello di questi non gli arrivava in fatto di bellezza
neppure alle caviglie, ma ora che lo vedeva dal “vivo”, sinceramente il giovane
si chiese come fece Itachi a perdere la testa per un uomo sì poco piacevole
all’occhio.
Bah, de
gustibus.
“E così,
tu saresti l’amante della Sposa Mancata?”
Forse,
fu il pronto e appassionato scatto in sua difesa ad aver dolcemente irretito
Itachi. “Non chiamarlo così, è offensivo e immeritato”, ringhiò Kisame, nascondendo
il pugno stretto in tasca per non sfogarne la sua aggressività sul naso di
Naruto. “E comunque, putèlo, smettila
di fissarmi neanche fossi una foca ammaestrata, è maleducazione!”, aggiunse
poi, risiedendosi poco distante dalla
porta e fissando un punto indefinito davanti a sé. Il biondo lo imitò subito
dopo.
“Perdonami,
ma la Ballata …”
“Tutte
baggianate!”, replicò seccamente l’uomo, scrollando le spalle. “Tali fiabe da
balia non sono altro che un mucchio di cavolate, atte a mettere a nanna i bambini!”
“Su
questo punto, si potrebbe molto
discutere”, obiettò Naruto. “Capisco che nei confronti di Itachi tu sia
estremamente partigiano, ma neppure tu puoi negare né giustificare il suo
operato!”
“Cosa ne
sai tu?”
“Più di
quanto tu possa immaginare!”
Kisame
rise senza divertimento. “Pah! Come fai a dire di conoscere Itachi, se non lo
hai mai conosciuto di persona?” e il suo
sguardo s’addolcì per un attimo al pensiero, per poi rindurirsi. “Certo, avrai
letto il diario del mio “cognato”, ma anche quello è di parte. Nessuno a questo
mondo è oggettivo, si finisce sempre per giustificarsi sia direttamente che
indirettamente.”
“Dunque”,
gli chiese il biondo “come spieghi la tua
comparsa nella Notte di San Giovanni, nel 1858? Non ti sei reso conto di aver
peggiorato la situazione? Se non avessi costretto Itachi a seguirti fino a
Kiri, forse …”
Una
brutale stretta alla gola lo interruppe bruscamente.
“Mi
biasimi forse?! Non avresti fatto lo stesso?!”, incontrò Naruto lo sguardo
furibondo di Kisame, i cui occhi dorati rifulsero di rabbia e sdegno tanto da
competere con la lava incandescente e la sua voce, dapprima profonda eppure
rassicurante, assunse la medesima inquietante connotazione del mare in
tempesta. “Non saresti forse intervenuto, se avessi saputo che ti stavano uccidendo l’amante e la figlia?!”, ruggì
e il biondo si ritrovò ad abbassare vergognoso gli occhi: sì, se i ruoli
fossero stati invertiti, se lui fosse morto e avesse saputo che la sua Hinata,
incinta della loro creatura, rischiava la morte per i maltrattamenti subìti,
certamente Naruto sarebbe intervenuto anche a costo di sbucare dalla terra come
una margherita e in piena fase di decomposizione.
Notando
quell’attimo di colpa e imbarazzo, Kisame si calmò, liberandolo dalla presa e
stringendo le mani tra di loro. “Perdonami,
non era mia intenzione colpirti”, dichiarò più controllato. “Ammetto, però, di
aver lo stesso sbagliato: i morti non si devono curare degli affari dei vivi, è
vietato! E coloro che infrangono questo tabù, per quanto le loro intenzioni
siano buone e sincere, otterranno come unico risultato il complicare le vite
dei loro cari di male in peggio. Fui uno stolto a pensare di poter soccorrere
il mio amato. In questo modo, ho esacerbato il folle dolore che s’era annidato
in lui, dandogli una ghiotta scusante per prosperare e prendere il controllo sulla
sua mente. Se Itachi s’è consegnato nelle sue
grinfie, la colpa è imputabile anche al sottoscritto.”
Naruto
deglutì penosamente, reso muto dall’improvviso groppo in gola. Si limitò,
quindi, a trasmettere la sua comprensione a Kisame appoggiandogli una mano
sulla spalla. Al diavolo l’aspetto fisico! Il biondo sapeva che non fu la –
poca – avvenenza dell’uomo, né lo status sociale, né tantomeno l’attrazione
fisica ad aver avvicinato i due amanti.
Era
stata la disarmante schiettezza del suo amore forte e battagliero e sicuro,
quello sfacciato sacripante che andava a testa alta incontro al suo diletto,
comunicandogli con un semplice sguardo: Olà,
io sono qui! Puoi fidarti di me! Se cadi, sarò lì a prenderti! Io ti
appartengo, altero stupidotto, come tu appartieni a me, anche se sei così poco
furbo da non averlo capito!
Naruto
conosceva bene quel genere di amore: del resto, gli era capitata la medesima
sensazione quando si era innamorato di Hinata, per quanto la parte dell’ignaro
tonto l’avesse fatta lui.
“Non c’è
modo, dunque, per salvarlo?”, inquisì infine il biondo, sentendosi così
impotente dinanzi alle insidie di quella mente perfida e piena di malizia.
“C’è, ma
ho bisogno del tuo aiuto.”
“E dopo?
Che ne sarà di lui? Insomma, è un suicida … Lui stesso ha ucciso! Non …”
“Naruto,
per quanto vi sforziate, voi viventi non riuscirete mai a comprendere quanto la
misericordia di Dio sia più grande di qualsiasi peccato si possa commettere. E
non è buonismo, ciò che intendo. Lui vede al di là di ogni cosa.”
“Allora,
perché non …?”
“Perché
ci vuole liberi nelle nostre scelte, tanto è il Suo amore, non come l’altro che basa i suoi sacrileghi
traffici sull’infida legge del do ut des.
Molte volte ha steso la mano per aiutare il mio amato, anche quando
quest’ultimo si rifiutava di prenderla. Sì, Naruto, non lo ha mai abbandonato,
è stato il contrario. Itachi quella
notte voleva morire. L’ho sentito.
Non voleva essere salvato, sebbene sotto la coltre di orgogliosa follia egli
stia ancora urlando al soccorso.
Ho
pianto di rabbia e impotenza mentre assistevo alla sua caduta, guardandolo
trasformarsi lentamente nel mostro che non era mai stato, che non è.
E ho
digrignato i denti alla vista di quello
che lo accecava con false promesse di giustizia, portandolo a levare la mano
sui suoi stessi discendenti, i figli della nostra creatura per la quale in vita
aveva molto sacrificato pur di proteggerla.
Non ho
potuto fare niente, questo mi addolora immensamente. Il suo odio e la sua
tristezza respingono ogni tentativo di conciliazione e perdono, arrivando a
renderlo inaccessibile a chiunque, perfino a me. Tu, invece, apparentemente sei
immune alle subdole macchinazioni dell’altro.”
Naruto
emise un ibrido da uno sbuffo scettico e una risatina rassegnata. “E perché
mai? Sono ben lungi dal giocare al buon samaritano o all’eletto! Da quando le
nostre strade si sono scontrare, provo per il tuo amante pena e al contempo
rancore, l’ho giudicato senza pormi tanti problemi e talvolta vorrei …!”, ma
per rispetto al suo interlocutore, il biondo s’interruppe in tempo, evitando di
estraniargli pittoreschi progetti di vendetta.
“La mia morale m’impone di perdonarlo, eppure non ci riesco. Ha fatto
del male ad Hinata, ha rubato la mia vita, ha ucciso dei miei lontani parenti e
… e …! Perché dovrei fare la differenza rispetto agli altri, dattebayo?!”
“Anche
tu ti eri perduto e disperavi in un aiuto negatoti, sguazzando nel frattempo
nell’afflizione e nell’aggressività verso Dio e il mondo intero.”
Intuendo
immediatamente a quale episodio della sua vita Kisame stesse facendo
riferimento, il biondo arrossì fino al violaceo, protestando vivacemente: “Che!
Come fai a saperlo, dattebayo? Mi hai spiato, razza di pervertito?”
“Varé là,
vuoi che ti meni? Sono morto, ma posso ancora offendermi, sior mamara!”,
ribatté scocciato l’uomo, elargendogli comunque un bello scappellotto. “No, non
ti ho spiato. Ho solo tentato di
impedire a tuo padre di riverniciare quella porta col suo cervello, visto che,
a furia di dar prova della tua caparbia idiozia, lo hai costretto a sbatterci
continuamente la testa!”
“Papà ti
ha fatto compagnia?”
“Sì,
finché non hai accantonato il tuo stupido orgoglio e non hai afferrato la mano
tesati dalla tua dievòtchka!”
Naruto
ridacchiò, massaggiandosi il capo leggermente dolorante dalla scoppola.
Effettivamente, aveva esorcizzato tutti i suoi demoni interiori e si era
riconciliato con Dio e gli uomini soltanto nel momento in cui Hinata era
entrata timidamente nella sua vita, accettandolo così com’era – cioè poca cosa,
o almeno così lui si considerava – senza chiedere nulla in cambio. Oh, non che
lei si fosse comportata sempre da santa crocerossina, anzi!, ma … ma lo aveva
soccorso, senza sperare di cambiarlo come persona, solo di aiutarlo a capire se
stesso e a riconoscere quanto futile fosse stata la sua ribellione spirituale e
morale. E comportamentale.
Un
balsamo che tutti avrebbero il diritto di avere.
“Capisco”,
sospirò Naruto, rimettendosi in piedi. “Mi sarebbe davvero piaciuto aiutarvi,
ma temo che ormai sia impossibile. Hanno vinto, Kisame!”
Reclinando
il capo, l’uomo inquisì: “Di che accidenti stai blaterando?”
Allargando
le braccia, Naruto gli rivelò rassegnato: “Ormai sono morto! I quattro minuti
sono passati! La vostra discendenza è finita. Hanno vinto!” e gli sarebbe
venuto pure da ridere, se la situazione non fosse stata talmente tragica. E
stranamente, sentiva un’anomala sensazione di benessere percorrergli le ossa,
l’ombra del rimpianto bandita da ogni suo pensiero come se tutto si fosse
compiuto nel migliore dei modi.
“A te
l’acqua salsa fa davvero un brutto effetto”, commentò incredulo Kisame,
alzandosi. “Ma va bene così. Del resto, al
mato e al paron, darghe sempre raxon!”, citò, dirigendosi verso la porta.
“Andiamo, allora?”
Andare?,
rifletté Naruto. E perché no? Ora che la guardava meglio, quella porta non gli
appariva più così tanto minacciosa …
“Dunque
… questo è un addio, Kisame?”, si voltò all’ultimo il biondo verso l’uomo,
bloccando a mezz’aria il gesto di girare la maniglia.
Scuotendo
rassegnato il capo, l’altro lo corresse paziente: “Un arrivederci, strambazzo!”
“Non
vieni?”
“Da
solo, no. Lo aspetto.”
Naruto
annuì. “Grazie di tutto, davvero. Sebbene avrei preferito di gran lunga trovare
mio padre al posto tuo … Non sei molto paterno, forse a Mayra è andata infondo
piuttosto bene.”
“Neppure
io mi sono tanto divertito a parlare con te, credimi. La tua stupidità è
urticante e di fatti ho deciso di apparire in sogno al Papa per persuaderlo ad
aprire il processo di beatificazione per tuo padre, che non ti ha soffocato nel
sonno!”
“Sei
proprio uno stronzo, Kisame!”
“Tratto
che tu non hai proprio ereditato”, sentenziò spassionatamente l’uomo,
sorridendo tuttavia. “E manco male.”
Silenzio.
“Quindi,
li rivedrò? Dietro questa porta, rivedrò Mamma e Papà?”
“Sicuro,
che li rincontrerai! Voi viventi siete estremamente effimeri, siete lo
sbadiglio dell’universo! Il tempo di chiudere la bocca e intasate i cancelli di
San Pietro!”
“Dall’immagine
che avevo di loro, mi sa che questa assomiglia più ad una porta di servizio!”,
scherzò Naruto, aspettandosi l’ennesima sagace risposta come: Credi che l’aldilà sia la reggia di
Versailles? oppure Per gli scemi è
troppo difficile riconoscere un cancello da una porta o Crepa e non tarmarmi oltre!
Non
considerò, invece, l’attimo di pausa dietro in cui Kisame indugiò, né quel suo
indicare la sabbia. “Prima di andartene, Naruto, non potresti accordarmi un
piccolo favore? Temo che mi sia caduto qualcosa, me lo raccoglieresti, per
cortesia?”
Quando,
come e cosa aveva perduto fu l’istintiva triade di domande che riempì il
cervello già sconvolto di Naruto, il quale, per preservare la sua sanità
mentale in quel sovrannaturale vaudeville dove lui era lo sfortunato
protagonista, aveva da tempo rinunciato a contestare i fatti per accettarli e
adattarsi di conseguenza. Ciononostante, quella richiesta lo aveva lo stesso
lasciato perplesso. Ma chi era poi lui per negare un favore sì piccolo e
innocuo?
Di
conseguenza, abbandonata l’allettante porta per l’Aldilà, il biondo si spostò
su quello che assomigliava al bagnasciuga, là dove il mare latteo s’incontrava
con la rena ocra, chinandosi e frugando
con gli occhi e le mani alla ricerca dell’oggetto smarrito. “Non vedo niente!”,
esclamò leggermente contrariato e notevolmente spazientito: vero che i morti
non avevano mai fretta, ma quel limbo gli stava dando sinceramente i nervi!
“Piegati
di più.”
“Così?”
“Sì … Un
poco più avanti … perfetto …”
Sbuffando,
Naruto prese a rivoltare la sabbia, imitando alla perfezione un eccitato
cagnolino che seppellisce il suo osso preferito. Che Kisame, a furia di
sniffarsela, non si fosse nel corso dei secoli rincretinito? Non v’era nulla sulla
sabbia! Nulla!
O quasi
…
Ché
infatti i capelli sulla nuca del biondo si rizzarono in allarme, mentre lo
stomaco si contorceva a disagio, conscio della palpabile presenza di un brutto
presentimento. Molto brutto. E l’inquietante risatina di Kisame alle sue spalle
gli confermò ogni sospetto:
“Sai,
putèlo, che cos’è la Spinta di Diomede?”
Avesse
compiuto studi classici, forse Naruto l’avrebbe certamente saputo. Perché la
teoria salva dalla pratica, è risaputo. Come i classici descrivono i vizi ben
ancorati negli uomini, di qualsiasi epoca essi siano.
Tutto
questo il giovane commissario lo imparò a sue spese, maledicendo gli dèi per il
dolore incommensurabile al deretano, nel frattempo che sprofondava negli abissi
lattei di quel mare ultraterreno per ricongiungersi in un folle precipitare
alla sua metà corporea con l’ammonimento del suo antenato ancora ridondante
nelle sue orecchie: Adesso andiamo a
ripigliare il mio consorte! Fallisci e un trattamento simile ti aspetta per
l’eternità! Magra consolazione per uno che aveva appena fatto un
dietrofront last minute a qualche passo dalla soglia della casa dell’Ade.
Quando finalmente
il mondo cessò di ruzzolare e Naruto poté focalizzare il suo sguardo sul paesaggio
più stabile dell’Aldiqua, si rese conto di trovarsi aggrappato simil sirena – o
nel suo caso, tritone – ad uno scoglio, il suo corpo esausto e pieno di
escoriazioni e tagli martoriato dai salmastri schiaffi delle onde, mandando
così in cortocircuito i suoi sensori del dolore, eccitati allo spasimo dal
pizzicore di carne, sangue e sale e soprattutto dai brividi provocati dal vento
sverzante, il quale oltre che a schiaffargli i capelli arruffati sulle gote
graffiate, acuiva la sensibilità della sua pelle raffreddatasi a causa
dell’acqua.
Eppure,
a Naruto in quel momento venne da ridere, sogghignando di pura trionfante
liberazione: non si era mai sentito così vivo,
così in armonia col suo corpo e la natura! Certo, adesso era un patetico
ammasso di carne dolorante e ciononostante, egli gioiva di quelle fitte che
tradivano la sua appartenenza al mondo dei vivi. Respirava avido e
sghignazzante l’irruente raffica proveniente dal mare irrequieto, dando il
benvenuto al sentore elettrico della tempesta, al suo ruggito. Urlò la sua
contentezza e la stanca esitazione che aveva avuto dinanzi alla porta per
l’aldilà svanì completamente.
Guardandosi
febbrilmente attorno in cerca di indizi riguardanti la sua attuale ubicazione,
il biondo constatò di trovarsi sempre nell’isola dell’Abbazia, nella punta che
dava sul mare aperto e non sul golfo. Inoltre, lo scoglio sul quale penzolava
era l’ultimo di una serie di piccoli faraglioni che portavano su di una baia
altrettanto piccola e nascosta da una grotta naturale.
Doveva
raggiungerla.
Se solo
le gambe gli avessero obbedito!
Se solo
le sue mani dalle nocche sbucciate e le unghie spezzate si fossero degnate di
lasciare la loro presa dalla ruvida e viscida roccia!
Lo
sconforto si rimpossessò del suo cuore, i muscoli tesi dallo sforzo di
resistere all’andirivieni delle onde e all’alzarsi della marea. Naruto strinse
i denti, tentò di far leva, borbottando rancoroso nel frattempo: “Stupido d’un
antenato! Credevo che avessi bisogno del mio aiuto, non che avrei dovuto far io
l’intero lavoro sporco!”, imprecò vivacemente, muovendo frenetico gli arti
inferiori.
Un
inaspettato ceffone in pieno viso d’acqua salsa rispose al suo malessere.
“Ahia!
Brutto cesso bipede, quello faceva male!”, protestò indignato il giovane,
sputacchiando contrariato l’acqua entratagli a tradimento dal naso e dalla
bocca. Un secondo manrovescio acquatico lo rimise al suo posto. “Morte e
dannazione, basta! Ho compreso, dattebayo!”, berciò Naruto, azzardando a
scostarsi la frangia bagnata via dagli occhi e rendendosi conto solo in
quell’istante d’aver avuto il pugno sinistro sempre chiuso, come se stesse
serrando possessivamente un immenso tesoro.
Disperata,
invoca indietro il suo dito e il suo anello di fidanzamento: senza non può
entrare in chiesa e lì sposarsi con il suo amato.
“Sei
davvero un farabutto”, ghignò complice Naruto, richiudendo il pugno sul suo
bottino. “Ma per stavolta potrei anche fidarmi di te!”, disse, allentando la
presa sullo scoglio e permettendo che l’acqua lo sollevasse prima e che tramite
la corrente lo portasse a riva, là dove aveva una certa commissione da portare
a termine.
Una
volta per tutte.
Allora,
per ripicca, reciderà gli anulari e ruberà gli anelli delle altre spose, perché
se il suo spirito offeso non potrà trovare la pace nelle nozze agognate, allora
neanche loro l’avranno!
Malgrado
la fine barriera della stoffa, le spine
tormentavano la tenera pelle alabastrina di Hinata, spillandone languide e
pasciute gocce di sangue, che lentamente s’agglomeravano in dense pozze,
macchiandole la camicia da notte. Il ciottolato del vialetto e la ruvidezza
degli scalini di pietra, poi, le avevano raschiato la pelle della schiena,
graffiandola, mentre i lunghi capelli neri avevano raccolto ogni sorta di
sporcizia sul terreno, dalla semplice polvere a delle foglie cadute per via del
temporale. Quanto ai danni di quest’ultimo, Hinata si reputò fortunata per la
sua attuale condizione di bagnata fradicia, poiché quando la sua orrorifica
marcia terminò nel foyer di Villa Nakano, ella aveva spento ogni lacrima secreta
dalle sue ghiandole lacrimali ed era ricoperta da un fine velo di sudore
provocato sia per la corsa folle verso l’uscita da quel luogo maledetto sia per
la genuina paura, realizzando che adesso sul serio non sussistevano altre vie
di salvezza. L’unica consolazione era che, indifesa ai piedi di Itachi, avrebbe
affrontato con dignità il prossimo calvario grazie alla scusante della pioggia
battente.
“Bene,
bene”, schioccò deliziato la lingua il fantasma. “Guarda un po’ chi è ritornato
all’ovile!” e piegò la bocca per i suoi malevoli risolini, trapanando con essi
le orecchie di una sfinita Hinata, la quale nascose il capo tra i suoi capelli
scarmigliati, sperando di sottrarsi a quella vista terribile. “Che fai? Piangi?
Su, fammi vedere come piangi! Debole. Frignona. Inutile Hinata”, la schernì
quella voce roca e sibilante, conficcandosi perfida nel suo cervello e
facendola raggomitolare su se stessa.
Ma ecco,
che una al contrario vellutata e carezzevole nella sua dolcezza riaffiorava dai
suoi ricordi, mischiandosi e sopraffacendo la sua gemella aspra e velenosa: Non mi devi assolutamente domandare scusa,
mia cara, né tantomeno auto-flagellarti per colpe, che non ti concernono … Adesso smettila sul serio di piangere, Hinata,
altrimenti incomincio anch’io … Mi
prometti di non frignottare mai più per certe sciocchezze? … E che mi farai ora
un bel sorrisone?
Era
possibile che tale miele fosse scaturito dalle medesime labbra?
Quali di
queste parole corrispondeva al vero? Chi delle due affermava la vera natura del
loro creatore?
“Maledetto
…”, ansimò Hinata, levando infine lo sguardo e fronteggiando determinata
l’essere chino dinanzi a sé, il quale reclinò interrogativamente il capo,
sorpreso e alquanto inquieto dal modo in cui la mora lo fissava, come se
potesse vedere oltre le sue fattezze
ultraterrene. “Come hai potuto? Con che coraggio ti sei servito di lui,
approfittando della sua disperazione? Vigliacco! Assassino! Lo hai costretto a
vedere! Ad assistere! Che orrida vendetta gli hai proposto!”
La
creatura con le fattezze di Itachi rizzò la schiena, indietreggiando di qualche
passo e rivelando man mano il suo vero volto, ovvero la infida illusione di
bontà dietro lineamenti deturpati dalla malizia e dall’inganno e dalla cieca
alterigia di chi si credeva onnipotente, pascendosi dell’angoscia umana e
instillandola e spronandola ai più turpi istinti. A tale viste Hinata
rabbrividì, rimanendo tuttavia salda nella sua decisione di non abbassare mai
più lo sguardo.
“Itachi
è venuto da me di sua spontanea iniziativa. Si è suicidato. Col suo gesto ha
voltato le spalle a Colui-che-osai-sfidare
e mi ha consegnato la sua anima. Voleva vendetta, l’ha ottenuta. Voleva la
fine della famiglia Uchiha …” e sogghignò, mostrando una fila di appuntiti
denti macchiati di sangue e viscere umane, una bocca troppo animalesca per
essere quella d’un uomo.
“Lui
voleva solo farla pagare ai suoi aguzzini, non sterminare anche la sua
discendenza!”, gridò Hinata, trafficando segretamente dietro la schiena per
liberarsi dalle costringenti piante. “Sei solo un bugiardo truffatore!”
Lo
spirito demoniaco scrollò le spalle di Itachi. “Oh, poverina! Vai a piangere
dalla mamma …”, la sbeffeggiò, piantandole un piede sul petto e spingendola giù
sul duro pavimento. “Avanti, Hinata!”, la sfidò, estraendo il pugnale e
fissandola con occhi esagitati, folli, spalancati, pregni di sanguinolento
vermiglio. “Urla! Dimenati! Mostrami la tua paura! Sai, questo corpo è fatto di
odio e tristezza: il primo, l’hanno provato tutte le vittime-carnefici di
Itachi! Sì, come lo odiarono da vivo, lo odiarono ancor più da morto per il suo
operato! E la seconda, la provò lui stesso per le ingiustizie subite e soprattutto
per aver capito troppo tardi che da me non si scappa!”, gridò eccitato,
afferrando il polso di Hinata. “Odialo, ragazza, odialo con tutta te stessa!
Odia Itachi e tutto ciò che rappresenta! Più lo odierai, più renderai tangibile
questo corpo! Più lo odierai, prima giungerà la tua fine! Più lo odierai, più
la anima d’Itachi verrà consumata dalle fiamme nere dell’inferno … Il mio regno
… Nel quale, Hinata, presto sarai anche tu la benvenuta!”
Afferrando
l’arto dell’avversario e digrignando i denti per l’ustione che quel contatto le
provocava, Hinata replicò a tono alla sfida: “Io non odio lui, ma te! Tu, la
causa di tutto! Bestia annoiata, volevi divertiti per l’ennesima volta con le
vite degli altri, vero?”
La
stretta si fece brutale, incrinando pericolosamente le delicate ossa del polso.
“Sei tu che mi annoi, sgualdrina …”, ribatté gelido, offeso, eppure gustando
l’attimo in cui il patto sarebbe stato definitivamente onorato, conferendogli
il dominio su quelle tanto succulente anime sui cui aveva posato gli occhi
quasi due secoli fa. Oh, ne aveva molte altre da catturare sgranocchiare, ma
nessuna caccia s’era rivelata alla fine essere un gioco così spassoso … “Au
revoir, ma chère et stupide Hinata …”
E calò la lama.
Sul suo
petto.
“Tu …
traditore … ingannatore … per questo ti eri … ritirato così subitaneamente? Per
… per attendere un mio attimo di distrazione …?”, boccheggiò furioso l’essere
immondo, guardando stupito il pugnale conficcato nelle carni di Itachi, mentre
sempre più copiosi rivoli d’acqua salsa scendevano possenti, ultraterreno
sostituto del sangue.
“Hinata … amica cara …”, ansimò invece
quella voce, che la mora conosceva molto bene e un sorriso le illuminò il volto
stanco alla vista dell’occhio nero rifare capolino dallo scarlatto delle iridi
infernali.
“Itachi!”,
si liberò ella dalle costrizioni delle piante, correndo al suo fianco,
sennonché questi indietreggiò bruscamente, allontanandosi da lei.
“Vai via … scappa lontano … Non permettere
che ti prenda … Fui uno sciocco … Non merito il perdono di nessuno …”,
pianse l’occhi nero, mentre quello scarlatto s’illuminò di crudele gusto. “Ah!
Adesso ti penti per quel che hai fatto?
Troppo tardi, mio caro, troppo tardi! … Taci! Mi hai tormentato a sufficienza! … Tormentarti? È solo
l’inizio, stolto! Per il tuo tanto caritatevole – puah! – gesto, mi diletterò a
straziare la tua lurida pellaccia per l’eternità! … Fallo, me lo merito! … Ma non avrai lei! … Non l’avrai! … Scappa,
Hinata! … Vai da Naruto! … Lui ti aspetta … Lui ti ama … La tua anima per
il giusto castigo, questo ti promisi! Questo pattuimmo! Io ho rispettato il
patto! Io ho fatto la mia parte! Ora tocca a te! Insieme, come abbiamo fatto
per questi due secoli! Avanti! Amputale il dito così da condannare alla follia
e alla morte anche l’ultimo tuo discendente! E la tua vendetta sarà finalmente
compiuta! … No, basta! … Basta col sangue! … Basta con la vendetta! … Non voglio!
... Hinata … Ti prego! Ti supplico! … Vattene via, ora!!!”, ruggì di
dolore, ghermendosi le braccia e conficcandosi le unghie nelle carni, tutto pur
di impedire di avanzare verso l’atterrita e confusa giovane, la quale in verità
aveva invece allungato un braccio per soccorrerlo. Braccio che le fu
prontamente afferrato da una figura alle sue spalle.
“Non hai
sentito, stupida? Mettiti in piedi e inizia a correre, disgraziata!”
“Ma …
Itachi …”
“Lo
aiuteremo, stanne certa, incominciando
dall’abbandonare Villa Nakano!”, replicò spazientito Sasuke, trascinandola via
di peso dal foyer verso il portone d’ingresso, che si ricordò di spalancare
visto la condizione molto corporea di Hinata. “Non guardarti alle spalle, corri e basta!”
La
giovane Hyuuga annuì e si sforzò a non imitare la sua più incauta controparte
mitologica, Orfeo, per quanto la curiosità – dettata dal terrore - di sapere
che cosa mai potesse esserci alle loro spalle la divorasse. E la sua fu
un’ottima scelta, quella di dar retta a Sasuke, giacché, soppressa
completamente la coscienza di Itachi, lo sgradevole ospite del suo corpo lanciò
un ringhio gutturale che avrebbe fatto accapponare la criniera del più feroce
dei leoni.
“Prendeteli!”,
ruggì, battendo frustrato i pugni per terra. “Prendeteli e fateli a pezzi! Sviscerateli!
Squartateli! Strappate loro il cuore! In questo modo avrò il suo dito anche
senza doverglielo tagliare!”
Dalle
pareti, dal pavimento, dall’aree stesso si raggruppò la sua schiera infernale,
mettendosi subito alle calcagna dei fuggitivi come una nervosa muta di cani da
caccia.
D’oro,
d’argento, col diamante, lo smeraldo, lo zaffiro, il rubino, il topazio, l’acquamarina,
…
Che
importa?
Li
avrà tutti!
“E
adesso, bis? Da che parte dovrei
andare?”, riecheggiò la domanda di Naruto nella grotta, il naso all’aria e le
mani portate sui fianchi. Da quindici minuti buoni girava per l’angusto e buio ambiente,
avanzando circolarmente con l’acqua fino alle ginocchia.
Contro
ogni logica della corrente marina, le onde si focalizzarono su di un punto
oscuro della caverna, sbattendoci contro il biondo, il quale rischiò più volte
il tuffo a causa della perdita d’equilibrio. Una in particolare lo gettò su di
un masso e fu aggrappandosi ad esso per non finire sottacqua, che le dita
scorticate di Naruto percepirono la famigliare regolarità di un grandino.
“Scale?”,
cogitò il giovane commissario ad alta voce, avanzando per un tratto a gattoni. “E
dove portano?”
Alle catacombe dell’Abbazia, rispose tra uno sciabordio e
l’altro l’eco della voce di Kisame. Prima
di divenire un luogo di culto, l’isola
fungeva da rifugio contro eventuali invasioni dalla terraferma. Taluni
ipotizzano che il primo nucleo cittadino di Kiri si sia formato qui. Chissà. In
ogni caso, dalle antiche catacombe era stato costruita una via di fuga che, in
caso di conquista dell’isola dal golfo, permetteva alla popolazione di
sgattaiolare via per il mare: in questa
grotta, infatti, solevano essere attraccate le navi della salvezza.
“Ingegnoso”,
sputacchiò Naruto l’acqua occasionalmente ingoiata, seguitando la sua
difficoltosa salita: il tempo e le maree avevano tappezzato gli scalini
naturali di alghe, patelle, qualche sporadica colonia di cozze legate dalle
loro barbe e, mettendo una mano nell’angolino sbagliato, il biondo s’accorse da
un offeso pizzicotto che pure i granchi vi avevano reclamano domicilio. “E
dimmi”, riprese ansimando dallo sforzo, i muscoli delle braccia che gli
tremavano. “Come mai questo stato d’abbandono? Dai diari del tuo cognato, mi
immaginavo l’Abbazia come un’ottava meraviglia del mondo, non un ammasso di
rovine!”
All’inizio del Novecento ci fu un
terribile maremoto, che distrusse la chiesa e il monastero con essa. Si salvò
soltanto l’abside col mosaico raffigurante il Cristo Pantocratore, come hai
potuto tu stesso appurare.
“E tu
non ne sai niente a riguardo?”, inquisì Naruto, che apparentemente s’era
abituato a parlare coi morti o col mare o con entrambi con la medesima
naturalezza di coloro che s’accorgono di trovarsi nel bel mezzo di un sogno e
che quindi niente delle loro oniriche vicende potesse lontanamente corrispondere
alla meno possibilista realtà.
Non sono affari che ti
riguardano. Ora procedi dritto e, quando ti imbatterai nella botola, vedi di
aprila senza …
Stremato
dall’estenuante scalata, i nervi a mille e le labbra bluastre raschiate dalla
salsedine, Naruto, incontrando la debole opposizione del legno gonfio e marcio
della botola, si girò sul fianco e, tramite un violento calcio, la fece volare
di qualche metro abbondante.
… distruggerla.
“Troppo
tardi, sorry”, bofonchiò il biondo, ignorando certi inquietanti movimenti
all’interno del suo ventre dovuti all’acqua effettivamente gelida del mare.
Allungando il braccio e infilandolo alla cieca tra i resti di legno, vagò alla
ricerca di un appiglio abbastanza saldo da permettere di issarsi e sgattaiolare
dentro l’ambiente più buio e putente dentro cui il giovane uomo avesse mai
messo piede. A mo’ d’accoglienza, infatti, gli venne incontro una zaffata
fetente di muffa, di umido, di alghe in decomposizione e di escrementi e di
urina alla cui specie di appartenenza Naruto non osò neppure immaginare,
reprimendo invece un sempre più insistente conato di vomito. Ingollando saliva,
frugò nella borsa a tracolla rimastagli miracolosamente addosso e pregò che la
torcia non fosse andata a remengo. Per una volta la dea bendata parve volersi
alleare con lui, persuadendo la torcia dopo una serie di ceffoni alla pila ad
assecondarlo e ad illuminare quel labirinto di morte e di puzzo col suo flebile
seguipersone in miniatura. “Un posticino
molto pittoresco”, scherzò il giovane commissario con una vocina flebile
flebile, atta più che altro ad infondersi coraggio e a cessare l’insistente
tremito alle gambe e i rivoltamenti dello stomaco. Pensò ad Hinata, ai suoi
capelli neri, al suo collo sottile, alle sfumature viola dei suoi occhi
illuminate di ridente gioia il giorno in cui le aveva chiesto di sposarlo,
sovrapponendole con veemente tenacia alla sconfortante vista delle innumerevoli
bare ammucchiate in pericolanti pile come delle valigie vecchie dimenticate in
un’assai disordinata cambusa o soffitta. Distolse lo sguardo là dove gli
scossoni e l’equilibrio precario aveva fatto ruzzolare alcune di queste lerce
casse, riversandone scompostamente i loro macabri contenuti sul pavimento unto.
“E
adesso? Da dove incomincio, dattebayo?”, esclamò sfibrato Naruto, l’eco della
sua perplessità che si burlava di lui maligno, ricordandogli la sua impotenza
dinanzi a simile fatica d’ercole. “Ci saranno almeno centinaio di casse, senza
contare le urne nei colombari! Sarebbe come cercare un ago in un pagliaio!”
Certo, convenne la voce di Kisame da
basso, ma noi cerchiamo un ago prezioso,
che perfino nel mucchio sarebbe troppo impudente lasciarlo incustodito nella
massa.
“E
grazie tante, savia sibilla! Parla schietto che … non … ti … capis-…”, rallentò
il biondo la sua protesta, scorrendo i suoi polpastrelli macerati dall’acqua sui
ruvidi stipiti delle piccole celle, nel frattanto che la sua mente rielaborava
le istruzioni offertegli.
Dopodiché,
sorridendo peggio del Cheshire Cat, elargì un possente calcione alla prima
inferriata, la quale cadde all’indietro in un sordo tonfo, schiacciando le bare
più vicine e sollevando un gran polverone. “Fuori una!”, gridò battagliero
Naruto, passando velocemente alla sua vicina e ben presto il vecchio cimitero
sotterraneo si rianimò in una rumorosa sequela di ferrose percussioni, finché
il giovane raggiunse l’ultima rimasta, massaggiandosi le gambe indolenzite e
battendo per terra i piedi doloranti da quei violenti impatti. Prendendo una
piccola rincorsa, Naruto colpì la grata, lanciando un colorito improperio
quando essa resistette al suo assalto, restituendogli la forza del colpo che
risalì dolorosamente dal piede fino al suo cervello, facendolo trillare come i
campanelli suonati nei match della box.
“Brutta
vacca d’un’inferriata, dattebayo!”, grugnì a denti stretti l’uomo, zoppicando
leggermente verso le bare sfracellate e, selezionando i pezzi più grossi e
robusti, li sistemò sulla sua ostinata opponente. Aveva studiato, che quelle
antiche tendevano ad essere costruite con una struttura a cerniera, quindi
… “E adesso vediamo, se fai ancora la
stronza! … Tre … Due … Uno … ‘Fanculo agli Uchiha, che il diavolo se li porti
viaaaahhh!!”, urlò dallo sforzo e dalla sorpresa di essere trascinato dalla
grata che, cedendo ai suoi metodi da evaso, lo scaraventò in mezzo a delle bare
semi-ammuffite e ricoperte da fitte ragnatele, le quali Naruto scoprì essere
tutte ricolme di sassi, tranne una, celata vergognosa nell’angolino più buio
dell’umida cella.
“Finalmente
… ti ho trovato …”, si permise egli il piccolo lusso di un sorriso liberatore,
per poi ritornare assurdamente serio e rimettersi al lavoro. Spaccò senza tante
cortesie le chiusure arrugginite che tenevano fissato il coperchio, infilando
l’ennesimo pezzo di legno tra la piccola fessura concessagli dai chiodi ormai
neri, che non tardarono a volar via alla minima leva. Infine, asciugandosi con
la manica la fronde madida di acqua salsa e di sudore, Naruto afferrò con
ambedue le mani il coperchio per rimuoverlo definitivamente, il cuore che gli
stava per uscire dalla gola. Trattenne il fiato e lo rilasciò in
un’esclamazione sorpresa non appena vide ciò che si celava dietro quel pezzo di
legno scuro e dilatato dall’umidità.
Nulla
aveva scalfito il corpo di Itachi, né i vermi né il tempo né l’odio e la
tristezza che gli avevano conferito quel suo aspetto inorganicamente splendido
e soggiogante. Come una modesta Bella Addormentata nel Bosco, appariva al
contrario estremamente spossato, fragile e indifeso nella sua immacolata tunica
bianca, con le sue mani cingenti timidamente il rosario, con i suoi capelli bianchi seminascosti dal
velo-sudario e con le sue occhiaie bluastre sullo sfondo esangue della sua
pelle lattea, occhiaie di chi s’era cavato gli occhi a furia di piangere.
Era
dunque questa mater dolorosa la fonte
di tutte le sue disgrazie, cogitò disorientato Naruto, fissando incerto e
confuso quella salma sorprendentemente incorrotta. Era lui la persona su cui
avrebbe potuto sfogare il suo rancore? Oh, la tentazione era invero così forte
e molesta! Insistente!
Aveva la
Sposa – l’incubo di Konoha e di Kiri - alla sua mercé!
In suo
potere!
Avrebbe
potuto infierire su quel corpo in qualsiasi modo gli sarebbe più garbato, magari
squartandolo come un pollo, o tagliuzzandogli la lingua, o sfregiandogli i
lineamenti aristocratici, o conficcandogli dei paletti nel cuore e spilli negli
occhi, o spezzandogli le ossa, o strappandogli i capelli e i denti, o sputandoci
o addirittura pisciandoci sopra, o ficcandogli fango in ogni orifizio o … o … o
tutto, tutto pur di sfogare l’enorme
rabbia e paura e frustrazione provocatogli dal suo progenitore. Per colpa sua,
degli innocenti erano morti, lui stesso aveva quasi varcato la soglia
dell’Aldilà! Avrebbe pagato per i suoi crimini!
Eppure …
eppure …
Che ne
avrebbe guadagnato?
Si
sarebbe forse sentito meglio?
E
soprattutto, aveva lui diritto di giudicare?
Ma la
sete di vendetta! Quell’agrodolce, allettante, brama di schiacciare e godere
dell’angustia del suo antico tormentatore … Anzi no! Sfruttando Itachi, si
sarebbe vendicato di tutti e a tal pensiero la bocca di Naruto si piegò in un
sadico mostruoso ghigno alla vista di coloro che gli rovinarono l’infanzia strisciargli
ai piedi come vermi, raggomitolandosi peggio di ossuti cane rognosi bastonati e
supplicandolo di avere pietà di loro! Che vista! Che goduria! La vendetta! La
vendetta!
Gli
tremarono le mani dall’eccitazione.
“Sì, mio caro …”, gli insidiò le orecchie
una melliflua voce da tenore di grazia “Vendicati
di Itachi … Distruggi il mostro … Annientalo e ghermisci le sue facoltà e così
… così … la farai pagare a quei porci che ti fecero soffrire … che ti
umiliarono … io conosco il tuo cuore, Naruto … io ti comprendo … io so a cosa
tu aneli e te lo posso offrire … perché io sono generoso … si prostreranno
dinanzi a te … ti ameranno … non ti abbandoneranno mai né ti tradiranno … non
sarebbe meraviglioso? Ma prima … prima dovrai dividere il corpo di Itachi in
sei parti e bruciarli in cinque specifici punti dell’isola, pronunciando poi …”
e si fermò astutamente burlona.
Preso
dall’impazienza, il biondo la spronò bruscamente a continuare, inumidendosi le
labbra screpolate e piene di sale. “Cosa …? Cosa?!”
Ghermendolo
con le sue filiformi dita d’ombra e fumo, essa increspò vittoriosa le labbra,
sussurrandogli all’orecchio la formula per la sua rovina.
“Avanti … distruggilo, Naruto … Distruggi la
Sposa e vendicati!”, lo incitò la voce, mettendogli nelle mani un’ascia che
il giovane uomo neppure sapeva da dove fosse sbucata, ma poco gli importava
giacché, dopo averne saggiato il ligneo manico, la levò in alto contro la salma
di Itachi, gli occhi puntati verso il basso.
“Distruggilo!”
E il
sibilo del metallo fendette l’aria putrida e densa della cripta in un fischio
blasfemo …
Questo
matrimonio non s’ha da fare!
“Da qui
in poi proseguirai da sola”, le comunicò perentorio Sasuke, bloccandosi al
cancello di Villa Nakano e facendo cenno con la testa ad Hinata di varcarlo.
“Ho una piccola incombenza da portare a termine e, onestamente parlando, mi
saresti solo d’intralcio.”
Non
sapendo se considerarsi fortunata per la possibilità di salvarsi
definitivamente da quella follia ultraterrena o se offendersi per il poco
lusinghiero commento, la mora negò col capo, sottolineando la sua risoluzione
di non abbandonare quel luogo orrendo né il suo compagno di sventura. “Quello
ti catturerà e … potrebbe farti del male così da far soffrire ulteriormente tuo
fratello e … non ti posso disertare in questo modo senza aiutarti …”
“Non
darti grandi arie da eroina tragica, pupattola, la mia non era una richiesta”,
tagliò corto e alquanto snervato il fantasma dinanzi alla reazione dell’altra.
Già i suoi sensi percepivano gli altri spettri avvicinarsi sempre di più a
loro, non bisognava perdere un ulteriore secondo di quel tempo così prezioso
appunto perché esiguo. Né voleva rendere vano l’atto di ribellione di Itachi. “Piuttosto,
non senti che tuo cugino e tua sorella ti stanno cercando? Che razza di
screanzata sei, che li fai impensierire così?”
Di
riflesso Hinata si girò in direzione del vialetto che conduceva al centro storico
di Konoha, da dove effettivamente aveva intravisto appropinquarsi alla villa
delle luci meno spettrali, molto probabilmente i fari dell’automobile di Neji.
Quell’unico
appiglio alla terrena realtà destò Hinata dalla sua trance, riportandola a
riconsiderare la data e l’ora e le circostanze che avevano spinto Hanabi e Neji
a guidare fin lì: ovvio, quel giorno lei avrebbe dovuto sposarsi e la sera
prima aveva dormito a casa dei suoi, naturale che, non trovandola nel proprio
letto, i suoi parenti si fossero preoccupati, presagendo alas il peggio. Fu
tentata di andar loro incontro e, in effetti, avanzò inconsciamente di qualche
passo.
“Sasuke!
Come facevi a …?”, inquisì stupefatta la mora, sobbalzando all’indietro quando,
voltatasi distrattamente, si ritrovò le sbarre del cancello a qualche
centimetro dal suo naso. Approfittando di quell’attimo di distrazione, Sasuke
l’aveva spinta discretamente fuori da Villa Nakano, chiudendo a chiave il
cancello, sulle cui aste di ferro battuto incominciavano ad avvinghiarsi dei
letali serpenti d’edera, nascondendo gradualmente il corpo del fantasma alla
giovane.
“Sei
davvero un pazzo, un insolente, un cocciuto!”, protestò furiosamente sconvolta
Hinata, afferrando le sbarre e tentando di spezzare quei verdi rami. “Perché
hai usato mia sorella e mio cugino per ingannarmi?”
“Ah! E
che ti aspettavi da uno che sta marcendo all’inferno?”, la schernì sardonico
Sasuke, gettando il capo all’indietro e ridendosela alla grossa senza però con apparente
gusto. “Ho già perso una volta mio fratello, non lo lascerò affrontare
quest’ennesima prova da solo. Qualunque destino m’attenda, lo accetterò”, le
confidò, addolcendo lo sguardo.
Hinata
avvertì un famigliare pizzicore agli occhi, guardando impotente la coltre di
edere mangiarsi il viso del fantasma.
“Via
quelle lacrime, frignona! Mica sei al mio funerale!”, la consolò Sasuke,
allungando attraverso l’inferriata il braccio ed elargendole un paternalistico
buffetto sulla guancia. “E à propos di
funerale, riferisci al dobe che mi
deve una Messa di suffragio: salvargli costantemente le chiappe da colui che
s’è approfittato di mio fratello è stato uno sforzo notevole, sono stato
costretto a venir a patti perfino con mio cognato! Ergo, se si dimentica di me,
appena lo rivedo nell’Aldilà gli cambio i connotati a furia di pugni!”
“Ma …”
“Adieu,
Hinata. Stammi bene!”, la spinse via il moro, indietreggiando e permettendo
così che l’edera gli nascondesse la visuale, fungendo da impenetrabile barriera
che Hinata tentò ripetutamente di distruggere, sennonché più ella strappava più
essa ricresceva e molto più rigogliosa di prima.
“Sasuke!”,
urlò Hinata dall’altra parte. “Sasuke!”, strillò, abbassando sconfitta il capo
e serrando le labbra per non piangere. Si riebbe soltanto quando avvertì le
braccia della sorella che la cingevano, forzandola ad incrociare i rispettivi
sguardi.
“Sorella!”,
esclamò apprensiva Hanabi, che a momenti s’era gettata dalla macchina ancora in
corsa. “Che ci fai qui? Come mai non eri in camera tua? Ti abbiamo cercata
dappertutto! Cos’è successo? Questi graffi! Questi strappi! Rispondimi, Hinata!”
“Hanabi,
lasciala respirare, la stai soffocando!”, sciolse Neji la cugina maggiore
dall’abbraccio febbrile della minore. Poi, rivolgendosi alla parente: “Hinata,
che t’è saltato in testa di sparire così, senza avvertire nessuno? Ci hai fatto
prendere un colpo! La gente già vociferava di maledizioni e ballate e
spose-fantasma e … Che accidenti è accaduto al cancello?!”, gridò sconcertato,
fissando inebetito dallo stupore la monumentale entrata di Villa Nakano, che
ora ricordava più che altro la siepe di un labirinto.
“Niente!”,
dichiarò decisa Hinata, riprendendosi dal suo incantamento. “Assolutamente
niente di cui preoccuparsi! Ma andiamocene via! Ritorneremo forse più tardi!”
“Ma …”,
tentarono i due parenti di obiettare, tuttavia la mora li interruppe con fare
determinato, posando le mani sulle loro spalle.
“Un
giorno vi spiegherò tutto, per quanto sono certa che difficilmente mi
crederete. Non so. Ora come ora, però, fidatevi di me: andiamocene e non ci
accadrà nulla di male!”, disse, correndo lei per prima alla macchina e ben
presto seguita dagli interdetti congiunti.
“Spero
che tu sappia quel che stai facendo”, condivise Neji i suoi pensieri con la
cugina. “E soprattutto, che tu sappia spiegarci la scomparsa di Naruto dall’ospedale!”
Hinata
annuì stancamente, senza però degnarlo di una pronta risposta, gli occhi
puntati sulla minacciosa silhouette di Villa Nakano che si rimpiccioliva man
mano che procedevano verso la loro casa natale. Rigirando piena d’angoscia l’anello di
fidanzamento sul dito graziato dalla furia della Sposa, ella lo portò alle
labbra, mormorando tra sé e sé: “Ritorna presto, amore mio, ti prego, ritorna
presto …” e, nascondendo il viso tra le mani tremanti, biascicò un
singhiozzante Requiem aeternam per le
anime ingannate e prigioniere che ancora vagavano inquiete in quella dimora di
morte e di odio.
Irruppe
infine in un pianto liberatorio tra le braccia compassionevoli di Hanabi,
domandandole d’impeto perdono per tutte le malegrazie compiute durante
l’infanzia e ripromettendosi di essere una sorella migliore.
Confusa
e un poco imbarazzata da tale crollo di nervi, Hanabi si limitò ad assecondarla
convenendo, accarezzandole la testa sotto lo sguardo meditabondo di Neji.
Dalle
piccole fessure lasciate dalle pianti rampicanti, Uchiha Sasuke aveva assistito
in silenzio alla fuga di Hinata e della sua famiglia, sospirando di sollievo
per aver evitato il compimento della maledizione e la dannazione eterna sua,
del fratello e del suo casato. Rimanendo ritto davanti al cancello, ascoltava
attento ogni singolo rumore, valutandolo e decidendo la strategia da adottare. Ciononostante,
si stupì dell’improvviso gelo che gli serrava letteralmente le caviglie, immobilizzandolo e impedendogli ogni
tentativo di fuga.
E se
avesse potuto respirare avrebbe trattenuto il fiato per il terrore, non appena
un famigliare braccio gli pesò sulla spalla, circondandolo a mo’ di grottesco
affetto.
“Cesserai
mai d’intrometterti negli affari che non ti riguardano, stupido fratello?”
Per
l’eternità!
…
fischio che terminò in uno strido liberatore di ferro cozzante contro pietra e
mattoni, ben presto accompagnato da un grido tanto indignato quanto sorpreso.
“Lurida
bagascia …”, fischiò Naruto in tono di sfida, voltandosi verso il soffiante
spirito maligno che aveva assunto le fattezze della madre superiora. “Pensavi
di fregarmi una seconda volta? Prima tenti di affogarmi e poi mi proponi di
prendere il posto di Itachi? Ho scritto forse giocondo sulla fronte?”, strillò istericamente incavolato,
indicando con un indice accusatore l’ascia che giaceva innocua per terra,
lanciata da un furibondo commissario contro il fantasma sul cui stomaco ancora
faticava a ricucirsi il foro lasciatovi dalla mannaia volante.
“Tu …
maledetto … infame … figlio di …!”, schiumò l’orrida fiera antropomorfa,
passandosi la sua putrida lingua verdognola sulle zanne giallastre. “Tu non
potevi sapere! … Non dovevi discernere! Come …! Come …?!” e i suoi occhiacci
d’iguana si strinsero di arcano terrore alla vista dell’acqua del mare lambente
pigramente dolce le caviglie di Naruto e la bara di Itachi. “Thàlassa!”, urlò essa, strappandosi i
capelli di corda e stoppa. Credendosi seducentemente informe, s’era illusa di
avvelenare la mente di Naruto con false promesse, inconsapevole invece del suo
riflesso svelato dalla scura superficie acquatica, lo stesso che il biondo
aveva scorto prima di lanciare l’ascia. “Il mare! … Thàlassa! … Ecco perché
ridevi! … Ridevi di noi, perfido voltagabbana! Thàlassa!”
“Osud!”,
replicò il biondo, sogghignando trionfante. “Sì, il mare si sta sganasciando
dalle risate, poiché stasera la Sposa si ricongiunge al suo consorte!”, ruggì battagliero,
chiudendo in fretta il coperchio della bara e, afferrata quest’ultima, si
accinse ad uscire dalla cella.
“No!”,
gli bloccò la strada lo spirito, gli occhiacci di bragia. “Tu non oserai!”
“Io
oserò quanto mi pare, dattebayo!”, iniziò Naruto a spingere la bara contro il
fantasma stesso, che inorridì alla vista del legno che transitava
tranquillamente attraverso le sue viscere, invece di essere da esse respinto.
“E sarai tu stavolta a cedere il passo!”, gli assicurò, passando anche lui e
rabbrividendo al gelo bollente che caratterizzava l’essenza di quella presenza
demoniaca.
“Chi ti
credi di essere … Naruto-moccoloso?”
“Naruto-cagasotto-piscialetto?”
“Naruto-testa-quadra?”
“Chi,
spazzatura vivente?”
Il cuore
del biondo ebbe un sobbalzo e le sue iridi celesti si dilatarono e represse a
malapena un brivido freddo alla vista dei suoi ex-bulli degli anni scolastici che
lo circondavano, scuotendo minacciosi i piccoli pugni e i bastoni e i sassi con
cui solevano percuoterlo fino a stordirlo, per poi finire l’opera maestra
trascinandolo nelle toilette e lì tentandolo di affogare, uno che gli teneva la
testa ben ferma dentro il cesso e l’altro che tirava lo sciacquone.
Naruto
inalò ed espirò febbrilmente l’aria, ingoiandosi a momenti le sue medesime
labbra tanto serrava la bocca.
“Ho trentun
anni, ormai”, sibilò feroce. “E certe merdacce
le ho già da tempo esorcizzate!”, ringhiò, scostando via infastidito col
braccio quelle proiezioni, le quali evaporarono, permettendogli di avanzare di
qualche passo col suo pesante fardello.
Essendo
la botola troppo stretta per la bara, purtroppo non gli restava che risalire
fino ai ruderi della chiesa. Il suo opponente lo sapeva e per questo aveva
deciso di approfittarne spudoratamente.
“Naruto
…”, lo appellò una vocina a lui tremendamente nota. L’interpellato in questione
strinse le palpebre, assordandosi da sé. “Perché non corri da me? Perché non mi
salvi? La Sposa mi ha fatto prigioniera, vuole il mio dito e il mio anello!
Salvami da Itachi! Distruggilo! O conto così poco per te?”, disse, appoggiando
le sue delicate manine candide sulle sue più robuste e brune.
“Hinata
…”, gemette Naruto, scuotendo il capo. “Se fossi la mia Hinata, non mi
chiederesti mai di fare del male a
chicchessia …” e alzò lo sguardo. “Ergo, vattene via, anima dannata! Chetati e
lasciami passare!”, esclamò, conquistando altri preziosi centimetri, mentre la
figura della fidanzata si disgiungeva e si ricomponeva in un confuso arabesco
di fumo.
“Anche
se mi ha ucciso?”
“Sono
addolorato per la sua morte, signora Koharu, ma è anche vero che lei non ha
mosso un dito per aiutare Itachi o le sue vittime, s’è limitata a guardare e
basta!”
Ancora
qualche passo …
“E io?
Che colpa ne avevo io?”
Le scale
che s’avvicinavano …
“Pregherò
per la tua anima, Tenten, altro non posso fare per te.”
La punta
della bara toccò il primo gradino …
“Ci restituirai
tu le dita che ci ha mozzato?”
Sollevare
… trascinare …
“Andatevi a lamentare dal vero architetto di questa
schifosa messinscena!”
Un
gradino … e un altro … e un altro ancora …
“Che
razza di garante della giustizia sei, allora? Che non punisce chi ti sottrasse
la tua famiglia, i tuoi diritti, la tua fortuna! Se non fosse stato per Itachi, altro che il
povero, maltrattato, emarginato Uzumaki Naruto! Saresti stato uno di noi! Il
vanto di Konoha, il fior fiore dell’aristocrazia!”
Rabbia e
sdegno.
“Voi tra
tutti dovreste stare nel silenzio più assoluto! Voi avete spinto il sangue del
vostro sangue a divenire il vostro carnefice, a trasformarsi nella vindice
Sposa! E se fosse stato per voi, Uchiha, la mia antenata poteva morire in fasce
avvelenata e di certo non sarei qui a darvi il benservito!”
Inoltre,
lui aveva conquistato tutto ciò che gli serviva, la sua dignità, il suo nome,
una nuova famiglia. Con le sue forze, con la sua tenacia e non aveva bisogno di
lordarsi l’anima per un palliativo di vero amore.
“Non lo
farai neppure per me, tesoro mio?”
Un
sospiro penoso.
“Sei
morta prima ancora che imparassi a seguire seriamente i tuoi consigli, mamma …
E’ troppo tardi, ormai.”
Ma non
abbastanza da vedere i primi bagliori della luce del meriggio infiltrarsi
dall’uscita.
“Quindi
sei proprio il figlio di un vigliacco, vero Naruto?”, sennonché l’ultima prova
gli sbarrò il passaggio, stagliandosi contro quel fascio luminoso come una
minacciosa nuvola nera foriera del temporale. “Come me.”
Appoggiando
finalmente la bara sulla soglia della porta, il biondo si stiracchiò in una
postura più eretta, fissando amorevolmente il volto deluso di suo padre.
Dopodiché, inaspettatamente, cadde in ginocchio, trattenendo le lacrime.
Amore
mio, amore mio!
Plick.
Plick.
Macchiava
e colava il denso e vischioso liquido nero dal petto di Sasuke, là dove un
tempo batteva il suo cuore e dove ora beveva avida la spada infernale del
grande nemico. Si sentì vacillare le gambe ed annebbiare la vista, conscio si
essere stato trafitto con l’unica arma in grado di ferire gli spettri, un ferro
diabolico per il suo altrettanto demoniaco padrone.
“Devo
ammettere che la vostra patetica ribellione aveva un che di commuovente, pareva
la trama di un romanzetto d’appendice: i due fratelli, divisi per secoli da
grande odio, si perdonano a vicenda e insieme combattono il drago per salvare
la pulzella di turno!”, gli rivelò velenosamente scherzoso lo spirito maligno,
la cui espressione dimostrava però tutto meno che giocosità, al contrario, a
malapena aveva mantenuto le fattezze di Itachi per mescolarle alla sua più
spigolosa e satiresca figura, il suo vero volto. “Quasi quasi avrei applaudito,
se le vostre scemenze non incominciassero a darmi leggermente sui nervi!”, gli
sibilò all’orecchio.
“Sei un
pessimo perdente”, dichiarò Sasuke con voce flebile, simulando un coraggio che
gli riusciva sempre più difficile da mantenere, poiché aveva ben afferrato le
intenzioni del suo aguzzino e la prospettiva di finire torturato all’inferno
per l’eternità avrebbe spaventato chiunque. “Non riesci ad accettare che lei ti
sia sfuggita!”
“Che
ingenui che siete, tu e tuo fratello!”, rise il demonio senza gusto. “Pensavate
che salvando Hinata avreste risoluto la situazione? No, se non è lei, sarà
un’altra, avete guadagnato solo un po’ di tempo. Ma a che prezzo? Varrà davvero
la pena per lei essere scuoiati a testa in giù dai miei sudditi, dopo avervi
strappato lingua, naso, orecchie, aperto e srotolato gli intestini e messo a
rosolare come un pollo allo spiego per l’eternità? Ora che so dell’esistenza
del vostro ultimo discendente, realizzerete ben presto di esservi sacrificati
per niente …”, sogghignò, afferrando la mandibola del moro e premendo così
forte che questi temette volesse frantumargliela.
Silenzio.
“Avanti,
dimmi, che farai ora, Sasuke?”, gli lanciò il guanto di sfida, abbandonando la
presa.
“Che
cosa farò?”, ansimò il fantasma, gradualmente stanco e pesante e avvertendo il
gelo delle fiamme infernali attanagliargli le viscere. Lentamente, fece
risalire le dita nodose verso l’alto e in seguito lungo il braccio di Itachi,
afferrandogli la mano che stringeva l’elsa della spada. Sentì il pollice del
fratello avvinghiarsi al suo, l’ultimo suo gesto di libero arbitrio, e in quel momento il minore dei due seppe
ch’era giunta la loro unica occasione di riscatto. “Che cosa faremo noi, Itachi!”, gridò, spingendo la lama
in profondità, acciocché essa penetrasse oltre il suo corpo di spettro e si
conficcasse nel petto del fratello, che sputò a sua volta quel nauseabondo
liquido nero.
“Tzé,
odiavi così tanto Itachi da arrivare a ferirlo per l’ennesima volta?”, lo
derise lo spirito maligno, estraendo con nonchalance la lama da ambedue i petti
e osservando compiaciuto il modo in cui Sasuke gli cadeva i piedi, più
evanescente di prima. “Ti diverte così tanto spezzargli il cuore?”, inquisì,
accennando alla profonda ferita sanguinante. E chinandosi davanti a lui:
“Intanto, tu te ne andrai per primo; poi, quando avrò terminato con Naruto, ti
rispedirò tuo fratello per soffrire insieme la giusta punizione. Dimmi, non sei
contento? La maledizione durerà ancora per molto, mio caro!”
Un
sorprendente ghigno di risposta.
“Molto
contento”, ammise Sasuke rialzandosi, perdendo ad ogni movimento il suo aspetto
mostruoso per riprendere l’antico suo sembiante d’uomo e similmente a lui,
anche i suoi compagni di sventura si guardavano sconcertati le mani, non più
zampe e artigli, bensì abili falangi umane.
Indietreggiando
confuso da quell’inspiegabile metamorfosi, il demonio fissò pieno di collerica
frustrazione i suoi prigionieri assumere la loro previa forma e ricambiare il
suo sguardo non col loro solito tremante servilismo, bensì con sdegnato
disgusto.
“Se
davvero la maledizione di Villa Nakano è destinata a durare nel tempo”, fu il
turno di Sasuke ad inquisire beffardo. “Come mai non possiedi più le fattezze
di Itachi?”
Bastò
appoggiare appena la mano sulla sua irsuta guancia per realizzare, che il suo schiavo
aveva ragione.
La
maschera era caduta.
L’anima
di Itachi lo aveva abbandonato.
C’era
un’unica spiegazione possibile.
“Il suo
corpo!”, ruggì il grande nemico, provocando un possente turbine di vento e
facendo tremare la terra fino a spaccarla. “Lo ucciderò! Lo ucciderò con le mie
stesse mani!”, sputò egli veleno, sennonché si ritrovò dozzine di braccia che
lo trattenevano, impedendogli di attuare la sua minaccia.
“Come
osate mettermi le mani addosso, lurida feccia merdosa? Lasciatemi passare o vi divorerò
tutti!”
Per
tutta risposta, gli spettri lo strinsero ancora più forte.
“Tu non
puoi più comandarci un bel niente, perché siamo liberi! Liberi!”
Un sordo
boato riecheggiò per tutta l’antica proprietà, scuotendola dalle fondamenta al
segnavento, che girò impazzito fin quasi a svitarsi e piegarsi dinanzi a quell’ondata
d’aria che parve voler radere ogni cosa al suolo e far sprofondare la villa
negli abissi stessi della terra.
Fu un
attimo, però.
Gli abitanti
di Konoha fecero appena in tempo ad accorgersi di quell’inusuale rombo e di un urlo
ingolato d’inferno, che, affacciandosi alla finestra in direzione di Villa
Nakano, altro non videro che un signorile edificio circondato da un incantevole
giardino paradisiaco, illuminato dal ridente sole del meriggio.
Infatti,
il temporale era nel frattempo cessato.
Guarda
l’oltraggio recato alla tua sposa e dimmi: …
“Ti
domando perdono, papà, per aver dubitato di te e spero che il giorno in cui ci
rincontreremo, tu vorrai ancora essere così buono da riconoscermi come tuo
figlio, io che ti rinnegai con stupida ferocia. Scusami tanto, papà, scusami
tanto!” e tali supplichevoli richieste di perdono ancora fluivano dalle labbra
di Naruto nella loro disperata litania, che i lineamenti di Minato si
deformarono in una massa indistinta di bolle simili a del pus, che ribollendo
gli ingrossarono la faccia e il corpo fino a scoppiare in un ruggito di pura
sconfitta, svanendo definitivamente in vomitevoli effluvi, lasciando spazio
alla fresca brezza marina che segue la tempesta.
Solo
allora il giovane uomo levò gli occhi da terra, accogliendo per quanto
abbagliante la luce del meriggio, che da dietro al catino absidale raffigurante
il Cristo Pantocratore pareva dividersi in diversi raggi, luminosi fiumi
terminanti in un unico grande mare di gioia e speranza.
“Ci
siamo quasi …”, s’incoraggiò il biondo, riprendendo a spingere la bara verso il
mosaico. “Non manca molto …” e il tragitto gli risultò più facile quando
s’imbatté nel poco marmo rimasto per pavimento, permettendogli di scivolare
sotto quello sguardo così scrutatore e al contempo comprensivo.
“Non
sono uno del mestiere, però … Che dire … E’ ora di andare, Itachi”, mormorò
infine Naruto, sospirando a fondo ed estraendo il tesoro cedutogli da Kisame,
la cui impazienza il giovane la poteva percepire dall’insistente infrangersi
delle onde sugli scogli e dai saltuari spruzzi che oltrepassavano la linea tra
terra e acqua, bagnando la salma del moro, che ancora pareva dormiente. “E
allora andiamo …”, gli sorrise dolcemente, riponendo sulla mano monca il suo
anulare ingioiellato dal piccolo anello di fidanzamento e nel cui palmo
raccolto introdusse una piccola saccoccia di velluto contenente le fedi nuziali
comprate in viaggio da Kisame e che il naufragio li aveva impedito di assolvere
il loro compito.
“Avete
aspettato abbastanza.”
E in
quel momento, l’incanto scomparve e il corpo d’Itachi ritornò ad essere un
umile scheletro nudo, a malapena coperto da qualche brandello di pelle
rimastogli e un filo di capelli unti sul teschio ghignante e dalle orbite
vuote, segno che l’anima d’Itachi era stata liberata dal contratto col male, ma
libera soprattutto di recidere gli ultimi vincoli terreni per intraprendere il
viaggio verso la porta dell’Aldilà e lì terminare la sua ammenda per poi
dedicarsi completamente all’eterna contemplazione.
“Bonne chance”, gli augurò Naruto,
chiudendo la bara e riempiendola di pietre e, portatala al limitare della
scogliera, raccolse le ultime forze e la spinse giù, osservando come il mare,
levandosi nella sua onda più alta,
l’avesse ghermita avido e impaziente a metà strada, prima ancora che
essa potesse sfiorarne la superficie, trascinandola nei suoi profondi recessi
in un voluttuoso tenero abbraccio, per poi chetarsi in un’accarezzante nenia,
come se stesse ninnando il nuovo arrivato, consolandolo e sussurrandogli
segrete parole comprensibili solo ad anime affini e indissolubilmente legate.
Dove sono? Nessuno ti ha
condannato?
Si
sovvenne Naruto di quel passo del Vangelo mentre seguitava a cercare con gli
occhi eventuali segni della cassa, passo ascoltato svogliatamente se non proprio infastidito, giacché solo ora
afferrava del tutto il significato di quelle parole all’epoca così strane e da
lui considerate troppo buoniste, da mollaccioni quasi.
Nessuno, Signore.
Accusare
è facile, domandare perdono un po’ meno. Perdonare dal profondo del cuore è
impossibile, perché essere creditore nei confronti di qualcuno appaga assai il
proprio ego e la propria meschinità morale, l’angolo buio e vendicativo da
sempre in agguato, pronto a manifestarsi alla prima occasione.
Neanch’io ti condanno; và e d’ora
in poi non peccare più.
La bara
doveva ormai essere affondata interamente, visto che Naruto non percepì più i
sospirati Grazie! provenienti dal
mare. Rialzandosi a fatica, barcollò fino ai resti dell’antico imbarcadero di
marmo, cadendo in avanti a bocconi, la gola insidiata dalla nausea montante e
le gambe trasformatesi in ricotta dallo sforzo e lo sfinimento.
Rigirandosi
supino, il biondo contemplò il cielo che si liberava man mano dagli ultimi
rimasugli del temporale, visuale timidamente celatagli da un viso un poco rosa
di colpevole verecondia.
Potrete mai perdonarmi per quel
che vi ho costretto a patire?
“Potrai
mai perdonarmi per averti odiato senza conoscerti?”, replicò Naruto prima di
serrare definitivamente le palpebre e lasciarsi catturare da una meritata
incoscienza, non senza aver tuttavia catturato un tremulo, grato e sincero
sorriso che abbellì quella bocca a lungo costretta in un’immeritata e sofferta
linea dura.
Rincontrò
inoltre un altro viso da poco conosciuto, le cui fattezze però mai le avrebbe
dimenticate.
“Insomma,
tu, chi accidenti sei?”
“Già”,
rispose quello scuotendo la zazzera biondo-rossiccia. “Chi, infatti?”
E il
buio avvolse nel suo morbido manto Naruto, cullandolo verso un dolce limbo
senza affanni e dolori.
…
Quando potremmo darci il segno?
Next chapter, the epilogue …
**************************************************************************************************
Fiuh,
che parto! Allora, piaciuto il finale? Sì? No?
Fatecelo
sapere!
Ci
vediamo all’epilogo e pronti con lo champagne per festeggiare la fine!
Ciao!
Un po’
di noticine:
[1] Argo Panoptes (Argo “che tutto vede”),
era un gigante interamente coperto di occhi e che Hera aveva messo a guarda di
Io, una delle innumerevoli amanti di Zeus, trasformata in una mucca, acciocché
lo sposo fedifrago non se la riprendesse. Grazie ad un inganno di Hermes, che addormentò
Argo e gli tagliò la testa, Zeus si riprese la sua mucca. Tuttavia, per
ricompensare il gigante per la sua devozione, Hera gli strappò gli occhi e li
piazzò sulla coda del pavone, animale a lei sacro. Questo mito serve a spiegare
le formi “ovali” sulla coda del pavone.