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Autore: Lusio    25/07/2013    11 recensioni
Per Capitol City sono un passatempo. Per coloro che rimangono nei Distretti sono un altro anno di vita in più. Per coloro che verranno sono solo nomi, esempi da seguire o errori da non ripetere.
Ma per se stessi, i Tributi sono... loro.
Bambini, giocattoli dei potenti, giocattoli rotti alla fine dei giochi, animali; vorrebbero essere persone ma sono condannati a non esserlo più. Non sanno cosa faranno se e quando vinceranno; sanno solo che vogliono vivere, anche se solo per un altro giorno.
Kurt e Quinn: Distretto 2
Dave e Lettice: Distretto 3
Sebastian: Distretto 4
Mike e Tina: Distretto 6
Santana: Distretto 7
Blaine e Rachel: Distretto 8
Wade e Mercedes: Distretto 11
Solo uno di loro vincerà... ma cosa? E a quale prezzo?
(Crossover Glee/HungerGames)
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Cronache di un’edizione degli Hunger Games

 

 

 

LA  MIETITURA

DISTRETTO 4

 

Sott’acqua si era al sicuro; lì non si sentiva nulla tranne il gorgogliare delle onde che premeva nelle orecchie, smorzando ogni altro suono proveniente dalla superficie.

“Resterò qui fino a quando riuscirò a trattenere il fiato” pensò Sebastian lasciandosi andare alle onde “Anzi, anche oltre”.

Il vecchio Johnny, che tesseva le reti sulla porta della sua catapecchia sulla spiaggia, raccontava del tempo in cui gli aerei di Capitol City sorvolavano il cielo, carichi di bombe predisposte alla distruzione dei Distretti in rivolta. Per non sentire i rumori della guerra, Johnny che era poco più di un bambino all’epoca, si rifugiava sotto la fredda e trasparente muraglia che lambiva le loro spiagge; da allora era diventato il suo rifugio. Dopo la fine della rivolta e l’inizio degli Hunger Games, ogni anno, il giorno della mietitura tentava di gettarsi a capofitto in mare per non sentire più niente, ma veniva sempre ripreso. Faceva questo ogni anno; persino i Pacificatori erano abituati alle sue stranezze. Quest’anno, il vecchio Johnny non c’era più.

L’anno precedente sua nipote era stata sorteggiata come Tributo. Alla fine della mietitura era entrato in acqua e non ne era più uscito.

Sebastian aveva iniziato a fare come il vecchio Johnny già da prima dei suoi dodici anni assieme agli altri bambini e bambine che ascoltavano le storie e le lezioni del vecchio tessitore di reti; ma non poterono continuare. Nessuno aveva voglia di mettersi contro i Pacificatori.

Nel corso di quei cinque anni, Sebastian aveva visto partire alcuni di quei bambini che si “nascondevano” tra le onde con lui e nessuno ritornare; solo se eri abbastanza grande e allenato avevi qualche chance di fare ritorno al tuo Distretto coperto di “onori e gloria”. Sebastian Smythe del Distretto 4 era grande ed era allenato ed era affascinante al punto da potersi guadagnare le simpatie degli sponsor di Capitol City; un perfetto Favorito. Ma lui non voleva. Non voleva rischiare di morire, non voleva sopravvivere per diventare un giocattolino della capitale, non voleva rinunciare a quel mare nel quale si lasciava andare ogni mattina, quando tutti ancora dormivano, quel mare che lo proteggeva, che rendeva la sua pelle ruvida per la salsedine, come uno scoglio sommerso.

“Solo quest’anno e poi un altro, e mi lasceranno in pace” continuava a pensare, mentre alcune gocce brucianti gli entravano nel naso e nella bocca, facendo urlare ai suoi polmoni aria aria aria.

Poteva riuscire a resistere ancora un po’, come il vecchio Johnny, ma lui aveva avuto mezzo secolo per allenarsi e Sebastian nemmeno un decimo.

Quando si risollevò dalle onde, boccheggiando, sperò che qualche traccia di acqua salata fosse rimasta impressa nel suo petto.

“Almeno porterò il mare con me fino alla prossima immersione” pensò, uscendo dall’acqua e lasciando che i primi raggi del sole lo asciugassero. Tornando a casa, portò con sé anche una manciata di sabbia.

Tenne con sé quella parte che più amava del suo Distretto fino al momento in cui il suo nome venne sorteggiato alla mietitura. E anche oltre.

 

 

I  TRIBUTI

DISTRETTO 11

Avevano detto solo i loro nomi ma se avessero aggiunto un bel “siete condannati a morte perché uomini e donne vissuti quasi sessant’anni fa, e che sicuramente adesso sono anche morti, hanno deciso di ribellarsi a Capitol City”. Andate tutti a fare in culo, maledetti.

Mercedes Jones poteva permetterselo quel risentimento e quella rabbia, verso gli amici e i parenti che avevano solo pianto mentre lei andava a morire in chissà quale diavolo di Arena, verso i Pacificatori che prendevano in giro lei e l’altro Tributo, Wade “Unique” Adams, chiamandoli con scherno “la grassona” e “la checca”, verso quel debosciato di Capitol City talmente rifatto da sembrare un manichino di plastica, che parlava loro come se fossero stati amici di vecchia data. Aveva smesso di ascoltarlo quando aveva esordito con “Non sapete quanto siete fortunati, miei cari”. Sì, proprio fortunati a pensare che avevano solo pochi giorni da vivere ancora.

Chi volevano prendere in giro?Quali possibilità avevano entrambi di sopravvivere? Non erano agili e forti o abili in un qualche tipo di combattimento, erano… sì, erano “grassi”, per una predisposizione fisiologica, non certo per una buona alimentazione. Proprio per questo, Mercedes e Wade erano più utili nel loro Distretto, dove potevano dare tutte le loro forze per il lavoro, piuttosto che in un’Arena dove non sarebbero vissuti nemmeno due minuti, in mezzo a tutte quelle macchine da guerra umane. Ma questo a qualcuno importava? Non certo a quei figli di puttana di Capitol City; altro sangue per il loro divertimento e per la loro voglia di emozioni forti, ecco cos’erano loro due. Non a tutti quelli che rimanevano a casa, che l’avevano scampata per un altro anno e che, a poco a poco, iniziavano ad “abituarsi” a questi sacrifici annuali.

Pigiati nella macchina, Mercedes sentiva il tremito convulso di Unique. Con Wade, lei e pochi altri usavano quel nome non per dispregio ma per rispetto; era stato proprio lui a volere quel nome per sentirsi autentico e voler essere veri e reali era una delle poche cose che Capitol City non avrebbe mai potuto togliere loro. Se Wade sentiva di essere Unique, allora era Unique. Mercedes avrebbe voluto consolarlo in qualche modo, anche solo stringendogli la mano per fargli coraggio; ma quanto sarebbe potuta durare quella pietà? Sarebbero arrivati ad un determinato momento in cui l’appartenere allo stesso Distretto non avrebbe significato più nulla, in cui i giochi fatti da bambini sarebbero stati un lontano ricordo ormai cancellato, in cui il senso di sopravvivenza avrebbe prevalso e l’importante sarebbe stato solo sopravvivere.

Che il tempo si fermi. Anche se si deve rimanere per sempre bloccati in una macchina con quella fastidiosa voce da damerino nelle orecchie.

 

 

IL  COMMIATO  E  IL  VIAGGIO

DISTRETTO 2

Il bello dell’essere uno dei Distretti più vicini a Capitol City era che non si aveva nemmeno il tempo di capire cosa stava succedendo. Semplicemente veniva estratto il tuo nome, avevi giusto il tempo di salutare la tua famiglia (ci si poteva permettere un “arrivederci” invece di un “addio”). Se erano ragazzi più ambiziosi (e più deficienti) non c’era nemmeno bisogno della meititura visto che i volontari si guadagnavano la più totale ammirazione degli abitanti del Distretto 2.

Kurt Hummel, figlio di uno degli estrattori di diamanti della miniera, non si sarebbe mai offerto volontario. Odiava gli Hunger Games e Capitol City anche se si guardava bene dal dirlo ad alta voce, e odiava ancora di più quei fanatici che sognavano solo di scendere in un’Arena per massacrarsi a vicenda. Per quel che lo riguardava, potevano fare quello che volevano: offrirsi volontari, combattere, uccidere, vivere, morire, dare il culo ai vecchi della capitale. Bastava solo che lasciassero in pace lui e suo padre. Purtroppo il Tributo femmina che si era proposta spontaneamente aveva spento l’ardore di tutto il genere maschile dai dodici ai diciotto anni lì presente; Quinn Fabray era nota non solo per la sua bellezza ma anche per la sua freddezza, per il suo spirito da guerriera d’altri tempi, il cuore di un guerriero sanguinario racchiuso nel corpo, all’apparenza fragile, di un’eterea ragazza di sedici anni. Per questi ed altri motivi gli aspiranti volontari tacquero. E ad essere estratto quella volta fu Kurt Hummel. Non poté rifiutarsi anche se lo avrebbe voluto più di ogni altra cosa.

Mi strappate a mio padre, alla mia famiglia, agli anni che ancora potevo vivere.

Era Quinn la protagonista indiscussa; molti già vedevano i suoi capelli biondi incorniciati dal diadema della vittoria. Così Kurt poté vivere in maniera più tranquilla e riservata il commiato dalla sua famiglia.

Finn, il suo fratellastro, gli stritolò con forza le spalle continuando a ripetergli “Coraggio, puoi farcela”.

Se fossi come te, se avessi il tuo fisico e la tua stazza potrei farcela, forse.

Carole, la sua matrigna, riusciva solo a scuotere la testa come se stesse cercando di scacciare un pensiero molesto che la afferrava e la riafferrava ed evitava il suo sguardo.

Burt, suo padre, lo guardava e non diceva niente. Basta. Nessuno di loro voleva farsi ancora più male. Anzi, adesso sarebbe stato anche più facile tirare un sospiro di sollievo: ogni anno con la paura di dirsi addio e quel momento alla fine era arrivato; dopo di ciò niente più avrebbe potuto far male.

Quando salì sul treno, Kurt non volle affacciarsi all’ampio finestrino. Si dice “Addio” solo una volta.

Ad un tratto, mentre il treno iniziava a muoversi, gli venne in mente il frammento di una poesia del Vecchio Mondo scomparso. Non ricordava il nome dell’autore ma il titolo sì. “Mercoledì delle ceneri”*

… perché io non spero più di ritornare.

 

 

LA  CERIMONIA  D’APERTURA

DISTRETTO 8

Capitol City era in delirio. Quell’anno i Tributi erano quanto di meglio potesse esserci, non tanto per forza fisica e combattività quanto per bellezza e avvenenza. Bellezza e avvenenza erano i requisiti richiesti per essere favoriti alla vittoria e per questo gli stilisti avevano dato il meglio e anche il peggio del loro talento per far risaltare le doti fisiche dei ventiquattro giovani partecipanti agli Hunger Games.

I minimi dettagli non sfuggivano all’occhio allenato di Blaine Anderson, Tributo del Distretto 8; lavorava, cioè aveva lavorato in una fabbrica di tessuti sin da quando era piccolo e sarebbe stato in grado di indovinare la tecnica utilizzata per confezionare l’abito che indossava semplicemente tastando i vari tipi di stoffa impiegati. Il suo stilista lo aveva interamente ricoperto di ritagli di stoffa che andavano dal rosso acceso al dorato attraverso varie tonalità, ma aveva abilmente fatto in modo che il tutto non gli desse un aspetto goffo e disordinato ma nobile ed elegante, mettendo in risalto il suo fisico e il suo sguardo. La sua controparte femminile, Rachel Berry, invece aveva poca stoffa a coprirla. Anzi, quasi tutte le ragazze indossavano abiti che non lasciavano nulla all’immaginazione e mettevano in mostra le loro grazie; il Tributo del 7, una splendida ragazza ispanica dallo sguardo freddo e allucinato indossava un body trasparente con sopra ricamati dei rami arabescati che andavano a coprire le parti più intime del suo corpo. Rachel non era stata denudata in quel modo ma aveva la schiena e le braccia completamente esposte agli occhi degli esultanti abitanti della capitale, una lucida stoffa rossa e dorata le copriva il resto e i capelli erano sorretti da enormi spilloni da cucito ornamentali.

Ad ogni biga che passava, le acclamazioni e le urla d’eccitazione della folla si facevano più alte; sui maxi schermi Blaine riusciva a vedere la causa delle impennate d’entusiasmo: la ragazza del 7, il ragazzo del 4, che aveva causato più di un mancamento tra le signore, i due Tributi del 3 rivestiti interamente di tuniche argentate che splendevano sotto i riflettori, lui alto e massiccio, un guerriero di granito, lei piccolissima ed esile (“Non può avere dodici anni” pensò subito Blaine “E’ troppo piccola”), tenuta in braccio dal suo compagno che la stringeva a sé come per difenderla dagli eventi che li stavano trascinando via, una stella cometa attaccata alla sua scia.

Ma lo spettacolo più sconvolgente fu offerto dai Tributi del Distretto 2. Bellissimi e regali come due sovrani, con abiti fatti interamente di diamanti di varie dimensioni; sarebbe bastato smuovere un solo filo che teneva unite quelle pietre per farle cadere e lasciarli completamente nudi. Lievi nuvole brillanti comprivano la sommità dei loro capelli e contornavano le loro orbite; ma Blaine si rese conto che nel ragazzo c’era qualcosa di più luminoso dei diamanti che lo rivestivano: i suoi occhi.

Tutta la luce artificiale che emanava dal suo corpo, il verde-azzurro di quegli occhi la trapassava come due scie di colore. Blaine era sicuro che quel ragazzo non avrebbe avuto bisogno di nulla per apparire più bello; bastava solo il suo sguardo. I Tributi del 2 erano noti per il loro sguardo assassino, da predatori, tipico dei Favoriti, come anche quelli dell’1 e del 4; tutti gli altri tremavano davanti a loro. E la ragazza del 2, col suo cipiglio freddo, ne era un esempio perfetto. Ma il ragazzo sembrava rappresentare l’eccezione: non c’era sete di sangue e di gloria nei suoi occhi, solo una gran rabbia, la stessa che si poteva leggere nella maggior parte dei Tributi, il senso di ingiustizia che si provava nel sapere di essere solo parte di un passatempo crudele, di valere quanto gli abiti grotteschi che indossavano quelli di Capitol City che, passati di moda, sarebbero stati dimenticati in un armadio o gettati via.

Erano tanti giocattolini preziosi pronti per essere rotti per il divertimento degli altri.

Quando la cerimonia ebbe termine e i ventiquattro poterono scendere dalle bighe e abbandonare le pose rigide mantenute fino a quel momento, Blaine diede una rapida occhiata attorno a sé per vedere un po’ l’effetto che facevano quegli abiti senza più la luce dei riflettori, sempre per un abitudinario attaccamento a certi dettagli. Certo, finito lo spettacolo, le comete, le cascate d’oro e cremisi, le luci, le nudità perdevano il loro effetto e tutti ritornavano ad essere ragazzi e ragazze dai dodici ai diciotto anni con dei vestiti fatti su misura che non avrebbero più indossato.

Se non avessero avuto l’ombra di un conflitto imminente alle loro spalle avrebbero potuto mettersi a chiacchierare, a fare conoscenza; alcune ragazze sembravano smaniare dalla voglia di andare ad accarezzare la bambina del 3 che rimaneva in braccio al suo compagno gigante, spaventata dalla folla urlante.

Erano uguali, chi più chi meno. C’era solo un destino che non avevano scelto loro a dividerli.

Nella folla di mentori e stilisti che si andava formando, Blaine si alzò sulle punte per trovare ancora il ragazzo del 2, curioso di vedere il suo cambiamento. Lo vide un po’ più distante dal suo gruppo, intento a togliere con un panno il trucco brillante che aveva sul viso, con aria stanca.

Sì, chi gli aveva messo quella roba in faccia doveva essere un vero idiota. Se gli avessero permesso di mostrare il suo volto pulito e al naturale avrebbe ottenuto un maggior successo, anzi, probabilmente  l’intera Capitol City avrebbe urlato a gran voce la “grazia” per lui… forse lo avevano truccato proprio per evitare una simile evenienza.

Blaine doveva averlo guardato con troppa insistenza perché, ad un certo punto, il ragazzo del 2 alzò lo sguardo verso di lui, gli occhi sbarrati in un misto di costernazione, paura e rabbia. Sembrava gli volesse urlare “Cosa vuoi da me? Smettila di guardarmi”.

Urtato da quell’occhiata fulminante, Blaine abbassò lo sguardo, come se si fosse sentito colpevole per avergli fatto un qualche sgarbo. Che poi era assurdo, a ben pensarci: non erano amici, nessuno di loro sarebbe stato amico degli altri, presto si sarebbero trovati tutti a combattere fino all’ultimo sangue per sopravvivere.

- Blaine, cosa fai? – lo scosse Rachel, avvicinandosi a lui, la testa dritta per evitare che gli spilloni le cadessero – Non lasciarti intimorire da quelli del 2; sono dei macellai – continuò lei notando lo scambio di sguardi tra i due ragazzi.

- No, non preoccuparti – le rispose lui, continuando a spiare il ragazzo del 2 che era tornato a strofinarsi con forza il viso per togliere gli ultimi residui di trucco – E’ solo che… no, non è niente – balbettò Blaine voltando le spalle e raggiungendo il suo gruppo.

Spero di non ritrovarmi a combattere contro di lui. Spero di non doverlo uccidere io.

Ma chissà come sarebbe stato morire per mano sua. Morire avendo quegli occhi davanti.

 

 

IL  CENTRO  DI  ADDESTRAMENTO

La cerimonia d’apertura, in fondo, non era stato nulla di che, se non un’enorme pagliacciata. Un bel abito, un qualche effetto speciale, gli apprezzamenti del pubblico non erano assolutamente niente. Solo al centro di addestramento si iniziava a capire chi erano i veri avversari e già li era difficile visto che i più astuti non mostravano mai il loro vero potenziale; il trucco era saper individuare quelli che usavano tutte le loro forze (i meno pericolosi) e quelli che ne usavano solo una parte (le vere macchine assassine) e tra ventiquattro ragazzi di ambo i sessi non era certo un compito facile, tenendo conto del fatto che lì, l’intento principale dei Tributi era allenarsi in vista degli Hunger Games.

I due Tributi del Distretto 6, due ragazzi dai tratti asiatici, Mike e Tina, che erano passati quasi inosservati durante la sfilata dei carri, avevano dato subito prova della loro abilità; subito erano stati seguiti dalla maggior parte degli altri Tributi, in una gara a chi era il più temibile, dove il vincitore era colui che riusciva a terrorizzare di più gli altri. In certi momenti, il cercare di comprendere i punti forti e i punti deboli degli avversari, spaventarli, togliere loro ogni speranza diventava la vera arma vincente.

Chi voleva stordirsi o dimenticare, poteva abbandonare la postazione delle armi e immergersi in una più passiva difesa. La bambina del 3, Lettice, troppo piccola anche solo per poter prendere in mano un’arma, trascorreva lì la maggior parte del tempo, intenta ad imparare metodi per “ritardare” la morte mentre il suo compagno, Dave Karofsky, era tra quelli che intimidivano gli avversari distruggendo manichini a mano nude.

Blaine aveva deciso di alternarsi, come la minima parte dei Tributi, tra combattimento, difesa e tecniche di sopravvivenza. Una cosa che lo stupì fu il trovare anche il Tributo del 2 alla difesa e alla sopravvivenza; in genere, i Favoriti non abbandonavano mai le postazioni di combattimento. Invece lui la stessa attenzione che usava nel combattimento, la riservava al massimo alla difesa e alla sopravvivenza. Vedendolo anche in quel momento, Blaine era sicuro che fosse lui ad avere maggiori probabilità di vittoria, visto che aveva tutte le qualità per attirare gli interessi del pubblico unite all’intelligenza e alla previdenza.

Ma pur lontano dai primi combattimenti “non ancora mortali”, Blaine era comunque su una china scivolosa visto che il tempo che avrebbe dovuto impiegare per allenarsi lo sprecava, invece, a spiare ogni movimento, ogni espressione, ogni momento in cui il ragazzo del 2 aggrottava la fronte. E anche quella volta, il ragazzo se ne accorse.

- Smettila di guardarmi – saltò su il ragazzo del 2, cercando di non attirare l’attenzione degli istruttori, sempre vigili per fermare all’istante qualunque tentativo di lite tra i Tributi.

- N-non ti stavo guardando – replicò debolmente Blaine, preso alla sprovvista.

- Mi stai guardando dalla cerimonia d’apertura, invece – continuò a ringhiare il ragazzo.

- Guardo te come guardo tutti gli altri – tentò di difendersi Blaine.

- Allora mi hai scambiato per “tutti gli altri” – se non l’avesse detto con durezza, sarebbe stata una battuta perfetta per farsi qualche risata – Te lo dirò un’ultima volta: smettila.

- Scusami – mormorò Blaine, con più sincerità di quanto avrebbe voluto.

- “Scusami”?! – esclamò il ragazzo costernato – “Scusami”?! Credi forse che siamo in un centro ricreativo? Ma chi sei? Chi ti conosce?

- Blaine, del Distretto 8 – rispose Blaine come se il ragazzo glielo avesse chiesto per curiosità e non con rabbia e ironia.

- Cos’è questo? – reagì il ragazzo – Un astuto stratagemma per farmi abbassare la guardia quando saremo nell’Arena?

- No… non… no, non è niente – balbettò Blaine mortificato.

Il Tributo del 2, per tutta risposta, borbottando un epiteto poco amichevole, tornò a concentrarsi su un piccolo marchingegno che aveva in mano evitando di incrociare nuovamente lo sguardo di Blaine. Quest’ultimo tenne solo un altro po’ gli occhi su di lui, forse sperando in un’altra parola, anche se violenta e piena di rabbia, che però non arrivò; pensò allora di cambiare postazione anche per evitare quell’atmosfera pesante che si andava formando attorno a sé.

- Kurt, Distretto 2 – sentì dire dal ragazzo che continuava ad armeggiare con l’oggetto che aveva in mano – Quella roba che indossavi alla cerimonia era orribile – non c’era colore o alcun tipo di sfumatura nelle sue parole; erano parole e basta.

- E’ vero – assentì Blaine, senza sorridere.

Sorridere sarebbe stato troppo.

 

* * *

 

Durante quella settimana, Kurt e Blaine si parlarono ancora. Non erano chissà quali conversazioni; semplicemente parlavano, come se fosse stata la prima volta che si incontravano e l’ultima chiacchierata che avrebbero mai più fatto. Poco importavano le domande dei loro mentori e delle loro compagne. “Si parla e basta, nulla di importante o di pericoloso”; ed infatti, ogni volta che si ritrovavano a chiacchierare in maniera distaccata, guardandosi poche volte in faccia, sembravano voler dimostrare, prima a loro stessi che agli altri, che non erano importanti quelle parole. Quel poco tempo che rubavano, quegli sprazzi di un futuro che non avrebbero mai avuto non erano importanti. Solo… erano. Punto.

- Com’è il Distretto in cui vivi? – chiese Blaine.

- Migliore degli altri, sicuramente – rispose Kurt – E’ diviso in vari quartieri, che sembrano più che altro delle città in miniatura; quello dove vivo io non è uno dei quartieri più lussuosi, mio padre lavora nelle miniere ma non possiamo lamentarci. Ci sono anche dei piccoli spazi verdi tra un quartiere e l’altro; ogni anno, all’inizio della primavera ci portavano sempre in quei giardinetti a vedere gli alberi in fiore. In quei giorni c’era tanto di quel polline che respirare diventava un’impresa, ma erano anche gli unici giorni in cui mio padre era con me, la mia matrigna e il mio fratellastro, senza quella dannata miniera a seppellirlo. Com’è il tuo Distretto, invece?

- Non è così bello come il tuo – rispose Blaine – E’ una zona completamente industriale, dominata interamente da fabbriche tessili, senza nemmeno uno spazio verde, tutto nero e grigio; l’unico colore che si può trovare è quello delle tinture per le stoffe e, se non stai attento, corri il rischio che sia l’ultima cosa che vedi: molti bambini che lavoravano con me in una delle fabbriche sono diventati ciechi per colpa delle esalazioni tossiche di quei coloranti. Si sente sempre il rumore dei macchinari che dalle fabbriche si estende per l’intero Distretto, un ronzio che non ha mai fine, che anche quando credi che ti stia dando un po’ di tregua continua a sfondarti i timpani quando sei a letto e vorresti dormire. E anche quando dormi continui a lavorare perché le tue dita si muovono credendo di avere sotto mano stoffe, macchine per cucire e telai. E questo ogni giorno ed ogni notte della tua vita finché non vieni sorteggiato alla mietitura o non muori. E non c’è molta differenza.

- Che schifo – si limitò a commentare amaramente Kurt – C’è qualcosa di bello in questo tuo Distretto?

- C’è la mia famiglia – rispose il ragazzo.

Kurt scosse la testa, forse per scacciar via quelle parole o forse perché voleva evitare di guardare Blaine negli occhi.

- Spero che nell’Arena ti ammazzi qualcun altro – mormorò con voce spezzata, di punto in bianco.

Con uno scatto, Blaine mollò tutto quello che stava facendo in quel momento e si alzò per andarsene; anche se dubitava che Kurt avrebbe alzato la testa per vederlo andar via, si voltò completamente: non voleva che lo vedesse piangere. Non per quelle parole in sé ma perché, per la prima volta, Kurt gli aveva mostrato un sentimento.

- Io invece spero che tu vinca – lo ripagò Blaine, non preoccupandosi che anche gli altri lo sentissero – Così potrai ritornare a casa tua, nel tuo Distretto, e la prossima primavera potrai vedere ancora una volta il polline.

Kurt, finalmente, alzò la testa e quella volta fu lui a fissare Blaine al punto da farlo voltare per guardarsi negli occhi.

- Io odio il polline – disse.

Quella fu l’ultima volta che si parlarono.

Poi ci furono le interviste e con esse l’ultimo giorno.

 

 

GLI  HUNGER  GAMES

Solo un altro giorno. Voglio vivere solo un altro giorno ancora.

 

 

L’ARENA

Quell’anno l’Arena degli Hunger Games voleva essere un omaggio al Vecchio Mondo, scomparso da secoli ma già in rovina da millenni. Il mondo dell’antico e leggendario impero romano che Capitol City si ostinava a far rivivere ogni giorno nei suoi usi e costumi. Si era deciso di riprodurre le rovine di un antica città distrutta a suo tempo dal “fuoco di una montagna”; nei vecchi testi ritrovati, questa città veniva chiamata Pompei.

Quando i Tributi vennero portati fuori dai condotti ebbero giusto i soliti sessanta secondi concessi per orientarsi approssimativamente su quanto li circondava: a parte la Cornucopia, stavolta molto più intonata col suo elemento visto l’ambiente classico antico, posta sempre al centro davanti a loro, intorno c’erano strade lastricate da enormi pietre bianche, e residui e macerie di palazzi e abitazioni in rovina e semi distrutti, alcuni ancora miracolosamente in piedi, altri che conservavano solo quattro o cinque file di mattoni che ricordavano la presenza di mura e pareti. Su tutto incombeva sullo sfondo una montagna dall’aria sinistra; con quest’ultima gli Strateghi si erano veramente superati.

Sessanta secondi per vedere l’ambiente e capire cosa fare; sembra impossibile ma non è poi tanto difficile. Basta solo lasciarsi andare. Dopo un minuto scesero tutti dalle loro pedane ed iniziò la carneficina o “bagno di sangue”, come dir si voglia.

Quella fu una di quelle edizioni degli Hunger Games nelle quali il grosso dei Tributi venne decimato all’inizio, alla Cornucopia.

Mercedes Jones e Wade Adams del Distretto 11 vennero uccisi mentre cercavano di fuggire da quel luogo, senza nemmeno prendere niente dalla Cornucopia.

Dave Karofsky del Distretto 3 fu abbastanza veloce da afferrare uno zaino ed un’arma (una mazza ferrata ma lui quasi non ci badò) e ritornare indietro di corsa: il Tributo maschio dell’1 stava per abbattere la sua spada sull’esile corpicino di Lettice, ma Dave gli fracassò la testa con la mazza, prese la sua piccola compagna in braccio e, correndo più volece che poteva, si rifugiò tra i ruderi dell’antica città.

Blaine Anderson del Distretto 8 venne ucciso da una lancia scagliatagli alle spalle dal Tributo femmina dell’4; quest’ultima non fece in tempo a godersi quella piccola vittoria perché Kurt Hummel del Distretto 2 le fu subito addosso e le tagliò la gola con un coltello.

Anche Rachel Berry, sempre dell’8 non superò i primi minuti: ferita al fianco, tentò di trascinarsi verso le rovine della città ma una freccia le trapassò il collo da parte a parte.

Alla fine del bagno di sangue, attorno alla Cornucopia c’erano quattordici Tributi morti.

Erano sopravvissuti la ragazza dell’1, Kurt Hummel e Quinn Fabray del 2, Dave Karofsky e Lettice Schyller del 3, Sebastian Smythe del 4, Mike Chang e Tina Cohen Chang del 6, Santana Lopez del 7, e il ragazzo del 10. Quest’ultimo morì quella stessa notte per le ferite subite.

Quel giorno segnò la fine per tutti quei ragazzi e quelle ragazze; non più persone e nemmeno animali, ma vano trastullo per i ricchi e i potenti.

Il giorno dopo, Quinn si scontrò ed uccise la ragazza dell’1 impadronendosi del cibo di quest’ultima; lei, Kurt, Sebastian e Santana si trovavano in zone diverse della città, ognuno per proprio conto, aspettando il momento in cui qualche sponsor si fosse deciso ad inviare acqua e cibo a qualcuno di loro; Dave e Lettice si erano rifugiati in un tempio (uno dei pochi edifici ancora in piedi) e il ragazzo era l’unico che usciva per tentare di trovare dell’acqua e qualcosa da mangiare visto il poco che avevano ma cercava sempre di non allontanarsi troppo per non lasciare da sola la bambina.

Il terzo giorno, Mike e Tina, che agivano insieme come una persona e la sua ombra, tentarono di assaltare quel rifugio, più con l’intenzione di sbarazzarsi di due avversari che per altro; erano armati di un’ascia e di un arco e tre frecce, e queste ultime erano l’ideale per un attacco ma il loro numero esiguo era un problema.

Usando un enorme piatto per le offerte come scudo, Dave uscì allo scoperto per tentare di allontanarli; la prima freccia lo mancò, andando a conficcarsi nello spiazzo erboso dietro di lui, la seconda lo colpì al polpaccio. Infuriato per la ferita, il gigante lanciò il suo scudo, come un disco, contro Tina, l’arciera, colpendola con violenza al volto, all’altezza degli occhi. La terza freccia cadde inutilizzata accanto a lei. Mike corse in suo soccorso brandendo l’ascia ma Dave parò il colpo con la sua mazza; il ferro si immerse nel ferro. Entrambi i combattenti si ritrovarono bloccati dalle loro stesse armi. Nel gioco di forza e tensione che seguì, a trovarsi in svantaggio fu Dave, ferito. Ma l’urlo di Lettice lo rianimò: con un doloroso strattone, mentre la gamba ferita pulsava tremendamente, spinse via da sé Mike, sbloccando le loro armi, e senza neanche dargli il tempo di reagire lo colpì alla testa, ma il colpo non fu né abbastanza forte né abbastanza debole e il ragazzo del 6, mollando la sua ascia, si tenne la testa con le mani, senza la forza di urlare, incapace di capire cosa gli stesse succedendo, cadendo ad ogni movimento e ad ogni passo, e trascinandosi via, lontano da lì.

Senza badare a lui, Dave si voltò giusto in tempo per vedere Tina, che aveva ripreso i sensi, puntare l’ultima freccia rimastagli contro Lettice, aggrappata ad una colonna, paralizzata dal terrore. Senza starci troppo a pensare, Dave colpì Tina alla nuca con la mazza di ferro. Stavolta il colpo fu diretto e deciso e la ragazza cadde senza un grido.

Ferito e stremato, Dave venne aiutato da Lettice a rientrare nel tempio; presero anche lo zaino di Tina dove trovarono una borraccia mezza vuota e ciò che restava di un pacchetto di gallette. Quella sera stessa arrivò loro il dono di uno sponsor. Quando un’entusiasta Lettice gli mostrò una medicina per curare la ferita che la freccia gli aveva procurato, Dave con un moto di rabbia e frustrazione urlò – Date dell’acqua e del cibo a Lettice, maledizione!

Intanto, anche Mike era morto: era stato trovato poco lontano da lì, in quel labirinto di strade, incapace di camminare ed urlare, la testa che ciondolava in ogni direzione, un rivolo di sangue che gli colava dal naso, da Sebastian che gli piantò una lancia nel petto. Così si concluse quella “giornata emozionante”. Non ce ne furono altre. I Tributi sopravvissuti rimasero ognuno per conto proprio. L’unico passatempo per gli spettatori fu assistere all’agonia di Kurt.

Esaurite le sue scorte di cibo e di acqua, incapace di trovarne altre, il Tributo del 2, uno dei Favoriti, si ritrovò a vagare per quel reticolo di strade, aggrappandosi ai muri per non cadere, la gola arsa dalla sete, il corpo tremante e sul punto di collassare per la disidratazione. Qualche sponsor avrebbe potuto aiutarlo se avesse voluto, molti avrebbero potuto aiutarlo. Era bellissimo e alla Cornucopia aveva dimostrato di saper usare le armi… ed era bellissimo. Ma, in assenza di scontri e di combattimenti, vederlo soffrire era uno spettacolo gradito a tutti. L’intera Panem assisté alla distruzione di quel ragazzo che aveva incantato tutti alla cerimonia d’apertura. Le sue labbra rosee si fecero bianche e secche, gli occhi sgranati e rossi, il viso sul punto di sgretolarsi come una foglia secca. Probabilmente gli Strateghi avevano aumentato le temperature apposta per lui. L’unico pianto impotente per Kurt si levò dalla casa di suo padre nel Distretto 2.

Alla fine, stufi del lento andamento di quella edizione, gli Strateghi decisero di chiuderla subito col gran finale da tempo pianificato: la montagna, o meglio il vulcano che sovrastava la copia delle rovine di Pompei eruttò, sputando un denso fumo nero ed una pioggia di cenere e lapilli e pietre vulcaniche, che si riversarono con violenza inaudita sulla zona del tempio, dove Dave e Lettice erano sempre rifugiati; in pochi minuti, oppresso dal peso delle pietre, quell’unico edificio intatto crollò seppellendo sotto di sé entrambi i Tributi del 3; Kurt, che brancolava in quella zona, venne colpito in pieno da una pietra vulcanica che piovve dal cielo a gran velocità e il colpo gli fracassò orrendamente la testa. La zona in cui si trovava Quinn, proprio sotto il vulcano, fu investita da una nube tossica; una delle telecamere a infrarossi riprese a distanza ravvicinata gli ultimi istanti di vita della ragazza, soffocata dai gas sulfurei del vulcano.

Alla fine, rimasero solo due Tributi: Sebastian del 4 e Santana del 7. Gli Hunger Games di quell’anno erano arrivati alla loro conclusione.

Due scie di lava fuoriuscirono da delle spaccature nel vulcano e colarono nelle zone in cui si trovavano Sebastian e Santana. Guidate dalle abili mani degli Strateghi, le due colate di lava guidarono gli ultimi due Tributi, costringendoli a fuggire per non morire bruciati, alla Cornucopia. Giunti lì, le colate si unirono in un anello di fuoco liquido, lasciando i due su un rialzo del terreno. Quando si trovarono l’uno di fronte all’altra capirono di essere giunti alla fine,  solo uno di loro sarebbe rimasto in vita nei successivi minuti.

Sebastian era armato di una lancia; Santana di un machete. Intorno a loro, dietro il cerchio di lava, quella città veniva distrutta una seconda volta dalla pioggia di cenere e lapilli del vulcano. Né gli Strateghi né gli spettatori si sarebbero mai aspettati un finale così d’impatto. Senza aspettare, desiderosi farla finita, comunque fosse andata, si gettarono l’uno contro l’altra, le armi in pugno adesso molto grosse ed ingombranti nello spazio esiguo che era diventata l’Arena. Il tintinnare delle armi che si incontravano si perdeva in mezzo a quell’inferno di tuoni ed esplosioni.

Impacciato dalla lunga asta della lancia, Sebastian venne quasi disarmato dalla sua avversaria, che lo atterrò con un fendente al braccio. Ma proprio mentre Santana stava per assestargli un colpo decisivo, il ragazzo trovò la forza per sollevare nuovamente la lancia che mulinò sulla sua testa in direzione del viso della ragazza, la quale si gettò all’indietro per schivare il colpo ma non fece in tempo. La violenza del colpo la fece cadere di lato, una mano premuta sull’occhio destro dal quale colava una cascata di sangue nerastro; il suo grido rimbombò per tutto lo spazio circostante.

Deciso ad approfittare della situazione, Sebastian si rimise in piedi, il braccio sanguinante che stringeva la lancia; sembrava Achille che sta per sferrare il colpo di grazia a Pentesilea, ma quel guerriero del mare aveva sottovalutato quell’amazzone ferita. Santana, dimenticando il machete accanto a lei, si gettò come una belva sul ragazzo che, spiazzato da quell’attacco inaspettato, non fece in tempo a mettersi sulla difensiva, si ritrovò sotto di lei, accecato dal sangue della ferita da lui stesso inferta che gli bagnava il volto. Batté l’asta della lancia sulla schiena di Santana, non riuscendo a raggiungerla con la lama, ma alla fine mollò l’arma e con le mani libere strinse il collo della ragazza come stava facendo anche lei. Approfittando della sua forza, Sebastian invertì le posizioni trovandosi, così, sul corpo di Santana che stava perdendo sempre di più le forze per la perdita di sangue; ma la voglia di vivere poteva tutto in quella lotta.

Lasciando la sua presa sul collo del ragazzo, Santana decise di tentare un’ultima azione disperata: conficcò con forza le unghie nel volto di Sebastian, una, due, tre volte ed ogni volta gli strappava via un brandello di pelle e di carne finché quei due guerrieri antichi si ridussero a due maschere di sangue urlanti.

Alla fine, chi sembrava sul punto di soccombere, prevalse. Quando furono entrambi allo stremo, Santana, tenendo le unghie nel volto di Sebastian, trascinò quest’ultimo verso di sé, come una donna che desidera baciare il suo amante, e con tutte le forze che le rimanevano, lo spinse via e il ragazzo, accecato dal suo stesso sangue e intontito dalla lotta estenuante, si lasciò andare come una bambola di pezza. Scivolò via dal corpo di Santana finendo nel cerchio di lava; lanciò solo un grido; si agitò per quattro lunghissimi secondi e infine, di lui non rimase che un ceppo increspato e scintillante di vene di fuoco.

Santana non sentì né il cannone che annunciava la morte dell’ultimo Tributo né la voce del presentatore che dichiarava lei vincitrice di quell’edizione degli Hunger Games. Ebbe solo il tempo di fissare, con l’unico occhio che le rimaneva, le sue unghie spaccate e lorde di sangue prima di perdere i sensi.

 

 

LA  VITTORIA

DISTRETTO 7

Alla fine era successo: Santana Lopez aveva vinto gli Hunger Games e… e Capitol City l’aveva fatta diventare una sua creatura. Adesso anche lei non aveva nulla di diverso da quegli esseri grotteschi che popolavano la capitale. L’avevano vestita e truccata e acconciata come loro; le sue unghie erano state ricostruite e smaltate di rosso sangue (avevano riprodotto fedelmente il colore del sangue di Sebastian ed era diventata la nuova moda tra le signore); e la cosa peggiore, nascosta sotto i capelli che le ricadevano ad arte sul viso. Poteva sentirlo al tocco: un liscio e tenero strato di pelle lì dove una volta c’era il suo occhio. Era diventata una bambola artificiale senza un occhio, una statuina rotta intontita dalle medicine somministratele dai medici per tenerla tranquilla. Quel nuovo handicap le era stato utile solo quando avevano mandato in onda la replica degli Hunger Games durante l’intervista finale: aveva potuto far finta di vedere quando, in realtà, davanti aveva solo la macchia di colori del pubblico affiancata al vuoto.

Credeva che gli “onori e la gloria” derivati dalla sua vittoria l’avrebbero fatta sentire meglio, ma si sbagliava. Il diadema era stretto, le faceva male.

Credeva che ritornare nel suo Distretto, rivedere la sua famiglia sarebbe stata la cura migliore… e non fu così. Quando sua madre la strinse a sé, Santana si limitò a fissarsi le unghie artificialmente ricostruite; c’era ancora del sangue lì, nascosto dallo smalto rosso, era lì, poteva vederlo perfettamente. E chissà per quanto tempo ancora sarebbe rimasto impresso lì. Per quanto tempo avrebbe rivissuto quell’incubo ogni volta che vedeva il sangue di qualcuno che si era ferito nella segheria, o che sua madre accendeva il fuoco sul fornellino da cucina, o che per strada si sentivano le urla dei bambini che giocavano.

Non sono un soldato, non ero abituata ad uccidere; ho solo diciassette anni e dei brutti sogni che non mi lasceranno mai. Quella roba che mi hanno somministrata quando mi hanno tirata fuori dall’Arena… come si chiamava? Ah, sì: morfamina. Chissà dove posso procurarmene dell’altra?

 

 

ANCORA  LA  MIETITURA,  UN’ALTRA  EDIZIONE  DEGLI  HUNGER  GAMES

DISTRETTO 12

Venne sorteggiata Primrose Everdeen, di dodici anni. Ma sua sorella maggiore, Katniss, si offrì volontaria al suo posto.

La rivoluzione ebbe inizio in quel momento. La speranza poteva tornare a vivere.

 

 

 

FINE

 

 

Nota dell’autore:

* “Ash Wednesday” di T. S. Eliot. Il verso riportato è uno dei più famosi e mi è rimasto impresso da quando l’ho sentito pronunciato da Carmelo Bene.

 

Ed ho tirato fuori l’ennesima vagonata di dramma, angst, dolore e sangue. Non mi smentisco mai. Ma questa volta non è stata colpa mia, ho solo seguito le indicazioni tracciate dalla signora Collins.

Stavolta l’idea mi è venuta da un pensiero fisso che mi ha torturato durante la lettura di “Catching Fire” e “Mockingjay”: cioè Finnick e Joanna con i volti di Grant Gustin e Naya Rivera. Una cazzata, in poche parole.

Sorvolando sul fatto che, tanto per cambiare, mi è uscita la solita cosa stiracchiata fino all’eccesso, per l’Arena mi sono naturalmente ispirato ad uno dei nostri tesori nazionali: gli schavi di Pompei che ora, purtroppo, stanno andando in rovina a causa della mal gestizione degli enti pubblici, dello stato, della criminalità e dell’indifferenza della gente. Quando si dice: avere il pane ma non avere i denti, e qui mi fermo. Il tempio nel quale si rifugiano Dave e Lettice è il tempio di Iside (http://www.lebellezzeditalia.it/fotografie/foto%20campania/foto_napoli/foto_pompei/tempio_iside.jpg)

Prima di prendere le ascie ed altri oggetti taglienti mortalmente pericolosi, ci tengo a dire che per il momento penso di aver chiuso, non dico con l’angst, ma con le morti violente dei personaggi.

Non voglio fare pronostici per l’avvenire anche perché, andando a vedere le note finali alle precedenti fanfic. e OS non ho mai mantenuto una promessa o perché soffocato da una nuova idea o a causa di altri impegni. Quindi, stavolta non faccio anticipazioni; sappiate solo che sto scrivendo ancora e stavolta non muore nessuno XD

Mi faccio vivo io ; )

Per il resto vi rimando alla mia pagina fb: https://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483 e al mio profilo ask: http://ask.fm/LusioEFP

Ciao e tutti “e possa la buona sorte essere sempre a vostro favore”.

 

Lusio

  
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