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Autore: tomtom    09/08/2013    3 recensioni
1941, Seconda Guerra Mondiale, Galles. Dean Winchester è capitano dell'aviazione americana; lui e i suoi uomini vengono scelti per una missione. Il comando organizza una festa per loro, e questa è la storia di quella serata, e di ciò che avvenne tra l'americano e il capitano della RAF Castiel Novak.
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
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20 gennaio

Questa è una fic che aspettavo di scrivere da quasi un anno: ovviamente essendo la culo pesa che sono non ho combinato nulla fino ad oggi, e mi è servito un viaggio in treno di tre ore per spingermi a buttare giù qualche parola.

Chi conosce Torchwood non avrà problemi a ritrovarsi con le scene della 1x12 “Il capitano Jack Harkness”: la storia segue lo schema della puntata in maniera quasi fedele.

Chi fosse estraneo al mondo di Torchwood, può leggere la fic in tutta tranquillità e considerarla come una AU! Storica, ma no può continuare ad ignorare le avventure del capitano più arrapato della storia della tv; sempre per i profani metto il link ad un video che riassume la puntata: se volete considerarlo “spoiler”, prego, ma è semplicemente un crimine rifiutarsi di vedere una cosa come questa.

 Disclaimer: i personaggi non mi appartengono ç_ç Dean e Castiel non sono miei, così come Torchwood o Supernatural.  Non scrivo a scopo di lucro e mi dispiace se l’OOC offende qualcuno.

Mi dispiace per le imprecisioni nel gergo e nei gradi militari, ma I know shit about it e anche dopo ottocentoventimila ricerche nono sono riuscita ad ottenere qualcosa di diverso dalla confusione più totale…

Ringraziamenti: dovrei erigere un monumento a Olly Murs per aver fornito la colonna sonora *-* Credo di aver abusato della sua Right Place Right Time per una cosa come 57 riproduzioni di seguito.


20 gennaio 1941

 
Il capitano Winchester era stufo di dover trattare con gli inglesi della RAF; come se non bastasse la naturale avversione insita in ogni americano per i propri cugini, ora, a rendere rendere difficile le relazioni tra i due eserciti, ci si erano messi anche superiori impossibilmente arditi e desiderosi di vedere aerei inglesi e americani collaborare in una missione senza speranze, che li avrebbe visti tutti morire.
Incredibilmente, infatti, due ore di riunione per discutere ragionevolmente -questa era la premessa all'incontro-, non erano servite a molto, se non ad aumentare esponenzialmente l'odio dell'americano e fargli venire un mal di testa lancinante; non erano bastati i suoi appunti sulla pericolosità della missione; ogni suo tentativo di instillare un po' di buon senso in quelle teste bacate dei suoi superiori aveva fallito; tutti i suoi sforzi si erano risolti in un nulla di fatto, dal momento che "la gente in alto voleva vedere dei risultati" e nessuno dei presenti all'incontro era disposto a cedere terreno.
Per il biondo capitano potevano anche andarsene all'inferno, loro, con tutto il loro accento disgustoso e la birra scadente.
Così rifletteva l'uomo mentre si serviva dell'ennesimo boccale della suddetta bevanda annacquata che offrivano alla mensa comune della caserma.
Proprio mentre si stava portando la birra alla bocca, una potente pacca alla spalla lo fece trasalire; girandosi, ebbe di fronte il volto sorridente del suo secondo.
«Come va, Winchester?» attaccò in tono amichevole.
L'uomo si ricompose, indossò la maschera di capitano e si schiarì la gola: «per te è capitano Winchester, Barrowman» fece una pausa per gustarsi il momento di mortificazione del suo sottoposto.
«Signorsì, capitano!» rispose questi, salutandolo.
«Rilassati, Barrowmam» disse poco dopo, sorridendo divertito «stavo scherzando, sai quanto odio queste formalità»; il ragazzo si rilassò, concedendosi un'occhiata velenosa che causò un allargamento del sorriso del capitano.
«Tornando alla tua domanda, sono distrutto. Che rimanga tra noi: odio questo posto, gli inglesi e il loro esercito. Mi sembra di dover competere con gente che si prepara ad affrontare una gara di dressage, piuttosto che una guerra!» In un gesto di stizza, si scolò la birra che rimaneva e proseguì «e questa loro birra: un affronto ad ogni persona con un po' di gusto...»
L'exploit del capitano si concluse in un climax discendente, quando l'amarezza prese il posto della rabbia; indicò allora a Barrowman la panca libera dall'altro lato del tavolo, in un chiaro invito a sedersi con lui; perplesso e stupito dalla scena a cui aveva appena assistito, il più giovane si sedette e rimase in attesa del suo capitano.
«Barrowman, non so cosa fare. Vogliono mandarci a morire la prossima settimana: una missione congiunta con quelli della RAF. Una squadra per ogni esercito sarà impiegata per un bombardamento su qualche cittadina del diavolo del Reich» Winchester s'interruppe, per poi riprendere qualche secondo dopo: la voce quasi tremante, ogni precedente astio l'aveva abbandonata «ho provato... Ho provato a farli ragionare: non hanno voluto sentire storie. Dannazione, non sono arrivato fino a questo punto della guerra per vedere i miei uomini, i migliori in tutta l'aviazione, morire in qualche missione suicida. Ho ricordato loro l'esito degli ultimi quattro bombardamenti, mi hanno riso in faccia: hanno detto che per i nostri non sarà che un gioco da ragazzi».
Barrowman tentò - invano- di mascherare l'orrore che quelle rivelazioni avevano appena causato; il suo capitano riuscì a cogliere l'emozione in quello spazio di tempo che il suo secondo impiegò a ricomporsi e l'amarezza gli scivolò in gola, giù, nello stomaco, mentre ingoiava per farsi forza e mantenere la calma.
«Quello che mi disturba è che hanno promesso a tutte le squadre tre giorni di congedo prima di martedì. Come se fossimo così stupidi da non capire: vogliono farci morire felici, gli stronzi!»
Il secondo lo guardò intensamente, come a condividere la rabbia: sarebbe toccato a loro comunicare agli altri le notizie e omettere i rischi che la missione avrebbe comportato.
Quando osservò il guizzo negli occhi di Barrowman, capì che era arrivato anche lui alla sua stessa conclusione: perlomeno loro sarebbero morti in pace.
 
***
 
Quel lunedì, 20 gennaio, il capitano Winchester si trovava in un bar con tutti gli uomini che l'indomani avrebbero preso parte al raid.
Il comando aveva organizzato una festa per loro: il locale era stato addobbato con coccarde dei colori della Union Jack, una band suonava la musica più in voga e il bar offriva bevande ai coraggiosi "eroi" della guerra; non mancavano le donne: tante giovani ragazze, attirate lì dalla pratica tutta inglese dei baci d'addio, sedevano in gruppo negli angoli della sala, lanciando occhiate più o meno innocenti ai militari; speravano tutte che qualche soldato cedesse alle loro ciglia lunghe e alle labbra rosse del rosso che andava di moda quell'anno.
Il biondo sedeva da qualche tempo su uno sgabello presso il bancone: in mano un bicchiere di scotch, il braccio lasciato morbido sulla formica in una posa rilassata; eppure la calma era solo apparente, dentro, l'animo e il cuore dell'uomo erano impegnati in una lotta disturbante con la ragione: l'ansia della missione e la preoccupazione per i suoi uomini facevano a botte con il senso del dovere; il capitano si sentiva infatti il peso di tutte le vite dei suoi commilitoni sulle spalle, temeva  tutta quelle responsabilità che sarebbero derivate dalle sue azioni una volta preso il comando il giorno seguente.
L'uomo fu risparmiato da ulteriori riflessioni dall'arrivo di un altro capitano; questi si sedette sullo sgabello accanto al suo e ordinò uno scotch. L'americano studiò l'inglese -l'altro indossava infatti la divisa della RAF- nelle sue azioni e s'impose di essere amichevole.
«Be', qualcosa di buono alla fine l'avete anche voi» esordì il biondo con nonchalance, gesticolando con il bicchiere semivuoto verso quello appena servito al capitano della RAF «lo scotch vi riesce piuttosto bene».
Il capitano, di cui aveva visto fino a quel momento solo il profilo duro dell'uomo d'azione e i capelli neri insolitamente lunghi, si voltò verso di lui e lo guardò con un paio di occhi blu pieni di nostalgia.
«Già» commentò poveramente, cogliendo di sorpresa l'americano con una voce profonda che faceva a pugni con l'aria di raffinatezza che la sua presenza ispirava.
Prendendo il misero commento come una risposta migliore del silenzio, il biondo partì alla carica, desideroso di intavolare una conversazione con il misterioso inglese.
«Capitano Dean Winchester, aviazione americana, lei sarebbe...?»
L'altro tentennò: lo scrutò con uno sguardo indecifrabile per qualche istante, quindi strinse la mano che gli veniva offerta: «Capitano Castiel Novak, RAF».
«Anche voi siete impegnati nella missione di domani» iniziò allora l'americano, fermandosi per prendere un sorso del suo liquore.
«Nella carneficina vorrà dire.»
Dean si bloccò con il bicchiere a mezz'aria, incrociando gli occhi tristi ma orgogliosi del capitano Novak. Decise in quella frazione di secondo che l'inglese gli piaceva.
Intanto l'inglese, temendo presumibilmente di aver fatto una terribile gaffe, assunse una posizione tesa e fece per aprire nuovamente bocca, quasi certamente per tirarsi fuori dall'increscioso incidente, ma il biondo lo precedette.
«Ben detto, capitano Novak» disse perciò Dean, preoccupandosi di esprimere tutta l'avversità che aveva per quell'incarico «ci mandano a morire e cercano di nascondercelo organizzando feste come questa...»
«Vedo che siamo sulla stessa lunghezza d'onda, capitano Winchester» e lì fece una pausa. «Immagino che anche lei sia stato informato sull'importanza della nostra mission-»
«Stronzate» lo interruppe l'altro, ricominciando ad agitare animosamente il bicchiere di scotch, come a rinforzare il concetto del suo disaccordo «è una missione suicida. Tutti al comando sono a conoscenza dei rischi, eppure, per assecondare qualche perverso desiderio di quei burocrati da quattro soldi che pensano di poter fare la guerra da dietro una scrivania d'ebano, è lecito mandare due squadre di aviatori a morire in una missione inutile!»
Notando di aver attirato l'attenzione di diverse persone con il tono di voce che aveva raggiunto nel momento di fervore, il biondo si ricompose, bevendo con estrema eleganza dal suo bicchiere, e voltandosi come nulla fosse successo verso il suo conversatore.
«Credo, capitan Novak, che nessuno più di lei possa condividere il mio senso d'impotenza. Non posso lasciare che i miei uomini-»
Il moro, che durante tutta la scenata aveva assistito rapito e ammirato, impedì che l'americano potesse concludere quella frase, limitandosi a fare un cenno d'assenso con la testa.
Passarono alcuni minuti prima che uno dei due rompesse il silenzio che era sceso su di loro: le note di un amabilissimo fox troat accompagnarono quei momenti, che furono impiegati da entrambi per assaporare i rispettivi scotch; Novak dovette essersi accorto che il biondo aveva finito il suo, perché fu lui a parlare per primo.
«Capitano, mi permetta di offrirle il prossimo giro» disse con garbo, indicando un tavolo vuoto in un angolo della sala.
L'americano, ormai più che ben disposto nei confronti dell'inglese, fu felice di accettare e seguì l'uomo al tavolo, in mano un bicchiere pieno del liquore ambrato.
Si sedettero e finalmente poterono confrontarsi faccia a faccia; Dean sorrise, nello spirito del cameratismo che si era instaurato tra loro.
«Non mi sembra di averla mai incontrata prima, capitano Novak» fece in tono civettuolo, la solennità della conversazione di poco prima ormai solo un ricordo.
«No, credo proprio di no» esitò nel parlare, forse preso in contropiede dal repentino cambiamento nell'atteggiamento dell'uomo che gli stava davanti «io e i miei uomini siamo stati trasferiti qui dall'Inghilterra la settimana scorsa».
Giusto in tempo per poter morire suicida insieme a loro, pensò Dean, e gli sembrò che quelle stesse parole fossero state sulla punta della lingua del moro, pronte ad uscire; «sono contento che vi siate potuti unire a noi» commentò comunque, la falsità della sentenza palese ad entrambi, eppure un espediente necessario per favorire la conversazione.
«Di dove è lei esattamente, capitano Novak?»
«Sono inglese, sono nato in piccolo villaggio fuori Londra, Rickmansworth. I miei genitori sono a casa, contenti di poter badare ai miei fratelli più piccoli, Michael e Lucifer. Sperano che la guerra finisca prima che possa portar loro via anche quei due».
L'inglese si concesse una pausa, che Dean rispettò.
«Anche io ho un fratello» disse il biondo, cogliendo di sorpresa entrambi: qualcosa in quel capitano Novak sembrava ispirare fiducia al suo subconscio, al punto tale da spingerlo a confessare anche questo.
«Si chiama Sam» proseguì dopo poco, non senza esitazioni «è un genio, dico sul serio. Ha un cervello che sarà la sua fortuna»
Deglutì.
«È solo al penultimo anno della scuola superiore, dice di voler andare a studiare a Stanford, che non gli interessa la guerra»
Un nodo alla gola minacciò di metterlo a tacere, ma l'americano si sforzò di continuare, concentrandosi sul sollievo che un paio d'orecchi disposte ad ascoltarlo gli davano; perciò, con gli occhi fissi sul tavolo e la consapevolezza di essere studiato dall'inglese, riprese il suo discorso.
«Mio padre, ex-marine, ha cercato, in passato, e cerca tuttora di fargli vedere il fascino della vita militare» abbassò la voce, ormai un sussurro «io prego Dio che gli orrori della guerra non raggiungano mai il mio fratellino...»
Una mano esitante gli strinse l'avambraccio, prendendo alla sprovvista Dean, il quale sussultò leggermente e fissò incuriosito il moro.
L'altro tolse la mano e si ritirò al suo posto, evitando lo sguardo dell'americano.
Il biondo lasciò che un sorriso genuino ingentilisse la sua espressione.
«Grazie.»
E lo disse di cuore, sorridendo, dopotutto sollevato dalla prospettiva di aver finalmente trovato un amico.
L'atmosfera tornò leggera -inconsapevolmente Dean doveva aver trattenuto il respiro durante quello scambio di interazione-; ma non fu per molto: infatti, l'uomo non fece in tempo ad assaporare la rilassatezza appena riacquistata, che qualcuno l'interruppe.
Una donna, una ragazza più precisamente, si fermò a loro tavolo.
Il viso, delicato e raffinato, era animato da un'espressione di incertezza e gli occhi, azzurri e limpidi, brillavano di un sentimento indecifrabile; la ragazza era chiaramente interessata al capitano Novak, notò Dean non senza un po' di... stupore? Invidia? Gelosia?
«Capitano Novak...»
Si conoscevano, apparentemente.
«Anna» . 
 
 
 
 
 
 
 
Parte due.
 
 
La ragazza, sentendosi apostrofare con il proprio nome, regalò al capitano un sorriso.
«Allora si ricorda» disse poco dopo, chiaramente sollevata.
L’espressione del capitano in questione  parlò per lui, ovviamente non si sarebbe mai potuto dimenticare di quella donna; Dean avvertì il bisogno di indagare sulla natura della loro relazione.
«Signorina...» fece il biondo.
«Anna, mi chiami Anna»
«Signorina Anna, perché non si unisce a noi?» indicò l’unica sedia vuota del loro tavolo.
Anna sembrò presa in contropiede dalla proposta: arrossì e sorrise lusingata, prendendo posto e ringraziando il militare.
Il capitano Novak non diede cenno di essere infastidito, anzi, l’americano sospettava che la propria mossa gli avesse appena fatto acquistare parecchi punti; l’uomo si limitò ad assistere alla scena con una faccia impassibile.
Dopo che un drink fu stato ordinato per la ragazza, Dean si lanciò nelle presentazioni e avviò la discussione, opportunamente evitando qualsiasi cosa riguardasse il conflitto mondiale.
La conversazione si sviluppò equilibratamente: tutti e tre ebbero modo di esprimersi ed esporsi senza incorrere in battibecchi e imbarazzo; la compagnia era stimolante, e il biondo non poteva fare a meno di stupirsi dell’apertura mentale di entrambi gli inglesi.
Qualche tempo più tardi, l’americano decretò che tra i due doveva esserci qualche sorta di affare amoroso: Anna, infatti, non aveva avuto occhi che per il capitano moro per tutta la buona mezzora che avevano passato a parlare; sembrava incapace di guardare il volto dell’uomo senza arrossire , o indossare un’espressione di grandissima ammirazione; chiaramente pendeva dalle sue labbra; ad ogni intervento che la donna faceva, lei lanciava occhiatine a Novak, come a cercare la sua approvazione, ed esitava se vedeva che l’altro non annuiva.
Il capitano Novak sembrava, d’altra parte, immune o inconsapevole: sempre intento nella discussione, difficilmente aveva ricambiato le attenzioni della ragazza, raramente  l’aveva fissata più a lungo del necessario e mai le aveva regalato un sorriso diverso da quello neutro che una normale interazione richiedeva.
Nel momento in cui sul tavolo scese un silenzio rilassato, Dean si ritrovò a ponderare come agire; la conversazione lo aveva incredibilmente soddisfatto e la possibilità di approfondire la propria conoscenza con il capitano inglese lo aveva arricchito: l’uomo era senza dubbio notevole e non gli sarebbe dispiaciuto averlo come amico, nonché avere più tempo per portare avanti discussioni come questa con lui, magari soli, senza Anna.
Eppure, una piccola vocina nel cervello del biondo continuava a ripetere che quello che aveva appena visto succedere tra i due innamorati, aveva bisogno di una chance: probabilmente il comportamento di Novak era solo dovuto alla forte timidezza che sembrava dominare il suo essere; magari non era uno da concedersi dimostrazioni d’affetto in pubblico; forse la presenza di un pari grado lo aveva inibito.
Questa sera sarebbe stata l’ultima a disposizione della coppia per scoprire le proprie possibilità: sarebbe stato contento l’americano di rinunciare al moro, per fare da cupido e lasciare che i due potessero chiarirsi?
La decisione impegnò Dean diversi minuti e fu a malincuore che alla fine disse: «Signori, credo sia il caso di lasciarvi un po’ di spazio»; ammiccò, fece come per brindare a loro nome e mascherò così la propria malinconia.
Si alzò dal tavolo con un movimento fluido e si concentrò su Novak, congedandosi da questi: «Ci vediamo domani, capitano».
L’altro rispose educatamente, il viso una maschera imperturbabile, lo sguardo curiosamente spento: «a domani, Winchester».
Dean si voltò e andò ad unirsi ad un manipolo composto dai suoi uomini al piano superiore.
«Capitano Winchester» fecero i soldati, mettendosi sull’attenti.
«Tranquilli» disse loro, distrattamente, mentre lanciava un’occhiata al tavolo di Novak e Anna; i due sembravano tesi «allora, ha trovato la donna dei suoi sogni, Jones?»
Il ragazzo trasalì, colto in flagrante mentre adocchiava una bella moretta qualche metro più in là, seduta in un angolo.
Il capitano rise, dimentico per un momento di ciò che li attendeva la mattina.
«Faccia qualcosa, Jones, o le assicuro che il prossimo permesso che  le darò sarà a guerra finita» minacciò scherzando l’americano, causando risatine nel gruppo.
«Capitano, un po’ di scotch?» chiese una voce alle sue spalle mentre si appoggiava alla balaustra di legno per avere una migliore vista sulla sala da ballo.
«Barrowman!» disse, facendosi di lato per accogliere il suo secondo che gli porgeva un bicchiere pieno del liquido ambrato.
Prese lo scotch e ringraziò il ragazzo.
«Che ne pensi della serata?» chiese Dean.
«Ottima festa, il comando non ha badato a spese per la nostra “festa d’addio”» rispose a voce bassa Barrowman, fissando il suo capitano con eloquenza, gli occhi blu accesi di rabbia, nonostante il tono di voce senza particolari inflessioni.
«Già, gran bella festa...» convenne il biondo con amarezza; lo sguardo tornò su Novak: la tensione sembrava essere scemata, i due ora presi in una fitta conversazione.
«Hai trovato qualche inglesina da baciare?» domandò il capitano, deciso a voler cambiare argomento.
«Oh, eccome» disse con voce piena di emozione il più giovane, facendo cenno con il capo in direzione dello stesso tavolo della ragazza di Jones, da dove una ragazza dai capelli rossi era intenta a mangiarsi con gli occhi Barrowman; Dean fischiò, in approvazione: «niente male, ragazzo. Bel colpo!».
«Ci puoi scommettere, capitano!»
«Ti autorizzo a lasciarmi qui, solo come un cane. Va’ da lei e falle conoscere le meraviglie degli uomini di zio Sam».
Il viso di Barrowman s’illuminò in un sorriso, i due si scambiarono uno sguardo d’intesa, e con ciò partì, alla volta della rossa.
Gli uomini della sua squadra lo ingaggiarono allora in una discussione sulla bellezza senza paragoni delle donne americane, inarrivabili e irraggiungibili; per tutto il tempo Dean ringraziò la distrazione –perché in questo consisteva il loro dibattito-, che gli permise di ignorare il senso di solitudine e dimenticarsi per un po’ dell’inglese.
Dovevano essere le dieci, quando la sirena dell’allarme cominciò a suonare, riempiendo il bar delle sue note angosciose: i tedeschi stavano bombardando i cieli.
La musica si interruppe bruscamente e le note dolci degli strumenti furono sostitute dal brusio disordinato e preoccupato di civili e militari; tra tutte, risaltava la voce del proprietario, Bilis Manger, il quale con grande efficienza cominciò subito ad indicare la via al seminterrato.
La confusione di quei momenti coinvolse il biondo a tal punto, che quasi si stupì di ritrovarsi al sicuro, nella cantina insieme a tutti gli altri invitati, essendo stato trasportato lì dalla folla, più che essendoci arrivato consciamente.
L’atmosfera nel seminterrato era tesa: la semi oscurità, l’umidità e l'odore di muffa opprimevano i sensi, il silenzio dei presenti interrotto unicamente dal sibilo delle bombe che cadevano, delle deflagrazioni e delle scosse del terreno qualcosa di insopportabile.
Dean aspettava con tutti gli altri la fine dell’attacco: con le spalle al muro, guardava fuori dall’unica finestrella che dava sul livello della strada; aveva riacquistato lucidità in fretta ed ora la sua mente da genio militare registrava i dati che ogni esplosione forniva, organizzando il tutto in una mappa mentale delle zone colpite.
Era appena arrivato alla conclusione che quasi sicuramente gli aerei dei tedeschi li avrebbero sorvolati senza sganciare bombe, quando un movimento alla sua destra lo distolse dalla sue speculazioni.
Spostando lo sguardo, riconobbe la figura del capitano Novak.
La vista dell’uomo gli provocò un tuffo al cuore e un senso si sollievo: nella commozione generale si era dimenticato del capitano inglese, eppure inconsciamente doveva essere stato in apprensione per lui.
Novak lo fissava, Dean avvertiva il solito sguardo criptico bruciare sul suo volto, mentre lui controllava rapidamente che non fosse ferito; solo quando ebbe finito, e tornò a guardare in faccia il moro, processò l’assenza di Anna al suo fianco.
La perplessità dovette contagiare i suoi lineamenti, perché l’altro uomo si limitò a fare un cenno col capo: era una storia lunga.
Qualcuno decise che era arrivato il momento di alleggerire l’atmosfera, perché la band attaccò a suonare: un po’ in sordina, la voce della cantante, morbida come la seta, intonò “Over the Rainbow” e tutti si rilassarono allo stesso momento; l’americano udì distintamente uno dei suoi uomini, Jones?, parlare, e l’incantesimo fu spezzato, perché la cantina si riempì in fretta di un chiacchiericcio generale.
«Crede che ci colpiranno, Capitano Winchester?» domandò l’inglese, seguendo l’esempio degli altri.
«No, da quanto ho potuto registrare, il bombardamento sembra averci soltanto sfiorato. Con molta probabilità tra cinque minuti le sirene cesseranno di suonare».
Tra i due scese il silenzio.
Dean non capiva quello che stava provando: improvvisamente, rivedere Novak lo aveva tirato su; la malinconia che lo aveva attanagliato in precedenza, quando in compagnia dei suoi uomini, lo aveva finalmente lasciato; la prospettiva di poter passare altro tempo con il capitano inglese aveva cancellato in un battibaleno l’apprensione per le circostanze in cui si trovavano: era stato come se il suo cervello avesse mandato al diavolo la guerra e tutte le altre preoccupazioni.
Come aveva previsto, di lì a poco, le note lamentose delle sirene s'interruppero, e tutti furono autorizzati a tornare nei saloni del bar; unitisi alla folla disordinata e ora euforica di gente, Dean fu schiacciato al fianco dell’inglese. Da così vicino, la solidità di quel corpo, che fino a quel momento aveva solo percepito dalla figura del capitano, gli regalò una sensazione peculiare; il contatto ravvicinato non lo disturbò: l’americano si sentì lungi dal soffocare, e si godette il senso di calma che Novak gli dava; inavvertitamente il biondo pensò che non gli sarebbe dispiaciuto potersi premere contro quel corpo caldo che ispirava sicurezza.
Dopo quest’ultimo pensiero, Dean cercò di darsi un contegno, stendendo un velo pietoso sulle proprie elucubrazioni e mostrandosi imbarazzato nei confronti di Novak per quel contatto che sicuramente nessuno dei due voleva né apprezzava.
Una volta nei pressi della sala da ballo, come rispettando un tacito accordo tra loro, il capitano inglese mosse verso le scale che portavano al primo piano e l’americano lo seguì: Novak guidò entrambi ad un tavolo appartato, praticamente nascosto alla vista di tutti, di cui Dean non era a conoscenza, ma che apprezzò: stranamente la possibilità di poter scambiare in santa pace due parole lo allettava.
Si sedettero sul divanetto, e cominciarono a discutere di piani d’attacco e del malcontento che serpeggiava tra le rispettive squadre.
Un’ora passò in questo modo, interrotta solo dall’inglese, quando si preoccupò di procurare qualcosa da bere per loro, e qualche sporadico silenzio.
A quel punto l’aria nel bar si era fatta carica, pregna dell’elettricità che precede ogni momento clou; di lì a poco la serata di sarebbe conclusa, le coppie appena formate si sarebbero esibite in balli lenti e baci appassionati; chi non aveva ancora trovato il proprio partner doveva fare in fretta.
Fu così che l’americano decise di darsi una mossa: chiaramente influenzato dall’atmosfera incalzante, bevve un po’ di coraggio liquido, posò il bicchiere, il quale produsse un suono che sembrava anch’esso definitivo e parlò: «Capitano, se posso chiedere, dov’è Anna?»
L’uomo, che fino a quel momento aveva goduto della pausa, rimanendo seduto contro lo schienale, apprezzando la musica, s’irrigidì: allungò la mano verso il proprio bicchiere e cominciò a giocherellare nervosamente con questo, evitando lo sguardo dell’americano.
«Io e Anna abbiamo avuto delle... divergenze»
Dean si limitò a commentare con un “mh”, chiaramente insoddisfatto dall’imprecisione dell’altro; qualcosa nel suo petto prese a fare le capriole.
Passarono alcuni istanti.
«Ci siamo conosciuti all’inizio della settimana, lei diceva di essere innamorata» riprese allora Novak, alzando lo sguardo e fissandolo in quello del biondo, il quale stava registrando una strana morsa allo stomaco.
«Le ho detto che stava commettendo un errore cercando il mio amore» la voce del capitano si ruppe e questi tentennò.
Questa volta fu il turno di Dean di pendere dalla labbra del moro.
«Le ho fatto capire che avrebbe avuto solo delusioni da una relazione tra noi» aggiunse con voce indecifrabile.
Winchester si sentì ancora più strano.
«Mi ha accusato di essere crudele per non voler concedere ad entrambi una opportunità»
Dean si sentì avvampare, animato da una subitanea repulsione per la ragazza.
«Perciò le ho confessato che le sue attenzioni non mi interessavano».
Ci fu un momento di stasi, che il biondo impiegò per metabolizzare quelle parole.
«Ma io credevo ch-»
Le parole gli morirono in bocca quando sentì una mano, calda, quasi bollente, stringere esitante la sua; Dean si pietrificò all’istante, incapace di muovere un solo muscolo e processare ciò che stava sentendo e provando.
Qualcosa di incredibile stava passando per la testa dell’americano: preso in contropiede dalla mossa, non riusciva a capire; una parte di Dean sobbalzò, spaventato, incerto:non apparteneva a quel... genere di uomini. Sì, ne aveva visti e conosciuti, ma, no, lui non...
D’altro canto, nel tempo di quella breve serata, il capitano Castiel Novak si era scavato una breccia nel muro che l’americano aveva posto a difesa di se stesso; l’uomo era stato capace di affascinarlo, interessarlo, rassicurarlo: poteva essere che...?
Evidentemente la mancanza di una risposta da parte del biondo dovette scoraggiare l’inglese, il quale lasciò la presa come scottato, sbrigandosi a mettere diversi centimetri di distanza tra loro.
Il fuoco che bruciava nel petto, nel viso e nella testa di Dean avvampò; il desiderio urgente di allungare la mano e raggiungere quella di Novak lo assalì con prepotenza, rischiando di stordirlo.
L’americano seguì l’istinto e sfiorò in un tocco velocissimo le nocche della mano chiusa che il moro ora teneva vicino a sé.
Novak lo guardò: gli occhi blu brillarono intensamente, parlando al suo posto.
Il biondo si convinse ad approfondire il contatto, forzò quel pugno chiuso con facilità, il proprietario troppo stupito per fare resistenza; intrecciò le loro dita insieme; Dean si godette la sensazione delle mani ruvide contro le sue: il calore mandava piccole scariche lungo tutto il suo braccio, causando la perdita di diversi battiti; la consapevolezza di stare rischiando gli faceva martellare il cuore nelle orecchie; la novità della situazione un concetto ancora non processabile; in testa la crescente convinzione di aver fatto la cosa giusta, di volere tutto quello, andava vincendo quella parte di lui che trovava il contatto sconosciuto e spaventoso.
Il moro fece per parlare, ma fu interrotto dall’arrivo di una coppia, di poco anticipati dalle loro risatine eccitate.
«Oh!» esclamarono insieme, non avendo previsto che qualcuno potesse averli preceduti.
In un attimo Dean mollò la presa. Sentendosi avvampare in viso, si schiarì rumorosamente la voce e si alzò in piedi, tentando di recuperare una qualsivoglia traccia di normalità e ordinandosi categoricamente di non guardare in direzione di Castiel.
I nuovi arrivati parevano ignari di ciò che era appena avvenuto tra i due capitani, e l’americano accolse la realizzazione con sollievo.
La donna, impaziente, li esortò a lasciare il tavolo, ignorando volutamente il grado degli uomini che le stavano davanti: «Ci serve l’angolo degli innamorati!»
Dean colse l’occasione per battere ritirata, nel cuore ancora l’esaltazione e l’adrenalina e in gola l’amaro e la vergogna per come aveva gestito e stava gestendo la situazione.
«Ve lo lasciamo a voi, il capitano Novak ed io stavo solo discutendo dei piani per domani» si giustificò l’americano, facendosi quasi violenza per reprimere la stretta al cuore che aveva percepito alle parole della donna.
«Sì» convenne il moro mestamente e si alzò «troveremo un altro posto» disse, praticamente pregando Dean di continuare la loro “discussione”.
«No, va bene così, capitano» disse il biondo e con questo fuggì per le scale, non degnando nemmeno di uno sguardo l’altro.
 
* * *
 
Dean si sedette ad un tavolo e poco dopo fu raggiunto da Barrowman.
Il primo, preso e perso nei propri pensieri trovò quasi fastidioso il buonumore del ragazzo, il quale gli confessò di essersi seduto lì solo perché la ragazza era andata in bagno “ad incipriarsi il naso”.
«Capitano, che succede?» domandò quando si accorse dell'atteggiamento distaccato con il quale Dean aveva appreso le fantastiche cose che Barrowman e la sua gentil dama avevano fatto fino a quel momento.
Il biondo tremò internamente, vicino alla sopraffazione; era sul punto di crollare.
Ormai la confusione che stava provando gli aveva causato un mal di testa spettacolare; la stanchezza di una giornata così piena era sopraggiunta tutta insieme per presentare il conto e come se non bastasse il suo secondo in comando doveva mettersi a sbandierargli sotto il naso le prodezze della sua serata.
«Niente, Barrowman» si limitò a rispondere, realizzando troppo tardi che dicendo così si sarebbe procurato ancora più male.
Sprofondava nel rimorso.
Il dispiacere premeva perché parlasse, si sfogasse, desse voce alle sue paure.
No, non avrebbe coinvolto Barrowman: poteva essere un amico, ma non avrebbe mai capito.
«Torna dalla tua ragazza» lo invitò perciò, simulando malamente un sorriso che non avrebbe ingannato nessuno, per di più una persona così acuta e vicina a lui come il ragazzo che aveva davanti.
La conferma a tanta intelligenza e sensibilità arrivò subito dopo, quando John Barrowman si comportò da uomo e finse di credere alle sue balle, regalandogli una pacca sulla spalla e un cordiale “signorsì”.
Dean tornò ad annegare nel suo tormento da solo.
Quello che era successo lo aveva sconvolto dentro, nelle fondamenta: all'improvviso non era più sicuro di nulla.
Nella vita aveva sempre creduto di avere delle certezze, era convinto di aver fissato con cura alcuni paletti; di certo non era mai stato interessato ad un uomo, né si era mai immaginato di poterlo fare. Si sentiva stupido, e anche tremendamente, per aver anche solo dubitato dei sentimenti che avevano guidato le azioni di Castiel, prima, e, in seguito, le sue; eppure non poteva che continuare a preoccuparsi per le conseguenze di tutto ciò: la società rifiutava gente come il capitano inglese, l'esercito anche di più; era naturale, tentava di convincersi, avere paura per le implicazioni dei loro gesti.
Questo gli diceva la logica.
La coscienza la sapeva lunga, invece.
Messa in questo modo, sembrava facile, quasi fattibile e ragionevole giustificarlo, ma ovviamente non poteva essere così: mentre pensava all'abominio che la società credeva essere l'omosessualità, Dean si sentiva rodere dal senso di colpa.
Si sentiva un verme, un essere viscido: come poteva nascondere dietro a banalità simili la genuinità di quelle emozioni che aveva provato? Come poteva far finta di non aver provato? Come poter dimenticare? Si trattava di un torto enorme nei confronti della propria persona. E di quella del capitano Castiel Novak.
Dove diavolo doveva metterla la sensazione di sicurezza che quell'uomo gli dava? Dove la fiducia? Dove l'attrazione?
Molti l'avrebbero reputato matto, l'avrebbero rinchiuso in un sanatorio mentale: innamorarsi di un uomo, nel tempo di una serata? Bah, doveva stare allucinando, ecco l'unica spiegazione plausibile.
Magari quelle storie sul colpo di fulmine erano vere però... Forse era destino, pensava Dean.
E poi si bloccò.
Scoccò la mezzanotte e la bolla in cui si era isolato fu scoppiata dai rintocchi solenni dell'orologio a pendolo della sala da ballo; voci euforiche e schiamazzi gli riempirono le orecchie, le coppie si riversarono in pista.
Ogni rintocco sembrava avvicinarlo concretamente al patibolo; la sensazione di essere un condannato a morte tornò ad impadronirsi di lui per la prima volta dopo che all'inizio serata la compagnia di Castiel lo aveva liberato da tale preoccupazione.
Il giorno era arrivato.
Quella stessa mattina, in poche ore, sarebbero partiti per quella stramaledettissima missione. Sarebbero morti. I suoi uomini. Lui. Castiel.
Un dolore insopportabile gli attanagliò lo stomaco: lottò per tornare a respirare correttamente, mentre non poté nulla contro gli occhi, che cominciarono a riempirsi di lacrime.
Azzardò un'occhiata verso il punto in cui sapeva essere il capitano inglese.
L'uomo era in un angolo, lo stava guardando, negli occhi il riflesso della disperazione di Dean.
Il biondo deglutì, cercando di calmarsi, e distolse lo sguardo.
No, non poteva finire così, non poteva lasciare che andasse così, no-
«Dean»
Il cuore perse un battito.
L'uomo alzò gli occhi per vedersi riempire la visuale dalla figura elegante di Castiel che gli porgeva una mano.
Dean esitò. Si trattava della decisione di una vita.
In un momento di coraggio afferrò la mano che gli veniva offerta e si lasciò guidare dal capitano inglese per la seconda volta quella sera.
Castiel lo portò al centro della sala: la musica del lento li avvolse immediatamente, alienandoli da tutto ciò che non fosse l'altro; perciò Dean non registrò le occhiate, lo stupore e l'incredulità dei presenti.
Le braccia del moro lo avvolsero, stringendolo a sé; l'americano si godette il senso di pace, la totale soddisfazione che quel contatto intimo gli davano: per una volta nella vita si sentiva nel posto giusto.
Dean accostò il viso al collo dell'inglese, inspirando avidamente l'odore che era Castiel, rabbrividendo quando sentì distintamente sospirare vicino al suo orecchio.
«Dean»
Il cuore dell'uomo esplose.
Si aggrappò al bavero dell'uniforme del moro e lo attrasse a sé in un bacio.
Le labbra si trovarono e si unirono: disordinatamente si baciarono, la passione e la disperazione precluse loro la finezza e il romanticismo.
C'era urgenza in quel contatto, c'era la consapevolezza che non avrebbero mai avuto un'altra occasione, c'era il bisogno di far capire a l'altro l'intensità della fiamma che portava il nome dell'altro e che stava avendo la meglio su tutti i sensi.
Ansimarono nel bacio, si scambiarono l'ossigeno.
E poi si separarono: le ultime note della canzone li traghettarono nuovamente nella realtà della festa.
Deliberatamente ignorarono il pubblico che li circondava.
I due si sostennero lo sguardo a vicenda, comunicando con gli occhi parole e sentimenti che non avrebbero mai avuto voce altrimenti.
Dean capì che doveva andare, che questo era il suo bacio d'addio: nessuno dei due era così ingenuo da credere che sarebbero sopravvissuti alla missione.
«Cas» sussurrò.
L'americano salutò il capitano inglese che aveva davanti e chiuse gli occhi, erigendo una diga immaginaria per arginare il fiume di emozioni che provò in quell'istante.
L'uomo, con le lacrime agli occhi, rispose, bellissimo e fiero nella posa marziale.
«Addio»
E così il capitano Dean Winchester girò i tacchi e uscì dal locale, risoluto nell'incedere e pronto a morire, andando incontro al proprio destino a testa alta.

FINE


Cara stronzona questa è tua: per una volta non vendo sogni, ma solide realtà :’D



   
 
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