Lonely Day
“Breve one-shot sui pensieri di Todd Anderson, quando nessuno lo guarda.
Il giorno più
triste della sua vita, descritto sulle note dei System of a Down.
Niente slash, solo amicizia. Quella vera, quella profonda.”
Todd corre sulla neve fresca, mettendo ad ogni
passo sempre più distanza tra sé e i suoi compagni.
Solo pochi minuti
prima –ma sembrano già passati giorni- Charlie l’ha
svegliato nel cuore della notte, gli occhi rigati dalle lacrime e la voce
spezzata.
Todd aveva blaterato qualcosa di insensato, come
se bastasse un ‘Charlie no…’ a far desistere Charlie Dalton dai suoi propositi –qualsiasi essi fossero-
e si era girato dall’altra parte.
Ma quando Charlie l’aveva costretto nuovamente a girarsi, aveva
notato gli occhi scuri del ragazzo macchiati di lacrime; sulla porta Meeks, Knox e Gerard
attendevano.
Le loro espressioni
erano vuote; Pitts stava appeso alla porta come se si
aggrappasse all’unico qualcosa di reale rimasto nel suo mondo.
Todd aveva guardato Charlie,
che aveva trattenuto i singhiozzi quel tanto che bastava per dirgli –senza giri
di parole- che Neil era morto.
“Neil
è morto”
Aveva detto Charlie Dalton, qualche minuto prima, al caldo della stanza
che fino a quel giorno aveva diviso con lui, e che ora avrebbe vissuto da solo.
Todd ci aveva messo un po’ a realizzarlo.
Come poteva Neil Perry essere morto?
Il Neil solare, ribelle, scanzonato? Il Neil
che aveva sempre avuto una buona parola per lui, il ragazzo moro che li aveva
trascinati tutti in quell’avventura, solo perché
aveva voluto crederci?
Quel
Neil era morto?
Morto.
Gli era sembrata una
parola senza senso, mentre infilava il giubbotto e correva in giardino, insieme
agli altri.
Non riusciva a
realizzare la situazione.
‘Neil
è morto’ gli sembrava solo una frase come le tante
che vengono pronunciate ogni giorno; vuota di significato e inutile.
Ma poi, col vento
freddo che gli sferzava il viso e la neve che gli bagnava i capelli, quella
frase aveva finalmente assunto un senso.
Neil era morto. Morto.
Nessuno avrebbe recitato
Sogno di una notte di mezza estate in piena notte, saltando sul letto
dall’emozione.
Nessuno l’avrebbe
svegliato di mattina presto, solo per tirarlo a vedere l’alba.
Nessuno l’avrebbe
guardato con quel sorriso, gli avrebbe infuso coraggio; e chi gli avrebbe fatto
lanciare giù da un terrazzo il prossimo set da scrittoio?
Todd arranca e cade, si riempie di neve e si
rialza, grato che i suoi compagni non lo seguano.
Arriva fino a quel
campo da calcio dove John Keating
ha fatto loro calciare palloni recitando poesie.
Sembrano passate
intere vite da allora.
Todd si lascia cadere seduto sulle posticce
gradinate di legno, senza curarsi nemmeno di fare via la neve.
Guarda diritto
davanti a sé, la coltrina bianca che ricopre tutto
fino al boschetto; manipolo di soldati verdi spruzzati di bianco.
Si asciuga malamente le lacrime con il dorso della mano.
“VAFFANCULO, NEIL!”
grida al campo di calcio. Il vento disperde la sua voce insieme alla neve.
I singhiozzi
diventano incontrollabili e Todd si sprofonda la testa
tra le mani.
“Vaffanculo, Neil” ripete, questa volta a bassa voce. Questa volta in un
sussurro rotto dal pianto.
Gli sembra quasi che
Neil, si sia ucciso solo per fare un torto a lui.
Per lasciarlo da
solo.
Deve a Neil, se è riuscito a tirare fuori la sua voce!
Forse Keating ha fatto la parte più grossa, gli ha dato l’imput.
Ma se non ci fosse
stato Neil, con i suoi sorrisi e con la sua
determinazione, Todd sarebbe sempre rimasto il
ragazzo con l’aria di uno che dorme, che era arrivato a scuola mesi prima.
Aveva trovato sé
stesso, quasi solo per compiacere Neil.
Aveva trovato sé
stesso, quasi solo grazie a Neil.
E ora Neil lo lasciava solo.
“Neil?”
pensa con intensità, alzando il viso e puntandolo nuovamente sugli alberi
all’orizzonte “Vaffanculo”
“Ti voglio bene
anch’io, Todd” gli risponde la voce di Neil Perry, proveniente forse dal
vento o forse dal suo stesso animo.
Singhiozza ancora
più forte, Todd Anderson,
mentre la tempesta di neve infuria.