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Autore: GiuliaSke    27/08/2013    2 recensioni
Tra le strade di Londra si aggira un pericoloso assassino, che miete le sue vittime in un modo tanto agghiacciante quanto particolare...
«Non ce la faremo mai.» Ansimò il più basso dei due, che nonostante fosse abituato a corse disperate come quella in atto, aveva il cuore in gola e i muscoli indolenziti. [...] Un tono squarciò il cielo grigio ed uniforme una figura scura si distinse nettamente dalla fonte improvvisa di luce. Sherlock si era completamente accostato come un’ombra alla parete di mattoni, con il volto di profilo solcato da piccole gocce. [...] Poi si avvicinò cautamente al suo orecchio e gli bisbiglio due parole: «È qui.»
Genere: Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Sherlock Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo 1


Pioveva.
L’acqua scrosciava con una tale intensità sulle strade ciottolate dei bassifondi che ogni altro rumore in quella zona sembrava inesistenze, come lavato via da quell’incessante ed improvvisa cascata che ricopriva tutta la città.
Una cascata che non solo attutiva i suoni di quel centro solitamente brulicante di vita,ma che offuscava anche il paesaggio con sottili gocce di pioggia che cadevano fitte.
L’unico suono che persisteva ritmicamente nei silenziosi vicoli, quella sera, era il ciak-ciak di passi prodotti da due uomini che correvano a perdifiato per le strade, incuranti della pioggia e bagnati fradici. Non solo per il mal tempo.
Anche se non ci fosse stata la pioggia, i loro abiti sarebbero stati comunque zuppi, avrebbero avuto la fronte imperlata di sudore e un’agitazione nel raggiungere il loro scopo che li avrebbe ridotti perfino peggio di così.

Correvano ormai da un’ora abbondante lungo strade, scorciatoie, vicoli, addirittura balconi e tutto senza fermarsi più di qualche secondo per decidere la nuova direzione da prendere.

«Non ce la faremo mai.» Ansimò il più basso dei due, che nonostante fosse abituato a corse disperate come quella in atto, aveva il cuore in gola e i muscoli indolenziti. Non sapeva per quanto ancora sarebbe resistito prima di accasciarsi a terra distrutto, coi polmoni in fiamme e la testa immersa in una pozzanghera; ma il solo pensiero di essere battuto in tenacia dalla giovane figura slanciata che sgambettava a buon passo davanti a lui lo mandava avanti, tirandogli fuori tutta la forza da combattente che aveva ancora in corpo.

Il suo compare era altrettanto provato dallo sforzo fisico: il suo torace si muoveva ininterrottamente, gli bruciava la gola dalla fatica e la pioggia non faceva che complicare l’impresa. L’unica differenza era che non ci badava, non gli importava nulla dei dolori fisici, mentre gli era di fondamentale importanza focalizzarsi sull’obiettivo e concentrare la mente. Tutto il resto era irrilevante, finché respirava ancora.

«Se la smettessi di lamentarti, correresti al mio passo e ce la faremo.» Replicò seccato con voce rauca, mentre il suo lungo cappotto nero svolazzava inzuppato davanti agli occhi del secondo.

Arrogante figlio di... Si trattenne nel pensare il biondo, stringendo i denti, mentre continuava a seguirlo, affrettando il passo con la vaga idea di agguantare il suo compagno e terminare quella torturante attività.

Di colpo la magra figura in nero si fermò all’angolo di una via meno lugubre, con balconi e pareti modestamente curati e sgocciolanti, differenti dalle case vecchie edecadenti che i due compari avevano appena passato durante la corsa.
Al biondo parevano essere passati solo una manciata di minuti da quando, dopo aver scavalcato un recinto in rovina, si erano trovati nelle vie più malconce che non avrebbe mai pensato di vedere in tutta Londra: case sgualcite, porte e finestre serrate da asse di legno, balconi che ospitavano relitti di vecchi abitanti e sporcizia. C'erano dei cumuli di spazzatura riposta in sacchi di plastica oscurata, abbandonata lungo i cigli della strada, che creavano montagne fetide tra cui poteva benissimo nascondersi un cadavere. Aveva rischiato addirittura di inciampare su uno di quei composti maleodoranti e di perdere l’equilibrio cadendo a terra. Si ritrovò a riflettere che per quanto ai suoi occhi e al suo olfatto fossero un insulto ad una moderna cittadina inglese, per altri esseri viventi come ratti e blatte erano come oasi di benessere incontrastabile.
«Sherlock, è tutto ok?» Chiese senza fiato appoggiandosi contro al muro dove il suo amico si era paralizzato all’improvviso, come se fosse puntato da un cecchino o giunto in un campo minato. In ogni caso accolse il momento con sollievo, approfittandone per riprendere finalmente fiato.
«Shh John... » Mormorò in modo brusco Sherlock acquattandosi contro il muro su cui il secondo era appoggiato, aguzzando l’udito. Si era completamente accostato come un’ombra alla parete di mattoni, con il volto di profilo solcato da piccole gocce. Aveva un ricciolo che gli scendeva a lato del setto nasale,che gocciolava lungo la sua guancia rosea dalla corsa; ma lui non sembrava far caso a quel disturbo sensoriale. Era concentrato. Letteralmente preso da qualcosa che l’aveva colpito in quell’instante.
Se John avesse voluto scegliere un'unica parola per poterlo descrivere avrebbe detto “predatore”.

Le sua mani coperte da lucidi guanti di pelle nera gli indicarono, con un gesto breve, un punto sopra le loro teste. John seguì con lo sguardo il suo indice affusolato, ma non vedendo nulla a causa del balcone sotto cui erano appostati, si avvicinò al compare sperando di raggiungere lo stesso punto di vista sporgendosi; ma il suo braccio lo bloccò in anticipo riappoggiandolo al muro. Poi si avvicinò cautamente al suo orecchio e gli bisbiglio due parole: «È qui.»

Un tono squarciò il cielo grigio ed uniforme sopra le loro teste e una figura scura si distinse nettamente dalla fonte improvvisa di luce. Stava sgattaiolando sul tetto sotto, o meglio sopra, al loro naso come un gatto: aveva un’agilità innata considerando la distanza tra il balcone e la grondaia dell’edificio su cui si era arrampicato e una resistenza notevole per avere ancora tali forze dopo l’inseguimento ostinato da parte loro. Inoltre doveva avere anche un grande coraggio a fidarsi nel muoversi velocemente sopra tegole bagnate e instabili. L’istinto di farla franca primeggiava su tutto.
Sherlock dopo una tale svista da parte del fuggitivo partì di scatto verso la via sottostante che probabilmente l’uomo percorreva a grandi passi dal tetto; John sfilò fuori dall’orlo della cintura la sua pistola, caricandola, e prendendo un respiro profondo si precipitò a seguire il suo compagno con determinazione. Si sentiva esattamente come in una missione in Afghanistan, in quei tempi lontani e miserevoli. Con l’adrenalina in corpo che scoppietta festante sotto la pelle e una contrastante carica di tensione.
Il giovane detective seguiva come un segugio il fuggitivo tracciando mentalmente tutte le possibili direzioni che avrebbe preso per scampare dalla loro mani: i tetti possono essere un rifugio irraggiungibile, più facili da percorrere rispetto alle vie di strada; ma hanno lo svantaggio di renderti esposto, instabile e di portarti presto verso una scappatoia fatale.
Sherlock seguiva le sue congetture infallibili sfrecciando per i vicoli silenziosamente, dimenticandosi di John, rimasto indietro di parecchi metri. Tutta la sua attenzione era concentrata sui rumori delle scarpe che sfregavano le tegole bagnate, sul tragitto delle gocce che cambiavanoa seconda della posizione del ricercato e sugli ostacoli che potevano intralciare quella vittoria ormai in pugno.
John, perdendo di vista il detective lanciò un’imprecazione nervosa e fermandosi qualche minuto per pietà dei suoi polmoni, cercò di riordinare le idee. Tenendo sempre l’arma pronta, con circospezione, seguì la strada davanti a sé sperando che fosse la stessa presa dal suo compare. Ad ogni passo in più che faceva verso quelle vie deserte si biasimava di averlo ancora una volta seguito in queste imprese folli. Ancora una volta era ceduto a una richiesta di aiuto da quell’esasperante testa folta di riccioli, che ogni volta puntualmente lo tralasciava indietro come se non esistesse neanche, abbandonandolo al suo destino come un cane randagio. Un concetto di “bisogno d’aiuto” unico che calza perfettamente al soggetto.

Il medico deviò la sua corsa girando ad una stradina in prossimità di una casa da cui aveva sentito dei rumori diversi dallo scrosciare della pioggia. Sembrava che si stesse spostando qualcosa di metallico e John lo collegò alla grondaia: dedusse che il fuggitivo stava scendendo dalla sua postazione attraverso il tubo del cornicione e le fenditure di mattoni dell’abitazione.
Da soldato in guardia si acquattò alla parete adiacente al muro in cui si trovava il bersaglio, dove i rumori di passi e di qualcuno che armeggiava per farsi strada si accentuavano.
Sbirciò con la coda dell’occhio la posizione dell’uomo per trargli un’imboscata: si trovava a un metro abbondante di distanza, impegnato a smuovere furtivamente una cassa di legno posto all’angolo, da cui probabilmente stava scendendo. Indossava un cappello di lana grigio e aveva una pistola con se, infilata nella tasca dei pantaloni: doveva muoversi con decisione e prontezza.
Si asciugò la fronte bagnata, stabilizzò il respiro.
«Non ti muovere! O te ne pentirai.» Dichiarò in tono risoluto uscendo allo scoperto con la sua Glock 17 puntata a distanza alla schiena del fuggitivo.

Con la stessa impetuosità con cui il soldato entrò in battaglia, il nemico cercò di estrarre la sua pistola, ma captando il movimento della mano alla vita, John si lanciò sul criminale gettandolo a terra con un tonfo. Egli gemette per il dolore alla schiena e si oppose con tutte le sue forze all’arresto del soldato che cercava di immobilizzarlo e allontanargli l’arma dalle sue mani.
Quando finalmente riuscì a voltarlo sulla schiena e a tenerlo saldo per le braccia, aveva di nuovo il fiatone, insieme al ricercato affaticato e indolenzito sulla superficie dell’asfalto madido.
«John!» Rimbombò la voce allarmata e profonda di Sherlock nel vicolo cieco, prima che comparisse a passi veloci in tutta la sua irrompente immagine;
«Non ti preoccupare, sono riuscito a prenderlo.» Disse il dottore con una lieve punta di orgoglio, facendo alzare da terra il prigioniero.
Sherlock gli lanciò un’occhiata sorpresa, poi diresse lo sguardo verso al terzo uomo retto dall’amico ed acquisì un’espressione insoddisfatta.
In un primo momento pensò fosse per il rammarico e l’invidia di non essere riuscito a incastrarlo prima del “l’idiota John Watson”, e provò grande soddisfazione all’avergli guastato la festa; ma quando aggrottò le sopracciglia tendendo le labbra in una lieve smorfia comprese che si stava sbagliando di grosso.
«Non è il nostro uomo.»

«Cosa?!» Esclamò allibito il dottore. Poi si lasciò sfuggire una risata isterica: «Senti Sherlock, non devi negare l’evidenza solo perché …»
«No John, non capisci.» Lo interruppe irritato. Non credeva che il suo coinquilino potesse definirlo così tanto infantile. «Quest’uomo non può essere la stessa persona che abbiamo rincorso fin’ora. Guardagli le scarpe: ha a malapena tracce di fango sulle suole. Deve essere giunto qui da non poco più di mezz’ora o rimasto nei paraggi. Se avesse anche solo attraversato i quartieri di  tre isolati fa avrebbe persino i pantaloni coperti di sporcizia.»
«Ma… l’ho visto scendere dal tetto… » Tentò di nuovo John in difesa della sua impresa, indicando l’angolo dove poco prima agiva indisturbato l’individuo.
«No John, hai visto quello che volevi vedere. Se si fosse arrampicato sul tetto e poi sceso attraverso la grondaia avrebbe briciole di tegole anche nei calzini e ruggine sulle maniche.» Rispose squadrando da cima a fondo il ragazzo; «Inoltre, se usassi un minimo il tuo apparato celebrale invece di portarlo solo a spasso, noteresti che è decisamente più esile e basso di tre centimetri.» Terminò Sherlock seccato da quell’ovvietà non colta dal suo collega.
«Non saresti mai riuscito a fermare il nostro uomo con un placcaggio, John.»

Il medico si sentì frustato e irritato dalle parole acide di Sherlock e dalla fatica inutile sprecata per la persona sbagliata. Guardando con attenzione i dettagli che il detective aveva elencato non poté che arrendersi all’evidenza: le suole e i pantaloni erano decisamente bagnate, ma non infangate. Non vi era nessuna traccia né di ruggine né di polvere. Era pulito da ogni prova di accusa.

Rendendosi conto di aver aggredito ingiustamente un’innocente, John rallentò la presa e levò le mani dal ragazzo, come se al contatto con il suo corpo bagnato si fosse contrariamente scottato. A sua volta la vittima si scostò dal medico scosso, sgranchendosi le braccia e indietreggiando dai bizzarri individui che l’avevano attaccato. Aveva un’espressione stravolta e spaesata, tanto da non sembrare desideroso di fuggire da quel vicolo e dagli aggressori: indietreggiò verso la cassa e si sedette guardando a terra, mantenendo il suo silenzio.

John guardò Sherlock afflitto, mentre lui continuava a girare per quella via senza pace, cupo in viso, come pronto ad esplodere.
«L’avevo in pugno, lo stavo seguendo a pari passo sapendo le sue mosse!» Sherlock si fermò davanti a John, si mise le mani nei capelli bagnati e chiuse gli occhi: «Shackleweel lane, a seguito la direzione verso Perch street, ha cambiato edificio all’imbocco di April street, ma poi è tornato indietro credendo di depistarmi... non è stato solo il tonfo della tua zuffa ad avermi portato qui: avrebbe dovuto scendere in questo strada. Ma è fuggito. Scomparso!»
Il suo coinquilino rimase ad osservarlo in silenzio stupito da quanto stava lavorando veloce col suo ingegno, adirato: aveva calcolato le possibili strade che un disperato nella corsa poteva prendere. Mentre lui aveva atterrato l’uomo sbagliato.

«Che facciamo ora?» Chiese John sospirando stanco. Non ne poteva più di questa storia ne’ della pioggia incessante.
Sherlock riacquistò la sua calma, l’espressione neutra ed inscrutabile di sempre mentre osservava ancora una volta lo sconosciuto, con sguardo analitico;
«Abbiamo perso inspiegabilmente il nostro obiettivo ma abbiamo un altro misterioso cittadino che si aggira per queste vie secondarie senza ombrello,ma armato di una pistola...» Disse lentamente il detective avanzando verso il terzo soggetto e fermandosi, con le mani dietro la schiena, davanti a lui.
«Qual è il tuo nome.»

L’individuo deglutì senza ricambiare lo sguardo bruciante del giovane riccioluto, e si alzò sfilando dalla tasca del giaccone degli occhiali, nascondendo dietro a quella montatura grossa i suoi occhi tentennanti e tesi. La barba sottile che gli contornava il viso squadrato sgocciolava con la pioggia e dalle sue labbra sottili uscì un’inaspettata voce distinta,ma flebile come pronta a spezzarsi.

«Mi chiamo Will. Will Graham.»
 
  
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