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Autore: Amens Ophelia    02/09/2013    3 recensioni
"Tredici anni, una katana insanguinata che premeva sulla schiena, che nessuno aveva il coraggio di affondargli nel petto.
Tredici anni, infiniti spasimi affrontati ed evitati, ma la ferita più dolorosa che avrebbe subìto si chiamava destino; Itachi era solo in attesa del suo fato.
Tredici anni, e già il sapore della morte ottenebrava i suoi sensi. Non aveva scelto lui cosa farne della sua vita, se mai la sua era stata un’esistenza".
***
Itachi contro il nome Uchiha, contro se stesso e ciò che è stato costretto a diventare. Può un incontro fortuito far fiorire sentimenti sepolti da tempo, anzi, forse mai germogliati?
Genere: Drammatico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Itachi, Nuovo Personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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7. Senza alcuna pietà





Erano passati velocemente, quei cinque anni lontani da Konoha e dall’unico legame che ancora lo legava a quel luogo. Le lune nel cielo si erano susseguite rapidamente, mese dopo mese, proprio come quella nei suoi occhi, che tingeva le menti degli avversari di un color sangue indelebile. Era maturato, in quell’arco di tempo. Anzi, no, per niente; lui era sempre stato maturo, un piccolo adulto nel corpo di un bambino. La verità era che era marcito, ecco tutto. Le poche sensazioni che in lui erano rimaste attive, quelle che tentavano di ricordagli che la sua natura era umana, e non infernale, si andavano sempre più degradando, convincendolo del fatto che fosse un mostro.
                 L’aveva rivisto, e il suo cuore aveva conosciuto ancora l’emozione di un brivido, per quanto si fosse sforzato di dimostrarsi il più infastidito possibile. Sasuke era cresciuto, era diventato incredibilmente forte, ma certamente non ancora abbastanza per sfidarlo. Itachi voleva che lo stremasse, che lo vincesse con tutta la potenza del suo odio, senza concedergli pietà per quel peccato che intendeva espiare per mano sua. Avrebbe dovuto aspettare ancora del tempo per incontrare il buio definitivo, ma desiderava morire fin da ora, liberarsi di quella vita malata, proprio come il suo fisico.
                 Mentre con il suo compagno di squadra stava sorvolando la foresta fuori da Konoha, per tornare alla base, un violento colpo di tosse lo obbligò a fermarsi su un ramo. Ecco l’ennesima prova di quanto si sentisse deteriorato.
                 «Itachi… », si preoccupò Kisame, affiancandolo.
                 «Non è niente, sto bene», tagliò corto lui, osservando indifferente quella macchia di sangue che gli aveva imbrattato la mano.
                 Guardò altrove, per non prestare attenzione all’apprensione dell’amico, e lo sguardo cadde verso il basso, spingendolo a ricordare quel luogo. Vi era già stato, ma sembrava essere passata una vita. Un tetto ricoperto di muschio e foglie, quasi invisibile a occhio nudo, non poté sfuggire allo sharingan. Quel posto! L’ultimo luogo in cui si era sentito a casa, seppur per poco. Si sporse quanto più poté, cercando di non perdere l’equilibrio, nel tentativo di cogliere qualche segno di vita proveniente da lì. Sperava di rivedere i loro volti, ancora una volta, anche se una parte di lui si augurava il contrario; d’altronde, era stato lui stesso a voltargli le spalle, cinque anni prima. Non voleva sconvolgere le loro tranquille vite, soprattutto dopo quello che erano stati costretti a subire a causa di suo padre. Non avrebbe mai voluto intorbidire il loro vivere, ma vide una sagoma dai capelli mogano, di schiena, attraverso la finestra della cucina, e nulla poté fare la ragione, se non sottomettersi all’istinto.
                 «Sei sicuro che sia tutto a posto?», lo incalzò il Fantasma del Villaggio della Nebbia, osservandolo incuriosito.
                 «Kisame, raggiungi il rifugio senza di me. Ho una questione in sospeso, qui». Quella frase gli era costata una certa fatica, non era sicuro di voler riaprire quella faccenda, ma ormai il danno era fatto.
                 L’Hoshigaki non mise in discussione quel volere, abituato ad assecondare l’Uchiha. Annuì e si rimise in volo, lasciandoselo alle spalle.
 
Itachi si precipitò a terra con un balzo, e il contatto con quella natura che l’aveva accolto nel peggior momento della sua vita riuscì a farlo rabbrividire. Nemmeno quello che stava vivendo con l’Akatsuki era il miglior frangente della sua esistenza e si chiedeva se far ritorno in quel luogo avrebbe ripetuto l’incanto di farlo sentire vivo.
                Con passo felpato, quasi temendo di commettere un atto violento, si avvicinò alla casa; salì il gradino del patio, con il cuore in gola, e alzò il pugno, pronto a bussare. Nella mente gli tornarono i volti sorridenti dei gemelli, i loro modi di fare irritanti, ma spontanei, le loro paure e speranze. Sicuramente il tempo era passato anche per loro, sarebbero stati diversi, eppure sperò che ad aprirgli la porta ci fossero ancora due tredicenni.
 
***
 
Due colpetti timidi, appena accennati, la fecero alzare faticosamente dal divano. Le girava un po’ la testa e temeva di essersi immaginata quel rumore, ma decise comunque di controllare. Imbracciò una spada e si diresse all’entrata.
            Quando aprì la porta, si trovò davanti un giovane dal mantello solcato da nuvole rosse, che la guardava sorpreso, quasi divertito.
            «Eppure ti ricordavo più accogliente, Hikari», rise.
            La ragazza abbassò lentamente l’arma, percorrendo con lo sguardo i tratti del ragazzo: labbra sottili, inaspettatamente incurvate verso l’alto, occhi scurissimi, carnagione pallida e… quelle erano rughe?
            «I-Itachi Uchiha?», balbettò sottovoce, facendosi sfuggire l’impugnatura della katana. Il moro la osservò con pacatezza, sorridendole, e fu allora che lo riconobbe seriamente; quell’espressione l’aveva impressa nella memoria, sicura che difficilmente l’avrebbe rivista. «Itachi Uchiha!», ripetè, urlando con una voce indebolita dall’emozione, saltandogli d’impeto al collo, infischiandosene dei dolori.
            «Sono proprio io», confermò lui, leggermente imbarazzato.
            «Non sei cambiato di una virgola», constatò lei, allontanandosi per rimirarlo. «Beh, naturalmente facendo eccezione dell’altezza e della muscolatura», precisò.
            «Nemmeno tu, poi tanto», osservò perplesso, notando quanto fosse ancora esile. Sì, era cresciuta di almeno sette centimetri, il viso si era fatto ancora più delicato e dolce, gli occhi erano proprio quelli della famiglia Uzumaki… ma rimaneva uno scricciolo, un esserino che avrebbe potuto prendere il volo da un momento all’altro.
            «Coraggio, entra», lo spronò lei, facendosi da parte. Si chinò a raccogliere la spada, ma l’Uchiha le risparmiò la fatica. La riconobbe subito, al tatto, come se l’impugnatura gli avesse procurato una scarica elettrica, ma decise di riconsegnarla nelle mani della proprietaria; la lama non gli apparteneva più, ad appartenergli erano solo gli squarci che aveva provocato.
 
Hikari si sistemò stancamente sul divano, trattenendo il respiro ad ogni fitta che sentiva pervaderle le ossa e la carne. Strinse i denti, ma cercò di convogliare quella smorfia in un sorriso.
            Nel rivederlo e scorgendo il coprifronte segnato da una scalfittura orizzontale, le erano tornati in mente i racconti che i passanti avevano riferito poco dopo che lui se n’era andato, la strage della famiglia Uchiha, il suo coinvolgimento… ma, più delle voci, del dolore, delle scelte personali che non aveva mai voluto giudicare, alla memoria riaffiorarono quelle ore tanto lontane, trascorse insieme; quei momenti così felici che non voleva fossero rimasti sepolti tanto a lungo. Il ricordo di quell’Itachi era sempre bastato a lei e al fratello per non condannarlo.
            «Dov’è Eiji?», chiese curioso il moro, guardandosi attorno. Non era cambiato quasi nulla, là dentro, nemmeno il divano, che era stato rattoppato in nuovi punti, con delle stoffe di colori diversi.
            «In questo periodo è fuori, è un arrotino ambulante. Ultimamente abbiamo bisogno di più soldi, perciò si sposta di villaggio in villaggio, mentre io sono qui che cerco di sostituirlo, anche se non sarò mai veloce quanto lui. Comunque lo troverai domani pomeriggio, e anche lui sarà felicissimo di rivederti», spiegò la ragazza, ridendo. Quel suono cristallino lo colpì come una pugnalata, una fitta dolcissima e atroce, che non udiva da anni.
            «Purtroppo non posso fermarmi abbastanza per salutarlo, ripartirò tra qualche ora», affermò incupendosi, guardando la sua veste e ripensando agli eventi accaduti pochi momenti prima, al villaggio. Non poteva rischiare di rimanere così vicino alla Foglia, né poteva permettersi che gli Ando corressero il rischio di ritrovarsi ninja e membri dell’ANBU in casa.
            «Immagino che nemmeno stavolta io possa farti cambiare idea, riguardo la tua partenza», sorrise amaramente Hikari, ricordando quell’addio tanto sofferto. Eppure riuscì a scacciare la malinconia, notando che Itachi aveva scelto di farsi rivedere. Non riusciva a crederci, ma era davvero lì, davanti a lei!
            Lui annuì, confermando quella certezza.
           «E passi tanto tempo da sola? Potrebbe essere rischioso», commentò preoccupato, ripensando istintivamente a quello scontro con il nukenin della Sabbia.
            «A dir la verità, non è più successo nessun grave incidente, da quel giorno». Era come se gli avesse letto quel timore negli occhi. «E poi, fino a qualche mese fa, c’era Murai con me», sospirò lievemente.
            «Murai?», domandò sorpreso il giovane.
            «Oh, scusami, tu non l’hai conosciuto. Ecco, per farla breve, lui era arrivato qui due anni fa, dal Villaggio della Luna. Era stato un viaggio lungo, era in pessime condizioni, e così l’abbiamo accolto, ci siamo occupati di lui. Era un civile in fuga dal villaggio, in cerca di fortuna, così Eiji gli aveva proposto di aiutarlo nell’affilatura delle armi, e lui aveva accettato di buon cuore, unendosi a noi. Con il tempo è entrato molto in sintonia con me…». La ragazza si bloccò, arrossendo violentemente, senza capire il motivo per cui il passato fosse riaffiorato sulle sue guance.
            «Vi siete fidanzati?», domandò l’Uchiha, interessato.
            «Oh, non era una cosa ufficiale! Eravamo solo… innamorati. O, almeno, io lo ero, perché poi lui se n’è andato», spiegò, chinando la testa, mentre pronunciava quell’ultima parola.
           «Mi dispiace. Ma perché? Se era innamorato, perché è partito?», domandò, colpito da una curiosità che sapeva di amara tristezza.
           «Semplice, perché sto lentamente morendo», mormorò lei, fissandolo con gli occhi lucidi.
           «Tu… cosa?!», gracchiò il moro, alzandosi di scatto dalla sedia e avvicinandosi al divano.
           «Non è nulla, Itachi, sono malata. È solo la vita, e la morte non è che il compimento del cerchio, non le si può sfuggire. Alcuni muoiono giovani, altri si godono più anni sulla terra, nelle loro gioie o miserie. È una cosa naturale», sorrise lei, con una falsa imperturbabilità che cercava solo di nascondere la rassegnazione.
           «Ma dalle malattie si guarisce», affermò lui, ignorando il resto di quel ragionamento.
           «Non dal cancro, non io».
           Il fiato gli si spezzò, come quello scrigno nascosto tra i polmoni. Anche lui conosceva quella certezza, era segnato dallo stesso destino, ma non si era mai dispiaciuto di doversene andare; morire giovane era una possibilità che aveva accettato nel momento in cui aveva preso in mano il primo kunai, all’accademia, ma, soprattutto, il perire prematuramente era qualcosa che aveva intuito come sicurezza quando era divenuto nukenin. Ma non poteva credere che la stessa sorte stesse toccando a Hikari, a quella ragazza già segnata da disgrazie e stenti… non lo trovava giusto. Strinse i pugni e abbassò il capo, tremando.
            «Ne sei certa?», chiese flebilmente.
            «Sì. Tumore osseo. Non so bene da quanto ne soffro, un anno, forse; all’inizio non davo rilevanza ai dolori, e oggi potrei essere quasi a un ultimo stadio… ma mi sono imposta di non pensarci, di vivere ciò che resta senza accertarmi di nulla, sfruttando il tempo che rimane per accumulare più vite nella mia, arricchendola di tutto ciò che non ho mai fatto». La sua voce era piatta, espressione di una forza d’animo ormai costretta ad accettare il proprio fato.
 
Le ginocchia di Itachi si piegarono sotto il peso di quella verità, mentre lui cercava disperatamente di non credere a una sola parola di quella ragazza, pur sapendo che non era mai stata in grado di mentire, né di atteggiarsi da vittima. La guardò negli occhi e, ancora una volta, quel blu notte lo colpì quanto un colpo allo stomaco. Perché quell’anima serena doveva sacrificarsi a una morte impaziente? Perché rubarle il fiore degli anni? Perché il destino non era stato clemente nemmeno con una persona che aveva patito tanti dolori in soli diciotto anni di vita?
            «C’è qualcosa che posso fare per te?», domandò l’Uchiha, con gli occhi umidi di preoccupazioni troppo gravose.
            Hikari scoppiò a ridere. «L’hai già fatto!». Il ragazzo la guardò stralunato, così lei si impegnò a spiegarsi: «Desideravo rivederti almeno un’altra volta, ed oggi hai bussato alla mia porta. Potrei chiedere di più, da te?», gli sorrise.
            Quelle parole l’avevano spinto a osservarla di nuovo, con cura, come se volesse ricordare ogni tratto di lei. Capelli mogano, lunghi e sparsi sul cuscino, lucidi per quanto non curati da tempo, ormai; pelle più pallida della luna, quasi trasparente sul collo, che metteva in evidenza le vene e le clavicole; mani minute, arrossate sulle nocche, evidente segno di ulteriori fatiche; labbra screpolate, abbandonate da labbra crudeli, incuranti del silenzioso grido d’aiuto che la sua testardaggine non le avrebbe mai permesso di pronunciare.
            «Tu guarirai, è chiaro? Non puoi morire, non succederà», dichiarò deciso Itachi, stringendole la mano.
             Lei gli sorrise, maledicendosi mentalmente per non essere riuscita a trattenere una lacrima, che era scivolata fino al cuscino, tracciando una cometa sul suo zigomo. Per quanto avesse desiderato rivederlo, non avrebbe mai voluto che lui potesse osservare la condizione in cui si trascinava ora. Voleva rimanere impressa nella sua mente per come se la ricordava prima di aver bussato alla porta.
             «Farò del mio meglio, Itachi», promise.
 
Hikari osservò le sue iridi scure e le sovvennero nuovamente i racconti dei clienti della bottega: “Quel mostro li ha sterminati con un colpo d’occhio”, “Non vorrei mai incontrarlo, con quello sharingan”, “La sua anima è dannata, proprio come quel rosso che gli tinge gli occhi”. E sorrise, era più forte di lei.
             «Avevi ragione, abbiamo sentito parlare di te. Ci sono giunte le notizie più terribili e disparate sul tuo conto, su quello che era successo a Konoha… ma io ed Eiji non ci abbiamo mai dato conto. Loro parlavano di un’altra persona, non di te, non del ragazzo che avevamo conosciuto, che ci aveva salvato la vita. Per noi sei rimasto sempre l’Itachi di quel giorno», gli confidò d’istinto.
Il ragazzo sospirò, prendendo una sedia e accomodandosi di fianco a lei. Per quanto quelle parole lo avessero in parte rinfrancato, non era ciò che voleva sentire, perché non era la verità. Lui era un assassino, ecco perché doveva andarsene anche stavolta, trascinando la sua aura nera lontano da quella casa.
                «Vedi questa veste?», le chiese, sospirando e strattonando un lembo della tenuta dell’Akatsuki.
                «Carina», sorrise, sfiorando il tessuto con le nuvole rosse.
                «Nasconde mani ancora più insanguinate di cinque anni fa», rispose lui, gelidamente.
                La osservava di sottecchi, cercando di capire come le fosse suonata quella confessione.
                «Non m’importa. Per quanto mi riguarda, nessuno è innocente, al mondo», affermò la ragazza, spiazzandolo.
                «Sono un criminale, un malvivente, un assassino», quasi urlò, temendo che lei non avesse capito.
                «Tanto meglio, Itachi, perché ti devo chiedere un favore», sussurrò lei, ignorando l’ennesima fitta. Deglutì, tirandosi su con il busto, faticosamente, e cercando il suo sguardo. «Sto per morire, è vero, e credo che questa sia la mia ultima possibilità per provare un’esperienza fisica, prima che le mie ossa si sbriciolino per sempre. Fra le ultime parole che ci avevi rivolto, prima di andartene, avevi detto che non conoscevi pietà. Ecco, Itachi, non provarne per me».
                 Quella richiesta le era costata una fatica non indifferente, senza contare l’imbarazzo che le avvampava sulle guance come una fiamma. Non avrebbe mai voluto chiedere una cosa del genere a quel ragazzo, ma, allo stesso tempo, dopo che Murai se n’era andato, non l’avrebbe potuta domandare a nessun altro, e, in ogni caso, non l’avrebbe richiesta a nessun altro uomo, se non a Itachi.
 
L’Uchiha la guardò sconcertato, non tradendo la preoccupazione e lo stupore, davanti a quella richiesta. Anche se effettivamente conosceva pochissimo Hikari, era certo che non avrebbe mai chiesto quella “cortesia” né a lui, né a nessun altro, se davvero non fosse stata certa della gravità della sua condizione di salute. Sapeva che era una ragazza moralmente integra, ci avrebbe messo la mano sul fuoco… come aveva detto lei prima, voleva solo godersi ogni aspetto della vita, prima della fine. E scrutando il suo sguardo, acceso e spento contemporaneamente, le labbra tremanti, le guance arrossate, aveva avuto la certezza della sua innocenza, dietro una richiesta apparentemente spregiudicata. Aveva diciotto anni e stava per morire, proprio come lui.
            «Itachi, perdonami. Hai ragione, comprendo il tuo disgusto», mormorò lei, abbassando il capo e coprendo il volto ancora impetuosamente roseo da una cascata mogano.
            «Perché me lo stai chiedendo?», domandò il nukenin, ignorando quelle scuse.
            «Non te l’avrei mai chiesto, qualche mese fa. E non te l’avrei chiesto nemmeno oggi, se non fossi certa del mio destino. Avevo una specie di ragazzo, vivevamo felici, mi bastava tenerlo per mano e appoggiare la mia testa sulla sua spalla, quando ero stanca. Non desideravo nulla di più; per quanto la mia vita non fosse perfetta, a me pareva vicina all’esserlo. Poi è arrivata la notizia della malattia e gli ho spezzato il cuore. Ma il tuo non potrei mai ridurlo in pezzi», sussurrò la Ando, tornando a fissarlo negli occhi.
            «Perché non ce l’ho».
            «No, perché tu sei Itachi. Il tuo cuore è già spezzato, proprio come lo è sempre stato il mio».
            L’Uchiha sorrise a malincuore, annuendo. Era vero, sotto quell’ottica, condividevano qualcosa: una voragine nel petto, che nulla avrebbe potuto colmare. Le accarezzò una guancia, tremando insieme a lei, a quel contatto con la scia della lacrima. Non era più abituato a sfiorare la pelle degli altri, di solito si limitava ad attraversarla con punte acuminate o scariche di dolore. Era una sensazione che gli era fortemente mancata, per quanto cercasse di negarlo.
              «Non voglio la tua pietà, amico mio», ripeté la ragazza, lambendo con la sua destra quella mano che stava infondendo calore al suo viso.
             «Avrai me, ma non la mia pietà», sussurrò il moro, avvicinando il proprio volto al suo, fondendo i loro occhi in una medesima sfumatura ombrata.
 
Quel corpo lo aveva sempre spaventato per la sua delicatezza, che lo rendeva più simile al cristallo, che a carne ed ossa. E la temperatura che avvertiva, sotto le labbra, mentre le baciava dolcemente la bocca e le guance, era la stessa di un pezzo di vetro. Soffriva nel constatarlo, ma non per se stesso, bensì per quella ragazza che sembrava essere costituita da brividi e cristallo. Avrebbe fatto di tutto per farla sentire al sicuro, per quanto in suo potere.
            Cercò di stendersi sopra di lei senza opprimerla con il suo peso, mortalmente imbarazzato, ma anche determinato a non volersi dimostrare intimidito. Aveva invano tentato di farle cambiare idea, consigliandole, impacciato, di fare uno scambio di prospettive, permettendole di adagiarsi sopra di lui, in modo che le sue ossa potessero conoscere un minimo di sollievo, in quella morsa d’amore, ma lei aveva rifiutato quella gentilezza. Non voglio la tua pietà, aveva ripetuto nuovamente, tremando come una foglia.
            Aveva lentamente spogliato il suo esile corpo, bottone dopo bottone, fremito dopo fremito, mostrandolo alla luce del sole, così pallido da riflettere il fulgore diurno quasi meglio della luna. La osservò, trattenendo il respiro; era splendida, per quanto fragile, con quei lunghi capelli scuri che le solcavano a tratti la carne, come alghe negli abissi marini. La tredicenne che fu, era ormai stata oscurata da una donna, per quanto Hikari non ne fosse consapevole.
  Lei rabbrividì al contatto del suo petto con l’aria, colpita dal senso di pudore e, istintivamente, aveva cercato di prendere la coperta e sistemarsela addosso, sul punto di fare retro-front, ma Itachi era stato più rapido della trapunta, infondendo a quella pelle diafana un calore sconosciuto e benevolo. Non poteva permettere che quella vecchia stoffa rattoppata e ruvida sfregasse sul corpo delicato della giovane; gli sembrava un peccato maggiore di quello che s’accingeva a compiere.
            «Non avrai la mia carità», le ricordò, sussurrandole all’orecchio.
            Si liberò della veste dell’Akatsuki e della maglietta, adagio, e fu in quel momento che Hikari sospirò sommessamente, abbracciando la sua schiena nuda, lasciando che le lacrime bagnassero il suo volto e la fronte di Itachi, che aveva affondato il naso e le labbra nella sua clavicola pronunciata. Districava i lisci capelli mori, stretti in una coda, mentre fissava il soffitto della stanza. Stava succedendo davvero? L’ennesimo brivido, al contatto di quelle labbra con il suo collo, le confermò che era tutto vero. Sì, stava accadendo.
             Percorse con i polpastrelli screpolati i muscoli dorsali del ragazzo, tracciando il profilo delle sue ossa inarcate, nel tentativo che aveva messo in atto per non comprimerla. Ossa, la sua morte, in quella vita, e la sua rinascita, in quella morte.
            “Non c’è nulla di male, nel voler vivere”, si convinse la ragazza, socchiudendo gli occhi e lasciandosi andare al corso irrefrenabile degli eventi e della natura.
            Sospiri, fremiti, carezze e baci fra corpi perfettamente maturati, ma animi ancora acerbi.
            Era il momento, e non era pronta. Capì che non lo sarebbe mai stata, così come l’aveva intuito l’Uchiha. Non voleva farle del male, per quanto lei gli avesse chiesto espressamente di non cadere vittima della compassione, e stavolta si vide costretto a disobbedirle. Si piegò su di lei, delicatamente, e colse il fiore dei suoi diciotto anni, limitandole la sofferenza allo stretto indispensabile, a quella inevitabile fitta che macchia di un peccato decisamente trascurabile, di fronte alla piena sensazione di vita.
 
Lo chiamavano il dolce morire, e finalmente lei aveva capito il perché di quell’espressione. Se solo il cuore non le stesse battendo all’impazzata e Itachi, seduto sulla sedia, non si fosse trovato al suo fianco, sarebbe stata certa di essere trapassata. Invece era viva, come mai era stata prima d’allora. Il dolore, almeno in quell’istante, riuscì a passare in secondo piano.
            L’imbarazzo corse a tingere le sue gote, ripensando a ciò che era successo. L’ultimo ricordo era quello di un abbraccio tra corpi discinti, una stretta calorosa e innocente, per quanto quell’aggettivo non fosse più adatto a descriverla. Si era addormentata fra le sue braccia, mentre lui vegliava su di lei, perso in mille pensieri.
            «Devo andare», dichiarò deciso il ragazzo, imponendosi di non tornare su quell’argomento.
            «Io… ti ringrazio», riuscì a mormorare Hikari, sul punto di nascondersi sotto la coperta con cui il giovane aveva provveduto a coprirla.
            «Non puoi ringraziarmi per non aver avuto pietà», commentò, disgustato dal modo in cui si era comportato. Si sentiva peggio di quanto si aspettasse, nonostante avesse appena esaudito una richiesta accorata che non aveva in sé traccia di malizia. Si sentiva come se avesse approfittato della sua innocenza, quando così non era.
            «So quanto ti è costato assecondarmi, ecco perché volevo ringraziarti. Non ci vedremo più, quindi spero che riuscirai a cancellare presto la mia pateticità», asserì la ragazza, approfittando in tempo delle spalle che lui le aveva rivolto, per abbottonarsi la blusa e alzarsi stentatamente in piedi.
            «Non sono in grado di dimenticare niente, neanche se volessi. E, decisamente, non intendo dimenticarmi di te», dichiarò l’Uchiha, girandosi di sfuggita.
            Hikari lo abbracciò d’istinto, nascondendo il volto nel suo petto, dentro quella nuvola rossa che si accordava perfettamente alle sue guance. Erano anni che il suo volto non assumeva più quel colorito, e nonostante questo, si ostinava nasconderlo a quegli occhi.
            «Grazie per non esserti dimenticato di noi… di me», sussurrò sorridendo, staccandosi da lui e riportando sulle labbra il suo consueto sorriso tranquillizzante. Ecco la donna che era appena sbocciata, eclissata da un’eterna tredicenne.
            «Salutami Eiji», le sorrise di rimando, uscendo dalla porta e avviandosi verso il rifugio.
 
Hikari l’osservò fin quando la vista e la celerità del giovane glielo consentirono. Saltava di ramo in ramo con un impeto disumano, lasciandosi alle spalle una casa abbracciata dal crepuscolo, e un cuore attraversato da palpitazioni che, in quanto a calore, non avevano nulla da invidiare al centro dell’universo.
            Sorrise, restando affacciata alla finestra finché il cielo non imbrunì, sperando che la sua morte potesse essere dolce quanto quella che le aveva appena permesso di apprezzare maggiormente la vita.
            Il medesimo sentimento percorse il petto di Itachi. Una ragione in più per vivere, ma, certamente, non sufficiente per non morire.






Non ci credo, siete davvero riusciti a leggere fino in fondo?? Vi prego, non uccidetemi! XD  Quest'idea è nata quasi per caso, immaginando cosa sarebbe potuto succedere se i ragazzi si fossero rincontrati, anni dopo quell'addio. Non volevo che fosse davvero un addio, in fondo :) 
Spero non abbia urtato la sensibilità e lo stomaco di nessuno ahah :D 
Ho in mente di proseguire, aggiungendo almeno un altro capitolo, ma prima fatemi sapere cosa ne pensate... in caso faccia tanto schifo, chiuderei qui, scusandomi con voi e con Itachi :) 
A presto, grazie mille per la vostra lettura!!

Ophelia

 
   
 
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