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Autore: avalon9    04/09/2013    2 recensioni
“Seiya di Sagitter non è tenuto a scendere in campo senza Anissa” tentò ancora Kiki.
“Ma Seiya di Pegasus lo avrebbe fatto” gli ricordò Seiya, con il cosmo a irradiare, calmo ma potente. “Non sei d’accordo, Kiki?”

Post-Hades; Saint Seiya Omega: intermezzo; in 64 episodio.
Prima di partire per la battaglia.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aries Kiki, Pegasus Seiya
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Crescendo'
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Autore: Avalon9

Autore: Avalon9

Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of live

Personaggi Principali:Seiya; Kiki

Altri Personaggi: Saori; Mur; altri solo nominati

Rating: verde

In proposito: “Seiya di Sagitter non è tenuto a scendere in campo senza Anissa” tentò ancora Kiki.

“Ma Seiya di Pegasus lo avrebbe fatto” gli ricordò Seiya, con il cosmo a irradiare, calmo ma potente. “Non sei d’accordo, Kiki?”

Disclaimer: i personaggi sono di Masami Kurumada; la situazione la rivendico come mia^^

Note: one shot; missing moments

Cose: e sono cinque. Era partita come una one-shot con il primi Crescendo, ma ormai è diventata una vera e propria storia a sé, con i suoi capitoli intercalati alla narrazione dell’anime. Mi piace questo Seiya, così vicino alla serie classica eppure più maturo, più consapevole. C’è una vena di malinconia in lui, e amo scavare in quei sottintesi che si potrebbero intrecciare con altri personaggi, nuovi e non.

Qui con Kiki, con il bambino che per anni li ha seguiti in battaglia; con il bambino che è cresciuto con Seiya e i suoi amici e adesso è cavaliere d’oro al posto del fratello. Penso che Seiya e Kiki rappresentino bene la nuova situazione: proiettata al futuro, ma ancora legata al passato. Seiya ha raccolto l’eredità dei Gold morti al muro del pianto; e inizia lentamente a comprendere il peso e la solitudine.

Come sottotitolo ho scelto una parola greca, kairòs, che indica la “volontà divina, incrollabile”. Diciamo che la determinazione di Seiya, per non essendo eterea, è di certo molto forte.

 

 

 

 

 

 

Crescendo V

Kairos

 

 

 

 

Kiki sospirò, alzando lo sguardo alla statua di Atena appena rischiarata dalla luce dell’alba. Era sempre una sensazione strana osservarla: studiarne il profilo fermo e altero, gli occhi ieratici che dominavano il Tempio e la dolcezza impalpabile di un sorriso sottile. Quel sorriso che era appena una falce di luna, sospeso fra umano e divino. Sembrava sorridere, la grande statua di Atena: di quel sorriso distante e inafferrabile che è solo degli dei; di quel sorriso che spesso sfiorava Anissa quando li guardava seduta in trono.

Non era più Saori-san.

Non lo era più da tempo ormai, Kiki lo sapeva.

Dalla vittoria su Ade, Saori era diventata Atena.

Ma forse anche prima; forse negli Inferi aveva solo gettato l’ultimo velo di donna che l’avvolgeva.

Quando era tornata; quando nell’oscurità dell’eclisse che andava diradandosi era apparsa, fulgida di cosmo e dei bagliori della sua armatura, Kiki aveva sentito qualcosa spezzarsi. Aveva avvertito la grandezza e l’abisso concretizzarsi, profondo e palpabile, fra Saori e lui. E al posto della donna scesa nell’Ade era ritornata la dea, conscia, determinata. Spietata.

Spietata come solo Atena sapeva essere, per quell’amore incondizionato che la muoveva; per quell’abnegazione viscerale che da sempre la portava a privarsi di affetti e sentimenti per non cedere sotto i ricordi di mille vite ripetute uguali, per non soffermarsi suoi visi, suoi nomi di chi nei secoli era caduto per lei.

È crudele Anissa; di quella crudeltà così profonda e umana che la divorava vita dopo vita; minuto dopo minuto. Ed era stata quella dolce, atavica profonda crudeltà ciò che Kiki aveva scelto di servire.

Perché Anissa aveva pianto per suo fratello e gli altri Cavalieri d’Oro; perché Anissa era stata pronta a combattere senza armi pur di concedere loro l’occasione di una vittoria. Perché era così da Saori imporre la propria volontà con quel sorriso disarmante che ti lascia senza parole per ribattere.

E puoi solo accettare quello sguardo, quella parola, quel gesto che sai che farà più male a lei che a te, mentre te ne resti a guardarla proseguire caparbia per quella strada che si è scelta, senza vacillare e senza pentimenti.

Anche in quel momento Kiki sapeva di poter solo chinare la testa e accettare.

Accettare il cosmo di Anissa che riecheggiava, risoluto e affaticato; accettare quel fastidioso senso di abbandono che gli scorreva nel corpo, assieme alla consapevolezza di una mancanza che si andava via via facendo più pressante, ossessiva. Perché il cosmo di Anissa si stava affievolendo sempre di più, e l’eco che Kiki avvertiva per il tempio, calmo e risoluto, era il lucore che nascondeva la sofferenza e la fatica; era la pace infusa a discapito della propria sicurezza.

Aveva passato troppi anni al fianco di Saori-san per non averne imparato le piccole bugie e gli stratagemmi. L’aveva imparato presto quel cosmo Kiki, luce liquida che irradiava da una bambina che aveva vegliato per ore ai piedi di Ariete e fra i ghiacci di Asgard. L’aveva imparato presto, Kiki, l’amore che Saori-san portava a lui, ai Cavalieri che l’avevano tradita e le avevano giurato fedeltà, a quel mondo indifferente e ostinato, incapace di imparare dai propri errori eppure così sfaccettato e complesso da non poter essere odiato.

E con il tempo, crescendo, aveva imparato anche il legame che univa Anissa a Seiya.

Quel complesso, pericoloso, viscerale amore al confine fra devozione e blasfemia; il desiderio di possesso nelle mani di Seiya quando la sorreggevano; la consapevolezza del proibito nei suoi occhi sempre più malinconici.

Seiya era così cambiato, in quegli anni.

Aveva imparto a fingere; aveva appreso come mascherare le emozioni troppo violente e le delusioni profonde. Aveva imparato il sorriso per tranquillizzare e aveva imparato la dignità per calmare. Seiya era cambiato, e all’ardore del bambino, all’avventatezza di Pegasus si era sostituita la maturità di Sagitter.

Eppure, c’erano dei momenti in cui Kiki vedeva riemergere il Seiya che aveva conosciuto a sette anni. Il ragazzino di giochi infantili in pace e battute sagaci sul campo di battaglia; il cavalieri che sapeva trascinare, che spronava i compagni e rivaleggiava con gli dei.

C’erano momenti in cui Kiki rivedeva l’uomo che avrebbe voluto diventare: la sua tenacia e la cocciutaggine che Seiya gli aveva sempre mostrato; così profonda de sembrare una cicatrice nel cosmo.

E c’erano momenti come quello, come quando Seiya era tornato al Tempio con Saori-san fra le braccia. C’erano momenti come quell’istante, sotto l’alba di Grecia, sulla grande terrazza ai piedi della statua di Atena. C’erano momenti in cui Kiki non riusciva più a distinguere in Seiya il confine fra l’uomo e il cavaliere.

Perché era di uomo lo sguardo di Seiya verso il mare che andava riverberando; era di uomo innamorato la piega amara che gli aveva visto sulle labbra quando aveva loro comunicato cosa Anissa avesse deciso di fare. Perché era così da Seiya la decisione di abbandonare il suo posta alla Nona per scendere di persona sul campo di battaglia che aveva fatto tremare qualcosa dentro a Kiki, giù nel profondo, oltre il cosmo e oltre l’anima.

Era stato come precipitare.

Vedere gli occhi di Seiya mentre stringeva la daga di Saga; vedere la risolutezza nel suo viso e le mani fremere di rabbia trattenuta con le sue parole.

E ritrovarsi fra le montagne di quel loro primo incontro; ritrovarsi di fronte il sogghigno feroce di Seiya e la volontà della lotta mescolarsi con la sicurezza. Era stato come ritrovare la traccia di un ricordo.

Di fronte alle stanze di Atena; di fronte a Cavalieri che Seiya non aveva ancora chiamato compagni; di fronte al ricordo vivido di Anissa stretta fra le sue braccia, Kiki aveva visto il cavaliere di Sagitter deciso alla battaglia, aveva visto Seiya di Pegasus come lo aveva visto per anni sui campi di battaglia sfidare uomini e dei.

Ma il Seiya che gli dava le spalle in quel momento, le ali di Sagitter abbandonate al vento; il Seiya immobile, la lunga striscia di bisso a fluttuargli attorno; il Seiya di quella ventosa mattinata greca era solo un uomo.

Un uomo che per la prima volta dopo anni scendeva in campo a capo di un esercito agguerrito e fedele; un uomo avvezzo più all’improvvisazione che all’accorta strategia; un ragazzo che aveva scelto di perdere la vita e forse i sogni pur di proteggere la dea cui si era votato, la donna che avrebbe sempre amato.

Ci vorrebbe Shiryu.

E il pensiero gli piegò le labbra in sorriso rassegnato. Perché Shiryu avrebbe saputo cosa fare; avrebbe saputo cosa dirgli. Shiryu avrebbe toccato una spalla di Seiya, in quel modo; e lo avrebbe costretto a guardalo, proprio come Seiya lo stava guardando ora, gli occhi sottili smarriti in domande e timori a fatica trattenuti.

Ci sarebbe voluto Shiryu.

La sua testa piegata per disapprovazione e le parole sussurrate con un sorriso caldo; il modo che aveva di riportarlo alla realtà, di spronarlo nei tentennamenti e di contenerlo nell’euforia.

Ci sarebbe voluto Shiryu, per restituire a Seiya la sicurezza della battaglia e per placarne il profondo rabbioso senso di colpevolezza che Kiki avvertiva aggrovigliato al suo cosmo.

Rabbia verso se stesso, per non aver fermato Saori-san.

Rabbia per Pallas, che stava lentamente prosciugandone il cosmo e la vita.

Rabbia per la forza non ancora recuperata dopo quindici anni di prigionia di Mars.

Rabbia per quel soffocate senso di solitudine che provava.

Ci vorrebbe Shiryu.

Ma Shiryu non c’era. Non c’erano le sue parole incoraggianti; né le battute taglienti di Hyoga o la fermezza di Shun; mancava anche la feroce presenza di Ikki. Mancavano tutti loro e Kiki sapeva che, per quando Seiya si sforzasse, non riusciva a riceve dei cavalieri d’oro suoi compagni nulla di simile a quel senso di appartenenza e condivisione che per anni lo aveva sostenuto.

“Ti stanno aspettando” sussurrò, sentendosi stranamente a disagio nell’espressione di Seiya. “I cavalieri d’argento verranno con te. E gli steel hanno già iniziato a muoversi. Come hai ordinato” si affrettò ad aggiungere, spostando appena il peso del corpo da un piede all’altro.

Era strano rivolgersi a Seiya in quel modo, aspettare da lui le decisioni e le strategie da seguire. Kiki lo conosceva: l’improvvisazione e l’avventatezza erano da sempre state le linee guida di Seiya in battaglia. Ma Anissa aveva deciso così; e in fondo Kiki si ritrovò a considerare che per lui era normale rimettersi a Seiya e alle sue decisioni. Lo era stato negli anni in cui era ancora un bambino e si intestardiva nel seguirli ovunque andasse; lo sarebbe stato anche adesso che era cavaliere d’oro.

Questo almeno non è cambiato ricordò a se stesso, e il senso di rassicurazione e tranquillità che ne percepì fu come un respiro a lungo trattenuto che si rilassava.

Seiya però si era limitato ad un accenno distratto della testa, mentre continuava a osservarlo con un’espressione che Kiki non riusciva a decifrare. E così poco da Seiya che Kiki si chiese se davvero fosse in grado di scendere di nuovo in campo. Quindici anni di prigionia e lento costante logoramento del cosmo lo avevano provato più di quanto Seiya ammettesse. Forse solo Anissa conosceva le sue reali condizioni, o forse nemmeno lei. Perché Seiya era fatto così: con Anissa minimizzava e scherzava; qualsiasi cosa pur di non farla preoccupare.

considerò ancora Kiki. Decisamente ci vorrebbe Shiryu.

E si ritrovò irrazionalmente a sperare di vederlo salire dalle scale della Tredicesima, rivestito dell’oro di Libra. Immaginò il freddo del cosmo di Hyoga appena mitigato dalla fresca potenza di Shun. Ikki invece sarebbe arrivato con calma, giusto per tirarci fuori dai guai come Seiya stesso amava spesso dire.

Ma le scalinate rimasero silenziose, vuote di cosmi e parole; e Kiki dovette ricordare a se stesso che gli anni era trascorsi e nuovi cavalieri aspettavano il loro comandante ai piedi dell’arena. Nuovi cavalieri per nuove battaglie; e il cosmo di Anissa crepitare nella tacita lotta contro l’energia che la stava prosciugando.

“Non riesco ad abituarmici” sorrise alla fine Seiya, una piega sottile che sapeva di incredulità e rassegnazione assieme.

“A cosa?”

“A te. Cavaliere di Ariete” soffiò dopo un breve silenzio, e la mente corse agli occhi impertinenti di un bambino di sette anni. Ai suoi capricci infantili e al coraggio velato di incoscienza; ai giorni cresciuti assieme, loro ragazzini che insegnavano a un bambino cosa significasse essere cavalieri.

“Sei cresciuto, Kiki.”

E quell’ovvietà sospirata all’alba, quelle semplici parole più simili ad un pensiero sfuggito che ad una conversazione ponderata, svelavano la difficoltà di Seiya di comprendere, ancora, il tempo trascorso. E di accettare di aver perso, di quei quindici anni, qualcosa di inafferrabile ma importante. Qualcosa che avrebbe rimpianto per sempre, nonostante tutto.

“Sono passati quindici anni, Seiya” gli ricordò in un sussurro, tremando. Perché con Seiya non aveva ancora deciso come comportarsi. Perché con Seiya nessuno aveva mai parlato degli anni della sua prigionia, di cosa avesse provato, di cosa fosse cambiato. Troppa la diffidenza di lui verso i nuovi compagni; troppa la distanza che, di nuovo, separava cavaliere da cavaliere; troppo, soprattutto, l’alone di leggenda che avvolgeva Seiya.

Era stato un ragazzo che aveva rischiato la vita per Anissa; ed era diventato un nome sussurrato con rispetto, quasi con timore. Era stato il fulgore di un cosmo che si incendia per dare alla dea tutto se stesso. Ed era diventato l’esempio, come Arioso prima di lui.

Lo era stato per tutti; lo era stato anche per lui, Kiki se ne accorse in quel momento.

“Quindici anni” ricordò a se stesso. “Sono tanti. Davvero tanti.”

Kiki annuì distratto e di quelle parole non riuscì a capire se fossero di rimpianto o di preoccupazione. Non riuscì a distinguere la nostalgia da qualsiasi altra cosa Seiya potesse provare in quel momento. O che si trascinasse dentro da chissà quando.

“Mi ricordi Mur” lo sorprese Seiya.

Kiki sentì il respiro strozzarsi nella gola. Perché faceva male; faceva ancora male il ricordo di suo fratello. Avrebbe sempre fatto male. Con il tempo gli avevano detto. Con il tempo. Ma gli anni erano trascorsi, le lacrime si erano asciugate e quel senso di privazione se ne restava lì, incastrato nello stomaco. E ogni tanto tornava a premere, chiudendogli la gola e facendogli nascere un insano desiderio di poterlo ancora rivedere.

Non lo aveva nemmeno salutato un’ultima volta.

Forse era quello il suo più grande rimpianto. Quando era arrivato al tempio, Mur era ormai disceso in Ade. Aveva sperato; fino all’ultimo Kiki aveva sperato e pregato che suo fratello tornasse, che l’ultimo ricordo di lui non fosse la sua schiena che si allontanava nell’alba del Jamir.

Aveva continuato a sperare anche quando ne aveva sentito il cosmo esplodere; e ancora quando Anissa era tornata, fulgida di luce, e Seiya, Shiryu, Hyoga, Shun e Ikki con lei. Aveva sperato; tanto. Ma Mur non era tornato. Non sarebbe più tornato.

“Mi manca” sussurrò in un singhiozzo. “Tanto.”

E si risentì bambino mentre cercava l’appoggio di un amico; si risentì il bambino di quel giorno, gli occhi senza lacrime a implorare una verità diversa da quella che conosceva. Aveva odiato Anissa, quel giorno. Aveva odiato Anissa e il dolore nei suoi occhi. Aveva odiato le braccia di donna che lo stringevano e il cosmo di dea che lo avvolgeva a cullarlo. E più di tutto aveva odiato il dolore che aveva percepito irradiare da Anissa.

Perché se lei aveva perso dei cavalieri, lui aveva perso un fratello. Perché se a lei Mur aveva sacrificato la vita, a lui non aveva lasciato nemmeno una tomba su cui piangere.

“Lo so” lo rassicurò Seiya. “Manca anche a me. Mi mancano tutti loro.”

Seiya respirò piano l’aria fresca dell’alba.

Aveva il sapore di un’altra alba, di tanti anni prima. Di quella prima luce intuita dietro gli occhi stanchi dalla lunga battaglia. Della prima alba dopo la morte di Saga, quando si era risvegliato per un istante fra le braccia di Anissa. E i cavalieri d’oro erano alle sue spalle, fulgidi d’oro e di cosmo.

Gli mancavano. Tutti loro.

Mur dallo sguardo tranquillo; il sorriso aperto di Aldebaran; la complicità con Aioria e le provocazioni con Milo. Perfino l’imperturbabilità di Shaka.

Strinse le mani socchiudendo gli occhi. Adesso altri cavalieri vestivano le armature troppo conosciute; adesso era lui stesso cavaliere d’oro. Eppure Seiya non ce la faceva. Non riusciva a chiamare compagni uomini con cui non aveva condiviso nulla, se non la dedizione ad Anissa.

Era infantile, e sciocco. Eppure non ci riusciva.

Per lui, i cavalieri d’oro sarebbe sempre stati quelli della sua generazione: gli uomini contro cui si erano battuti in quella folle insensata corsa fino alle stanze di Arles. Fino a Saga. Gli uomini che anche dalla morte erano stati capaci di combattere al loro fianco.

“Non saremo mai compagni. Vero Seiya?” gli chiese Kiki, una punta di disillusione nella voce. Perché conosceva già la risposta; perché lui per primo non riusciva ancora a razionalizzare di vestire Ariete, di essere Ariete al posto di Mur. E che altri occupavano le Case, così diversi dai visi della sua infanzia.

“Non lo so” scosse piano la testa. “Con il tempo. Forse.”

Kiki sorrise.

“Da quando hai imparato a mentire?”

Seiya accennò appena una smorfia, sollevando con leggerezza le spalle. Seiya di solito non giocava con le parole. Seiya era quel tipo di persona che alle mezze verità preferiva la realtà sbattuta in faccia anche con ferocia e dolore.

“Chissà” ridacchiò. “Forse da quando certi bambini hanno iniziato a fare domande impertinenti.”

“Non sono più un bambino, Seiya” protestò debolmente Kiki, le guance in uno sbuffò.

E desiderò che il tempo tornasse indietro; desiderò essere ancora un bambino che aspettava, le lunghe ore trascorse nelle solitudini dello Jamir. Desiderò non conoscere i segreti della forgiatura e la meticolosa, attenta, raffinata potenza dell’oricalco. Desiderò trovare anche solo una parola per vedere di nuovo il sorriso di Seiya.

Non la linea sottile che ogni tanto gli piegava le labbra; Kiki avrebbe voluto rivedere quel sorriso aperto, quasi ferino, con cui Seiya aveva sempre affrontato la vita.

“Lo so, lo so” cantilenò, e la mano si mosse in un gesto conosciuto ad accarezzare una testolina arruffata. Quante volte lo aveva fatto? Quando Kiki era preoccupato, o quando la voglia di scherzare era tanta, nei rari momenti di quiete. Kiki era spesso con loro, in quelle occasioni e Seiya si sentiva ritornare bambino.

Adesso la mano rimase sospesa nell’aria.

Cos’è la consapevolezza?

Kiki pensò che fosse l’espressione amara sul viso di Seiya. Il respiro appena trattenuto e come il lampo di consapevolezza che lo aveva attraversato. Perché adesso la mano che gli scompigliava i capelli doveva alzarsi oltre l’altezza di un bambino; perché adesso era Kiki a superare Seiya in altezza; perché c’erano momento, come quello, in cui Seiya afferrava appieno il tempo trascorso e i cambiamenti occorsi. Ed era come se qualcosa si frantumasse.

Non era la sicurezza e nemmeno la razionalità. Era un qualcosa di inafferrabile e labile, ma così fisico da farlo quasi vacillare.

L’ho voluto io si disse, stringendo il pungo nell’aria.

Perché era stato pronto a morire contro Mars; perché il pensiero di distruggersi era nulla al confronto del dolore all’idea di perdere Anissa e i suoi amici. Perché era stato così naturale, per lui, ardere di stelle e scegliere l’attacco che non aveva realmente pensato alle conseguenze. E nei quindici anni di oblio; nei quindici anni trascinati fra lenta sfiancante lotta contro le tenebre e brevi istanti di evasione il tempo era stato un eterno presente, una marea nera troppo simile allo stillicidio per permettergli di afferrare veramente quello che significava.

E adesso, di tutta la sua vita, Seiya avvertiva solo prima e dopo.

Adesso era dopo.

Dopo la lunga prigionia, tutto quello che gli era rimasto era raccogliere l’eredità di Arioso e continuare ad andare avanti, cercando nel suo cosmo ancora ferito e negli occhi azzurri di Anissa l’antica volontà, l’infantile determinazione.

Seiya sospirò, sfiorando con lo sguardo la daga nella sua mano.

Aveva scelto di combattere; aveva scelto di vestire Sagitter e di usarne il pieno completo caldo potere. Aveva scelto di guidare l’esercito di Anissa e di scendere in campo in prima persona, abbandonando il suo posto alla Nona.

Abbandonando Anissa. Di nuovo.

“Seiya” lo chiamò Kiki, sul viso la maturità della sua età, negli occhi la serietà dell’uomo che era diventato. “Non sei costretto a farlo, Seiya” gli ricordò.

“Forse.”

Seiya socchiuse gli occhi.

Avrebbe potuto restare; avrebbe potuto sederle accanto e attendere con lei il trascorrere delle ore. Avrebbe potuto aver fiducia in Koga e nei suoi compagni, nella loro giovane volontà. Avrebbe potuto.

Ma c’era ancora la sensazione del corpo di Anissa contro il suo; l’abbandono esausto e il respiro lieve che lo sfiorava. C’era lo sguardo velato di dolore che gli aveva rivolto quando l’aveva distesa sul letto.

Seiya aveva visto il terrore negli occhi di Anissa in quel momento. La folle razionale conosciuta consapevolezza che lui stava per disattendere a un suo volere e rischiare in prima linea. Che Seiya avrebbe fatto quello che si sentiva in dovere di fare, disattendendo Sagitter e infrangendo le regole che lo volevano accanto ad Anissa, accanto alla sua dea.

Seiya lo aveva visto, quello sguardo, e insieme aveva avvertito il cosmo fluire da Anissa simile ad un rivolo sottile.

Non c’è tempo si era ritrovato a razionalizzare, mentre le voltava le spalle e recuperava la daga di Saga. Non c’è tempo si ripetè ancora

“Seiya di Sagitter non è tenuto a scendere in campo senza Anissa” tentò ancora Kiki.

“Ma Seiya di Pegasus lo avrebbe fatto” gli ricordò Seiya, con il cosmo a irradiare, calmo ma potente. “Non sei d’accordo, Kiki?”

Kiki annuì, mentre qualcosa simile al sollievo o forse alla sicurezza gli fece increspare un sorriso. Perché era Seiya quello che lo stava guardando, in quel momento. Era il Seiya dei tredici anni, era il cavaliere che Kiki aveva sempre conosciuto, con la sua feroce determinazione e la sua ferma devozione.

“Anissa si arrabbierà” aggiunse in uno sbuffo divertito.

“Fa niente” gli ricordò Seiya, scrollando le spalle. “Non sarebbe la prima volta.”

L’aria fischiò fra le ali di Sagitter e la lunga striscia di bissò schioccò secca. Dalle pendici del colle risaliva l’odore intenso delle olive e della menta. Seiya si affacciò al parapetto. Nella zona in penombra che si indovinava appena dietro il costone delle Case, l’arena brulicava di uomini e cavalieri pronti a seguirlo. Anche nella morte.

Non c’è più tempo ripetè ancora, e una sensazione di conosciuto lo sfiorò, assieme alla consapevolezza della mancanza degli amici di sempre al proprio fianco.

“Sei pronto a tutto?” gli chiese Kiki alla fine, liberando quella domanda che si era trascinato silenzioso per tutto il tempo.

“Stai tranquillo” sorrise Seiya, mentre recuperava l’elmo abbandonato su un capitello. “Non ho intenzione di suicidarmi. Un po’ di giudizio ce l’ho anch’io. Sai?”

“Ne dubito” bofonchiò Kiki, mentre gli si avvicinava accanto al parapetto della terrazza.

“Ti affido Anissa, Kiki” gli disse, infilandosi l’elmo. “Posso fidarmi. Vero?”

Kiki annuì, gonfiando il petto. E si rivide ragazzino accanto a Saori-san ai piedi della scalinata; si rivide ragazzino fra i ghiacciai di Asgard, e vegliare sulla volontà della dea cui aveva giurato fedeltà. E seppe che per Seiya nulla era cambiato da quei giorni; seppe che per Seiya Kiki era ancora il ragazzino cui affidare la sicurezza di Anissa mentre la battaglia infuriava.

Le ali di Sagitter rifulsero d’oro e di cosmo nell’alba di Grecia quando Seiya le spiegò nel vento. Aveva la daga ben salda in mano e sul viso la determinazione e la volontà di un tempo, velata da quella matura malinconia che gli addolciva lo sguardo.

“Vedrai” gli disse, mentre il cosmo bruciava fulgido e immenso. “Ci penserà Shiryu a tenermi lontano dai guai.”

“Speri che ti raggiunga?”

Seiya rise. Di un riso aperto e sottile che, per un istante, a Kiki ricordò l’incoscienza.

“Ci sarà, ci sarà” gli assicurò, muovendo distrattamente una mano nell’aria. “E con lui anche Hyoga e Shun. Perfino Ikki, prima o dopo.”

“Lo speri e basta” tentennò Kiki. “Shiryu è ancora debole.” E lo sei anche tu avrebbe voluto aggiungere, ma si trattenne. Qualcosa negli occhi di Seiya urlava la sicurezza che non tutto fosse cambiato, che il tempo avesse concesso di conservare qualcosa di prezioso, di bello ma indefinito. Forse l’illusione forse la sicurezza delle parole.

Di quelle parole che Seiya lasciò nel vento come saluto, mentre Sagitter attraversava i templi simile alla fiamma che divampa.

“Ci saranno. Lo so. Ci saranno.”

 

  
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