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Autore: FinnAndTera    10/09/2013    2 recensioni
[NagiRei]
Il mondo non lo sapeva, ma Nagisa sapeva anche essere triste – non che lo volesse, ma a volte era inevitabile. Capitava di rado, dopo aver preso un brutto voto a scuola – e la paura di dover lasciare il club di nuoto che lo attanagliava ogni singola volta – o una parola un po’ più dura dei suoi amici, ma in compagnia degli altri lo nascondeva bene: solita espressione spensierata e qualche saltello a destra e a manca, chi si sarebbe mai accorto della sua infelicità?
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Nagisa Hazuki, Rei Ryugazaki
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note d'autrice: un'altra NagiRei ispirata da un'altra bellissima fan art - fanartists, finitela di creare meraviglie, ne va della mia salute mentale! Purtroppo non so chi sia il creatore di questa bellezza, ma chiunque sia ha il mio imperituro amore. Comunque sono sicura che prima o poi questi due divideranno il mio cuore in due parti uguali e lo mangeranno per cena apparecchiando la tavola con tovaglie a quadretti lilla e azzurri come una perfetta coppia di sposini.


Perché anche Nagisa può essere triste.


Il mondo non lo sapeva, ma Nagisa sapeva anche essere triste – non che lo volesse, ma a volte era inevitabile. Capitava di rado, dopo aver preso un brutto voto a scuola – e la paura di dover lasciare il club di nuoto che lo attanagliava ogni singola volta – o una parola un po’ più dura dei suoi amici, ma in compagnia degli altri lo nascondeva bene: solita espressione spensierata e qualche saltello a destra e a manca, chi si sarebbe mai accorto della sua infelicità? A volte stentava a crederlo pesino lui che fosse triste e, incredibilmente, c’erano casi in cui fare la parte del felice lo rendeva tale, convincendolo che era quello il suo scopo, essere felice per far felice gli altri.
Quando era da solo, però, non aveva nessuno da contagiare con la sua allegria, e allora si ritrovava faccia a faccia con la nemica del momento; era un duello all’ultimo sangue, combattuto rispettivamente con brutti pensieri e bei ricordi, ma alla fine Nagisa trovava sempre il modo di spuntarla. Era forte, anche se non sembrava.
I suoi amici, però, se n’erano accorti.
Non ne erano al cento per cento sicuri quando accadeva, ma Makoto aveva l’impressione che se Nagisa saltellava più del solito allora non gli era accaduto nulla di buono. Così gli sorrideva, con un sorriso un po’ più largo e gli occhi pieni di dolcezza. Nagisa lo capiva quando il sorriso di Makoto era indirizzato per rassicurare gli altri - lo faceva spesso con Haruka -, perché si infossava un po’ nelle spalle come se sentisse il peso di qualcosa, come se si facesse carico della solitudine interiore di quelli che lo circondavano, e allora si scopriva a ringraziarlo dal più profondo del cuore. Haru, invece, apparentemente non faceva nulla per risollevare il morale ai suoi amici, limitandosi solo a guardarli da lontano, intensamente, come se uno sguardo potesse cambiare le leggi dell’universo e istituire un mondo alla rovescia dove chi era triste diventava improvvisamente felice. Il fatto incredibile era che ci riusciva davvero. Non con tutti, certo, ma con loro di sicuro.
Uno dei bei ricordi che Nagisa usava per sconfiggere quei rari momenti di tristezza, era la reazione di Rin a quell’insulso sentimento. Rin non lo accettava, non voleva che qualcuno si sentisse triste, altrimenti si arrabbiava. Era un po’ strano, Rin, ma Nagisa rideva sempre tantissimo quando digrignava i denti e metteva le mani sui fianchi in una perfetta posa da “mamma pronta a lanciarti una ciabatta dietro la testa”. Aveva sempre avuto la sensazione che Rin non volesse che i suoi amici fossero infelici perché di tristezza ne provava già troppa lui. Non sapeva né come né perché, ma Rin aveva uno strano modo di muoversi, tra l’esuberante e il malinconico, come se queste due sue parti si respiingessero tra loro di continuo. Prima che quel bel ricordo si trasformasse inevitabilmente in un brutto pensiero – “Perché Rin non ci vuole più?” –, Nagisa si concentrava e si soffermava sulla posa da “mamma pronta a lanciarti una ciabatta dietro la testa” e rideva nel pensare che quella stessa caratteristica l’aveva anche Gou.
Poi c’era Rei, che aveva un’immensa paura dell’infelicità.
Si sentiva profondamente a disagio quando qualcuno non manteneva il suo solito comportamento e allora azzardava delle ipotesi che lo portassero alla causa di quel cambiamento per comprenderlo meglio, ma non chiedeva mai al diretto interessato per la troppa vergogna di sembrare un impiccione e per la troppa paura di dar fastidio e rendere ancora più triste il soggetto. Questo era uno dei motivi per cui il Nagisa diversamente felice faceva finta di niente e improvvisava i suoi sorrisoni a trentadue denti. Il problema era che la paura di rendere Rei inquieto con il suo momento di sconforto di passaggio peggiorava soltanto il suo stato.
La situazione cambiò solo quando Nagisa, dopo una sgridata particolarmente dura e la successiva minaccia di non permettergli più di andare al club se non avesse imparato a prendersi le proprie responsabilità da parte dei suoi genitori, non riuscì proprio a stentare un sorriso e si rifugiò vicino la sponda isolata del fiume. L’acqua che scorreva lo aiutava a rilassarsi e in quel luogo era sicuro che i suoi amici non lo avrebbero mai trovato – per qualche ignoto motivo si tenevano sempre ben lontani dal fiume.
Però Rei lo trovò lo stesso, perché lui non era Haruka, non era Makoto e non era neanche Rin e non sarebbe mai potuto essere come loro. Lui era Rei.
«Nagisa, cosa ci fai qui tutto solo?»
Si vedeva che a Rei era costato parecchio avvicinarsi, sedersi accanto al ragazzo – sempre con molta prudenza, ma troppo lontano per sentire i sussurri di Nagisa – e proferire quelle parole.
«Non è niente, sul serio. Puoi anche andare, non preoccuparti» gli rispose Nagisa, portandosi le ginocchia al petto come se fossero uno scudo e si preparasse al “Va bene” di Rei che, non sapeva il motivo – quante cose in realtà non sapeva? -, gli avrebbe fatto un po’ male.
Ma Rei restò lì, senza muoversi, in silenzio per qualche minuto aggiustandosi gli occhiali sul naso e puntando gli occhi sull’acqua del fiume.
«Ti va di parlarne?»
La voce gli era uscita a stento, ma alla fine ce l’aveva fatta. Nagisa lo guardò un po’ e si chiese se anche quella fosse una responsabilità che doveva imparare a prendersi e ad affrontare.
«Rei?» lo chiamò allora con la testa fra le gambe e a quel punto Rei si girò. «Perché non riesco mai a farti stare bene?»
Nagisa si accorse che quella era una domanda che voleva porgli da tempo, ma che in fondo non aveva molto senso.
«Nagisa, ma tu…»
«Non dire il contrario, lo so che è così. Ti ho praticamente costretto ad iscriverti ad un club di nuoto anche se non sapevi nuotare, ti ho prestato un costume ridicolo, non sono riuscito ad insegnarti a nuotare e quando ti sono vicino tremi sempre e ti metti a braccia conserte».
Rei, sentendo il discorso del ragazzo, pensò che quelle poche volte in cui Nagisa sembrava triste lo era per davvero, e faceva anche pensieri stupidamente tristi. Il vero motivo della paura di Rei verso la tristezza era proprio quello: durante i momenti di sconforto, tutti tendono a ripensare a cose passate e a distorcere la realtà dei fatti, cambiandola a seconda del loro stato d’animo. Ci si allontana dall’oggettività e dalla razionalità ed era per quello che Rei aveva paura tanto della tristezza quanto dell’amore che, al contrario della prima, non poteva essere scacciato.
«Ecco perché odio le persone meste» gli disse con voce stranamente rassicurante, e Nagisa pensò che “meste” fosse proprio una parola buffa. «Non capiscono mai un bel niente, anche le cose più semplici diventano complicate».
“Ecco, ci risiamo”, rimuginò Nagisa. “Mi ha praticamente detto che neanche ora riesco a...”
Nagisa sentì improvvisamente una mano fra i capelli ed era abbastanza sicuro che non fosse una delle sue. Era più grande e si muoveva lentamente, cercando di aggiustargli quei ciuffi ribelli che facevano capolino da quella zazzera bionda.
«Non mi hai costretto, mi sono iscritto di mia spontanea volontà – “Per te Nagisa, per te” -, nessuno è riuscito ad insegnarmi a nuotare e quindi non è colpa tua».
Rei smise di accarezzargli la testa – in realtà si accorse solo in quel momento che la sua mano era finita fra i capelli di Nagisa, non era stata un’azione comandata dal suo cervello! -, ma non la ritirò, fermandola sulla nuca. «E se quando mi sei vicino tremo è perché, beh, non so ancora bene come comportarmi con… tutto questo».
Nagisa avrebbe tanto voluto chiedergli quale fosse il senso nascosto delle sua parole, cosa volesse dire con “tutto questo”, ma quel discorso e la mano fra i suoi capelli lo avevano reso inspiegabilmente di nuovo felice e allora l’unica domanda che riuscì a formulare fu: «Ehi, Rei-chan, perché non hai detto niente riguardo al mio costume per consolarmi?»

 
   
 
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