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Autore: okioki    11/09/2013    0 recensioni
A San Pietroburgo, da dove vengo io, quando incomincia a nevicare la temperatura cala drasticamente a trenta gradi sotto zero, e a quella temperatura tutti i batteri muoiono: nemmeno i perfidi Psicrofili possono resistere..
Genere: Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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II




I capelli non ricrebbero più come prima, ma a ciuffi irregolari e stepposi come paglia. Il pericolo di perdere la vista all'occhio sinistro fu evitato, ma quando incominciai a studiare e ad andare a scuola dovetti usare delle lenti. Ripresi peso, ma lo stomaco mi si era ormai chiuso e non riuscii mai più a mangiare come prima. Da quando ero tornato capii che dopo il matrimonio tra mia madre e Pavel il mondo si era scontrato contro la campana di vetro in cui ero stato rinchiuso e che potevo finalmente ricominciare a vivere, e non solo nelle giornate di neve. Lo capii, ma non riuscii ad accettarlo: ne avevo passate troppe e ormai la vita non sembrava avere più alcuna attrattiva. Gli cygany si erano instaurati anche nel nostro quartiere, nell'anno in cui era stato all'Ospedale, e molti di loro erano diventati nostri vicini. Nessuno voleva dirmi dove era finita la gente che in precedenza abitava con noi e ben presto mi abituai a quella realtà. Ogni tanto, nei miei incubi, ricompariva una figura aliena, su una distesa bianca di neve, immobile e sempiterna. Con il permesso di mia madre e del mio nuovo “papà”, quando mi sentii in forze, cominciai a giocare con i nuovi vicini. Ero troppo debole per andare ancora a scuola, e mia madre nonostante avesse accettato molte cose nell'arco di tempo in cui ero stato nell’Ospedale, aveva ancora un po' di ribrezzo per le automobili e nemmeno Pavel era riuscito a farla desistere. Quindi mi limitavo a stare nelle vicinanze. Eravamo un gruppetto di bambini, tutti maschi. Occupavamo le giornate a giocare a lancia- scorie, io potevo rimanere per due ore o tre – che era anche tanto – se no poi venivo preso dalle vertigini. Di solito ero il lanciatore, perché scappare mi sfiniva solo dopo pochi turni e poi ero costretto a tornare a casa con gli spasmi muscolari. Credo che non si possa descrivere lo stupore che provai, un giorno, quando mentre giocando con i miei amici percepii il tocco di un pezzo di vetro colorato a pungere la parte scoperta del mio collo.
«Voglio giocare anche io!»
«A cosa?»
«A quello che state giocando!»
Eravamo nel pieno di una bufera di neve.
Balzai in piedi: non mi ero sbagliato, quella che avevo sentito era proprio la vocetta di una ragazzina. Davanti a me c'era questa bambina dalla pelle bianchissima, vestita dai piedi fino alla testa in tinta unica bianca, con dei guanti di lattice e una mascherina da chirurgo a coprirgli la bocca e il naso. Le uniche parti esposte alle intemperie erano la fronte cerea e gli occhi sottili, affilati. Mi parve, in un primo momento, una aliena. Ne fui spaventato tanto da ritrarmi - solo molto tempo dopo ricordai di averla già vista. Lei scoppiò a ridermi in faccia, e questo mi fece riprendere dal mio momentaneo terrore: forse se non fosse stato per lei sarei morto d'ipotermia, tanto fu il tempo che rimasi fermo. Approfittando del mio momento di distrazione tutti i miei compagni si erano nascosti, e trovarli nel mezzo della bufera sarebbe stato quasi impossibile: quindi decisi di non provarci nemmeno. La meravigliosa creatura intanto continuava a guardarmi, con occhi vigili, sempre aperti.
«Posso giocare?» chiese ancora.
Non seppi mai dire, nemmeno in seguito, con quale coraggio si fosse avvicinata a me. Lei che era sempre stata una persona introversa e asociale, lei che era sempre stata timida, in quella giornata vinse ogni remora portando le strade del nostro destino a seguire un corso affine.
«È un gioco da maschi» risposi.
Ero geloso e anche un pochetto invidioso; non trovavo giusto che una ragazza sbucata dal nulla si mettesse a giocare al nostro gioco con il rischio di prendere il mio posto. Lei rise di nuovo, forse mi trovava buffo, diverso dal tipo di persone che aveva conosciuto finora. «Potrei giocare al tuo gioco da maschi?»
Riflettei un momento: si era dispersi tutti, e non avevo niente da fare. «Da dove vieni? Non ti ho mai visto qui...» Mi ero dimenticato di quel lontano giorno di ritorno dall'Ospedale. «Oh» disse in un primo momento. E i suoi occhi si spalancarono. «Oh, ma io vengo da molto vicino » era molto educata mentre mi rispondeva. «Solo che non esco mai. Solo se guardi attentamente, nelle giornate di neve, forse riusciresti a scorgermi!». Ritenne giusto informarmi anche di questo, ma io ero ancora un ragazzino, e non mi curavo di questi piccoli particolari a meno che non portassero a parlare di me, quindi decisi d'introdurla al mio gioco. Le offrii la mano, come avevo visto Pavel fare spesso con mia madre Natal'ja, ma lei non accennò nemmeno a prenderla, cominciando a sfregarsi le mani nervosa e provocando lo sfrusciare del lattice sul lattice. Era un rumore molto molesto, riuscivo a sentirlo nonostante tutta la bufera che si scatenava intorno a noi. Mi ritenni offeso, perché aveva rifiutato il mio gesto galante, e io credevo che l'avesse fatto per il mio aspetto malaticcio. Ne ero sicuro: mi guardava e annuiva a tutto ciò che le dicevo, ma si teneva a debita distanza da me e ogni tanto scorgevo nei suoi occhi una sorta di ribrezzo se si presentava la remota possibilità che durante il gioco avremmo dovuto toccarci. Quando la conobbi meglio, ritornai molte volte a pensare a quel giorno: è molto probabile che se non ci fosse stata la bufera di neve, e che se la temperatura non fosse scesa ai sicuri trenta gradi sottozero, non si sarebbe mai avvicinata a me. Rimanemmo a giocare per ore, ma visto che ogni contatto corporeo le era difficile, alla fine optammo per una semplice partita a tirarsi le palle di neve. Nonostante il bracciale scaldamano, dopo un po' di tempo non sentii più la sensibilità delle dita, mentre lei continuava imperterrita a lanciare palle di neve con le sue manine coperte dai guanti in lattice. Mi lasciò dopo che la bufera finii – era ormai sera e io mi sentivo insieme malissimo e benissimo – con la promessa di un nome. Me lo sussurrò in lontananza, mentre il vento attutiva i flebili suoni che uscivano dalla sua bocca. « Mar'ja», e io in cambio gli dissi il mio. Mi ritrovarono tempo dopo disteso sulla neve, era una squadra di ricerca: per più di quattro ore mi avevano dato per disperso.
Ma a me poco importava: i miei occhi luccicavano e avevo scoperto la bellezza della gioia.


Non capii subito da dove poteva essere comparsa una creatura del genere, e nemmeno mi ricordai che meno di un anno prima avevo scorto la sua figura in una giornata di neve. Maša di solito rispondeva a quasi tutte le domande che le ponevo, ma non potevano dirsi vere risposte, mancava sempre qualcosa. Non gliene faccio una colpa però, allora al solo vedere la sua figura minuta, le sue piccole manine e i suoi occhi sottili, non c'era qualcosa che non gli avrei perdonato. Nemmeno tutte le stravaganze da cui era affetta. Cominciai a sapere di lei molto tempo dopo, quando ormai più grandi, io guardavo le cose da un'altra prospettiva. Non credo fosse sua intenzione far trapelare alcuna notizia sulla vita che aveva vissuto prima di arrivare qui, ma ogni tanto c'erano parole a caso, rivelate pian piano, che mi hanno portato a ricostruire un quadro che si regge piuttosto bene in piedi. Primo, fra tutte le questioni, era ovvio che Maša aveva un problema: nessuno sapeva da dove provenisse, ma già prima di arrivare a San Pietroburgo era così. Nel mio paese ci sono vari modi di chiamare queste persone, ma non intendo usare nessuno di questi termini per definire lei; macchierebbero la purezza di Maša. Arrivò un giorno, quando ero all'Ospedale, da molto lontano, con una vecchia donna che voleva definirsi sua madre, quando si sa che dopo i venticinque anni non si possono più avere figli. Dovevano venire da una zona molto remota, nel cuore dell'Est, e lo si poteva intendere dal taglio dei loro occhi.


La rincontrai solo molto tempo dopo.
Dopo quel giorno di neve ci misi molto tempo per riprendermi, e non ebbi più il permesso di allontanarmi da sotto il cortile di casa per un anno intero. A chiunque cercassi di spiegare la mia fantastica avventura scuoteva il capo, credendo che fosse opera della mia immaginazione da bambino. I pochi amici che mi credettero mi convinsero però a considerare il mio incontro come qualcosa di sovrannaturale o extraterrestre: l'alieno delle nevi, lo chiamarono. E io me ne convinsi. Ma quando avevo ormai dodici anni, ebbi l'occasione di rivederla. Anche quel giorno nevicava.Stavo giocando a nascondino, e io – come sempre – stavo facendo la conta e quando mi girai vidi sulla strada una vecchia signora china con un sacco di schermi in mano. Era la vecchia Nadjeda, una donna tutta rugosa che viveva da sola in una casetta del quartiere. L'educazione che mi aveva dato mia madre m'impartiva di andare ad aiutarla, ma a dirla tutta il suo disprezzo per quel tipo di persone avrebbe dovuto spingermi a non toccarla nemmeno. E io volevo giocare. Stavo per rigirarmi quando vidi che mi guardava, la schiena ricurva e il passo arrancante: a quel punto non potevo tirarmi indietro. Spazientito andai verso di lei e senza aspettare che mi chiedesse qualcosa afferrai parte dei suoi schermi. Ci dirigemmo in silenzio verso casa sua. Quando arrivammo, la vecchia Nadjeda mi disse: «Vuoi entrare, non mangio mica. Ti offro una mela, mia figlia sarà... sarà contenta.» Sua figlia? Quale figlia? Non me ne curai, lo sapevano tutti che era pazza. Mentre parlava aprì la bocca in un sorriso sdentato, e la sua faccia si tinse di qualcosa di sinistro, e seppi che non sarei dovuto entrare. Eppure non avevo più mangiato mele dopo l'Ultimo Inverno, quindi accettai. Quella che da fuori sembrava una casa vecchia si rivelò essere molto moderna. C'era una sub- entrata, cioè un'entrata prima dell'entrata. Vidi Nadjeda togliersi i vestiti che aveva utilizzato fino a quel momento e mettersi un camice bianco, una cuffia sui capelli, dei guanti in lattice e una mascherina per la bocca e il naso, poi mi invitò a fare lo stesso. Non capii il motivo, ma mi sembrava tutto molto divertente. Sfortunatamente per me non c'erano dei guanti. «Vedi almeno di non toccare nulla, a parte la tua mela» si raccomandò la vecchia. Poi disse: «Maša, sto entrando!» Mi sembrava di aver sentito già quel nome, tempo addietro. La porta dell'entrata si aprì automaticamente, e noi entrammo. Era tutto molto bianco, e non avrei saputo dire se faceva più freddo fuori o dentro la casa. L'aria che si respirava era strana, non so in che altro modo definirla se non “Ospedaliera”, e mi fece ricordare il giorno in cui mi avevano ricoverato per i primi controlli. Un guizzo bianco mi passo davanti agli occhi velocemente, solo dopo un po' di tempo mi accorsi che era una ragazza, e che mi guardava inorridita.
«Oh, su su, Maša non essere così scortese... non sei felice di vedere il tuo compagno di gioco?» domandò la vecchia Nadjeda.
Io immobile, mi ricordai improvvisamente dove l'avevo vista prima: era la bambina che più di un anno prima mi aveva chiesto di giocare insieme. Non ero riuscita a riconoscerla perché si era presentata davanti a me con il viso scoperto, e i soffici capelli rossicci a coprirgli la testa.
«Ciao» dissi.
Lei mi porse una bottiglia di disinfettante X-KJOY, allarmata, facendomi in gesto lavarmi le mani con quello. Mi accorsi che portava i guanti bianchi, come la prima volta che l'avevo vista. Feci come mi aveva detto, perché sembrava avere molta importanza per lei. Poi lei con un cenno, mi condusse davanti a una porta e mi disse di accomodarmi nel salotto. Non voleva che entrassi nella cucina, aveva paura che avrei contaminato qualcosa. Ritornò tempo dopo con la madre e un vassoio pieno di mele. Con cautela posizionò il vassoio di mele rosse sul tavolo, e io mi sentii inquieto. In mezzo a tutto quel bianco le mele sembravano fatte di sangue. Si sedettero, ma mi dissero che dovevo rimanere in piedi visto che avevano solo due sedie, anche se erano molto dispiaciute.
«Maša mi ha parlato molto di te...» incominciò la donna. «Ti chiami Aleksej Schoning, vero?»
Mar'ja prese una mela cesto, con un movimento flemmatico, mentre annuivo.
«Io sono Nadjeda Ivanovna, caro Aleksej. Sono lieta di fare la tua conoscenza»
Mar'ja immerse la mela nel disinfettante X-KJOY.
«Ma allora non siete alieni delle nevi?» domandai, alla fin fine, non ci avevo mai creduto veramente. O forse sì. In quel momento non ricordavo.
Mar'ja estrasse la mela dal liquido e cominciò a pulirla strofinando su e giù con un fazzoletto di quelli sterilizzati.
Nadjeda rise. «Non lo siamo. Anche se Maša si potrebbe definire così.» Con mia sorpresa vidi anche la madre cominciava a pulire un'altra mela allo stesso modo.
«Ma perché non sei venuta più a giocare?» domandai un po' brusco a Maša, come stregato dai suoi gesti. Tutto ciò mi pareva assurdo, perché stavano strofinando più e più volte quella mela? E dopo averla immersa nel disinfettante, era ancora commestibile? Speravo di sì. Volevo mangiarla, e subito, le mele mi ricordavano qualcosa di così remoto... forse perché erano tonde e rosse.
Lei mi guardò come se le dispiacesse molto, continuando a strofinare il fazzoletto sulla mela, così velocemente che temevo che qualcosa avrebbe preso fuoco.
«Avrei voluto» disse con voce delusa. Si era immaginata che io capissi. «Ma non c'è stata più occasione per poter venir fuori.»
«Maša ha aspettato tanto che venisse la neve, ha aspettato, perché ti aveva dato una promessa. Ma quando ci fu una bufera lei andò fuori e tu non c'eri.»
Quella della neve come scusa, come compresi poi, era sempre valida. C'era un tono di accusa nella voce di Nadjeda. Improvvisamente mi vergognai immensamente, e mi sentii in colpa. Era stato male per molto tempo, ma sentivo di non poterglielo confessare: avrebbero avuto paura di me.
«Non capite, ero a casa...»
Maša alzò la testa di scatto. «Ah, forse aveva paura degli Psicrofili...» la sua voce era piena di ribrezzo.
Fu così che fui introdotto a quella parola: Psicrofili. Qualche anno dopo, scoprii l'origine di quel termine astruso. Maša, in una parte della casa che mi era sconosciuta, teneva un testo antichissimo con i fogli di carta – carta! – gonfi e odoranti di disinfettante X-KJOY, dal nome “Microrganismi”. «Lo presi in prestito, solo che dopo non ho più avuto l'occasione di restituirlo. Dal centro storico della mia città natale...» mi raccontò quando gliene chiesi la provenienza. Io rimasi zitto, aspettando che continuasse: avevo intravisto l'ombra di un suo ipotetico passato. Ma lei divenne d'un tratto meditabonda, e non disse più niente. Ritornando al punto comunque, la prima volta che sentii quella parola non sapevo cosa volesse dire.
«Gli Psicrofili sono terribili» continuò Maša, annuendo convinta.
Aveva ancora in mano la stessa mela, anche se cambiava i fazzoletti sterilizzati di continuo. Pregai che non dovessero pulire tutte le mele nel vassoio.
Poi la bambina rise – la sua risata, ora che ricordo, è sempre stata caratterizzata da una nota isterica, quasi cattiva. «Ti svelerò un segreto però, la prossima volta che giocheremo insieme al tuo gioco da maschi. Ti perdono per non aver rispettato la promessa, anch'io prima li temevo...» Diede un'ultima strofinata alla mela, e poi fece per lanciarmela, ma ci ripensò. « Sarebbe un peccato mangiare una mela così pulita. Ma ti perdono anche questo. Ti regalo questa mela, ma ti prego di mangiarla fuori di qui» e me la tirò.
Fu un duplice sollievo per me, non vedevo l'ora di addentarla e allo stesso tempo cominciavo a sentirmi stanco di stare in piedi. Poi Maša prese un'altra mela, e incominciò lo stesso passaggio. E io pensai che tutto ciò stava diventando alquanto inquietante perché sia figlia che madre avevano dei comportamenti assurdi. Mi domandai se era la vecchia che le aveva insegnato queste cose. La mela che avevo in mano era anomala, non sapevo se avevo più tanta voglia di mangiarla. Era talmente lucida e gommosa che aveva perso il suo aspetto naturale, e sembrava tale e quale al cibo sintetico che di solito mangiavo. Presi la richiesta di Mar'ja come un'occasione per andarmene – sapevo che probabilmente tutti si stavano chiedendo che fine avessi fatto – e le salutai gentilmente. Nadjeda mi accompagnò fino alla sub- entrata, poi mentre mi rimettevo addosso i miei vestiti fece per andarsene, ma poi cambiò di idea. Mi fece un discorso che ricordo tutt'oggi:
«Devi perdonare mia figlia... in realtà era molto felice che tu fossi qui, talmente che sarebbe potuta scoppiare a piangere. La prima volta che ti vide, così debole e malaticcio ebbe una grande paura di te, ma poi tornò da me con gli occhi lucidi dicendomi “È una persona davvero bellissima, bellissima e gentile” perché ti vide fare non so che cosa, ma non capita molto spesso che faccia complimenti. Da quel giorno in cui avete giocato insieme, quando tornò a casa, non ha mai smesso di parlare di te. Ogni tanto, nelle giornate in cui non cadeva la neve, la vedevo intenta ad osservarti mentre giocavi con i tuoi amici, come se volesse unirsi a voi maschi. Se non fosse così terrorizzata sono sicura che lo farebbe.» Poi mi lanciò un'occhiata significativa. Terrorizzata da cosa? mi chiesi. Poi mi ricordai che era tutta pazza. Forse erano davvero alieni delle neve. Annuì e mi sbrigai ad uscire da quella strana casa, ritrovandomi a contatto con il gelo naturale dell'esterno. Mentre velocemente m'incamminavo a casa giunsi a una rivelazione. Improvvisamente la vita aveva qualche attrattiva, mi sentivo importante. Maša aveva bisogno di un amico, era ciò che mi stava chiedendo Nadjeda.
  
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