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Autore: HuGmyShadoW    21/03/2008    1 recensioni
Speranza... Spesso è solo questa che ci resta dopo un evento tragico come la perdita di un amico. E spesso è solo lei che ci aiuta a volare, a non rimanere schiacciati a terra... Ma non sempre è la speranza a metterci le ali...
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“HiLf MiR FliEgEn”


Il cielo è azzurro, terso e pallido, come un foglio bianco su cui è stato steso abilmente un colore acquerello. Da lassù, in alto in alto, il sole quasi mi scotta la nuca da tanto è caldo. Alzo gli occhi schermandomeli con una mano. Delle nuvolette soffici e delicate sembrano quasi macchiare e sporcare quella immutabile perfezione.
È una splendida giornata di Maggio. E mai potrebbe essere più orribile...
Abbasso la mano a strattonarmi il colletto della giacca nera: mi sta soffocando! Mi guardo intorno, e mentre nessuno guarda, mi slaccio velocemente due bottoni della camicia bianca.
Sospiro di sollievo e sorrido silenziosamente.
Improvvisamente, smetto. Un brivido freddo mi ha attraversato la schiena. Abbasso gli occhi.
Lentamente, con misurata attenzione, mi volto. Con la coda dell’occhio scorgo solo un pezzo di prato verde brillante, tante sedie di plastica e piedi e pantaloni e gonne. Tutte nere. Solo nero, bianco e verde, e facce più o meno conosciute.
Mi rigiro ridendo di me stesso. Che stupido. Quasi pensavo fossi dietro di me, a tentare di trattenere una risata per i miei buffi comportamenti, con una mano davanti alla bocca e gli occhi grandi luccicanti.
Che stupido... Ma sono umano anch’io, no?

Ricordo... ricordo. È facile, adesso, trovare tutte le tue qualità, vero?
Ma perché cazzo adesso dovrei stare ad elencarle? Lo sappiamo tutt’e due che ci hai sempre mostrato il tuo lato migliore! Lo sappiamo tutti che eri gentile, generoso, disponibile, accondiscendente, modesto, introverso, forte...
Merda... Hai visto? Alla fine non ce l’ho fatta. L’ho detto... E smettila di sghignazzare perché so che lo stai facendo! Sì, sto parlando proprio con te lassù, “Mister Faccia Tosta”!
Perché, ammettiamolo, eri anche un po’ rompiscatole quando volevi...
“Ma con chi cazzo sto parlando?”, penso incredulo, asciugandomi le minuscole goccioline di sudore che mi imperlano il viso.
Sì, anch’io sono umano. Anch’io sono debole. Anch’io, adesso, riesco a piangere...

Da qualche parte, all’improvviso, una musica d’organo comincia a suonare, diffondendosi nell’aria e facendomi stringere il cuore.
Ma che razza di musica è?! Se “musica” si può chiamare...
Arricciò il naso, ma non faccio altro. A che servirebbe?
Non mi volto, al contrario di tutti i presenti, quando la musica si avvicina, accompagnata da quattro uomini silenziosi e lacrime. E non solo. Anche da te.
Sì, ci sei anche tu, fra quei quattro sconosciuti...
Abbasso la testa e mi metto a fissare ostinatamente una foglia un po’ più scura delle altre, vicina alle mie scarpe di vernice.
Non ce la farei a guardarti. No, proprio no...
Il vento si alza improvvisamente, e mi sorprende, scompigliandomi i capelli e gonfiandomi i pantaloni eleganti. Un improvviso segno di vita, quasi...
I passi, attutiti dal tappeto d’erba, diventano sempre più vicini, e la “musica” con loro.
Ora sono proprio davanti a me.
Non resisto.
Alzo lo sguardo. Me ne pento all’istante.
Il mio viso si rispecchia nel lucido legno di mogano. I miei occhi sono sbarrati e un po’ gonfi ora, la mia bocca spalancata e vuota.
Distolgo lo sguardo a fatica mentre tutto diventa appannato e distorto.
Mi passo una manica sugli occhi. Tu non avresti voluto che piangessi...
Un prete apparso dal nulla si para improvvisamente di fronte a te, e fissandoti un momento con un’ipocrita espressione compunta e addolorata, tira fuori un libricino nero e parte.

Ecco, la parte che più odio. Ma a che servono tanti sermoni? Nemmeno a te sarebbero piaciuti!
Sbuffo, e mi guardo stizzosamente alla spalle.
“E se almeno mi sedessi...?”, medito.
Per buona educazione, decido di no, e aspetto ancora dieci minuti in piedi, reprimendo la voglia di addormentarmi. Sbadiglio vistosamente, ma ad un’occhiataccia di un’anziana signora con un cappellino di velluto in testa smetto subito.
“Ma sì, chi se ne frega...”, penso, e con uno sospiro mi accomodo sulla bianca sedia di plastica dietro di me. Quella scricchiola paurosamente, e la stessa signora mi fulmina ancora con lo sguardo.
Alzo le mani come per scusarmi, e quando quella torna a fissare avanti, la mando a fanculo.
Rido il più silenziosamente possibile, premendomi le mani davanti alla bocca: ad un funerale, non sarebbe proprio il caso di sghignazzare in faccia al prete, no?
Mi ricompongo, e ho di nuovo quel brivido.
Ma stavolta non mi volto. Sarebbe perfettamente inutile.
Tu sei già lì, davanti a me...

Dopo una interminabile ora di monotone nenie e interminabili prediche, è il momento.
Il prete tace (“Finalmente!”, vorrei urlare), mette via il suo libricino e tende la mani sopra il tuo viso.
Quante scene...
Borbotta ancora qualcosa, poi si scosta e i quattro uomini di prima si alzano.
Prendono la tua bara per gli angoli e se la issano sulle spalle con sbuffi poco cerimoniali.
Dai, ammettiamolo, non eri un fuscello, eh!
Si ricomincia.
L’organo ricomincia a cantare, e i quattro sconosciuti, sopra quelle malinconiche note, sfilano ancora davanti a me.
Ma insomma, non potete passare da un’altra parte?!
Deglutisco, e tengo lo sguardo fisso sulle mie mani.
Tremano. Tutto il mio corpo trema.
È troppo per me.
Mi alzo, e senza una parola, un cenno, un qualunque segnale di scuse o spiegazioni, me ne vado.
Passo davanti ad una moltitudine di visi, alcuni compassionevoli, altri scandalizzati.  
Andate tutti a fanculo! Tutti!

Quando sono sufficientemente lontano mi metto a correre.
Che altro modo avrei di sfogarmi? Senza procurare danni a proprietà private altrui, intendo.
Benedico mentalmente chi ha deciso che il funerale si tenesse in una radura, vicino ad un boschetto. Almeno, spazio per pensare ce n’è...
Imbocco un sentiero battuto che si inoltra nel folto del boschetto.
Gli alberi sono radi e giovani, ma creano un baldacchino smeraldo e giada da togliere il fiato.
Ovviamente, non mi preoccupo di osservare il panorama, e con un po’ di fiatone e un dolore al fianco, continuo a sfrecciare fra tronchi e arbusti.

Non so quanto ho corso, quanti metri o chilometri abbia fatto...
All’improvviso, il verde sparisce, e l’azzurro mi sorprende d’un tratto.
Freno bruscamente, sdrucciolando un po’ sulla terra e l’erba, e il fiato mi si spezza.
-Wow...-, bisbiglio soltanto, meravigliato.
Sotto di me, a pochi centimetri dai miei piedi, la più incantevole e struggente vista del mondo.
Dopo lo strapiombo improvviso, il mio sguardo si apre: infinito, blu intenso, verde pallido, azzurro chiaro, arancione rosato; scintillante, morbido, profondo.
Il mare. E sopra di lui, adagiato delicatamente fra onde di ogni genere, il sole. Al tramonto, arancio e rosso. Che colora il cielo di rosa, sfumato in un blu intenso, là, ancora più in alto.
La mia vista spazia in ogni direzione, e mai incontra ostacoli.
“È... bellissimo...”, penso, incapace di trovare aggettivi migliori.
Mi siedo prendendomi le ginocchia fra le braccia, e rimango lì, all’inizio dell’infinito.
Il vento mi sfiora delicatamente e mi culla in un modo così dolce...
“Sei tu, vero?”, ti chiedo mentalmente chiudendo gli occhi, concentrandomi, ascoltando veramente per una volta.
Una folata più forte, subito seguita da un’altra.
Ho capito. Mi basta.
E gocce salate che non hanno nulla a che fare con gli schizzi spumosi del mare dipingono il mio volto. Sì, io sono umano. E non ho paura di piangere.

Ancora una volta perdo la concezione del tempo.
Ad un tratto, però, un rumore dietro di me mi risveglia.
Ero talmente perso nei miei pensieri che quasi mi sono addormentato.
Mi volto, asciugandomi il viso.
E ovviamente, chi poteva spuntare dagli alberi, perfetto come sempre?
-Tom...-, mi chiama Bill dolcemente.
Mi alzo e lo guardo negli occhi. Il blu-arancio del tramonto ormai quasi spento si riflette nei suoi occhi gonfi. Non è preoccupato, solo molto comprensivo.
Si avvicina e mi abbraccia.
Non ci posso fare niente. Il suo profumo, così familiare, così intriso di ricordi, mi fa tornare indietro nel tempo.
I singhiozzi ricominciano a scuotermi. La sua stretta aumenta.
-Mi manca tanto... Tanto...-, mormoro con voce roca, rotta dai singulti.
-Manca a tutti...-, risponde Bill in un sussurro.
Le sue lacrime mi stanno inzuppando il colletto... Ma cosa me ne può fregare, adesso?
Ci stacchiamo nello stesso momento, e nello stesso momento sorridiamo asciugandoci gli occhi.
Non mi è nemmeno passato per la mente di chiedergli come aveva fatto a trovarmi. So che non avrebbe una risposta.

Il mio sorriso si affievolisce fino a scomparire.
Mi volto di nuovo verso l’immenso infinto che si presenta così ingenuamente davanti a me.
Dietro di me, invece, sento i passi delicati di Bill arretrare e sparire, fra fruscii e rami spostati.
Di nuovo il silenzio.
Siamo rimasti solo io e te.
-Gustav... -.
Finalmente ho il coraggio di mormorare il tuo nome.
Ti prego di scusarmi se non l’ho fatto prima.
Ancora mi rifiuto di credere che c’eri proprio tu, in quella fredda cassa di legno.
Sì, proprio tu, “l’angelo” del gruppo, quello che non beveva, non fumava, non diceva parolacce. Quello che si comportava sempre bene, che preferiva rimanere in disparte...
Sei stato proprio tu quello che se n’è andato per primo.
Un incidente stradale, l’hanno chiamato. Io non ci credo. Non può essere successo solo così... così semplicemente.
Ma sono stanco. Di pormi domande senza risposta, di far finta di essere chi non sono, di credere che i Tokio Hotel ancora non moriranno. Ma se il cuore della band ha smesso di battere, come può il gruppo continuare a vivere?
Una domanda retorica, questa volta.
Basta, la devo smettere.

Mi avvicino con attenzione al bordo di quel precipizio che finisce nel blu.
“Saranno almeno una ventina di metri...”, calcolo.
Eri tu, Gustav, che guidavi il gruppo, non Bill.
Eri tu che sapevi sempre tirare fuori la grinta, non Georg.
Eri tu che veramente suonavi, nel gruppo, non io...
Buffe considerazioni...
Tu ci hai sempre guidati, e continuerai a farlo, non è vero?
Il vento si infila nei miei vestiti e fischia prepotente più che mai mentre allargo le braccia e sorrido, inclinando la testa verso un cielo sempre più nero.
So che puoi sentirmi. So che ci sei.

Ora vieni, e aiutami a volare.
Prestami le tue ali, è quasi notte, potrò scambiarle col mondo intero che si stende sotto di me...

Abbasso le braccia, le tengo strette al corpo. Faccio un passo avanti. La terra sotto i piedi mi viene improvvisamente a mancare. Il mio stomaco fa una specie di capriola, come quando si salta uno scalino.
Vento da sotto, vento da sopra.

Vieni e aiutami a volare.

La giacca si gonfia, mi tira verso l’alto.

Prestami le tue ali.
Vieni e aiutami a volare.

Qualunque lacrima sulle mie guance è spazzata via da quello stesso vento prepotente che mi sta sostenendo ora. Non riesco ad aprire gli occhi, ma so che quella distesa crudele e bellissima di mare di avvicina sempre di più.
Sorrido. Solo, sorrido.

Aiutami a volare.

Infine, allargo le braccia. L’aria mi sostiene e mi trascina verso l’alto, più decisa di quando si era insinuata nella mia giacca.

Aiutami a volare.

E volai.





   
 
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