Disclaimer: I personaggi non
mi appartengono
Ma sono di proprietà della Marvel ©
0.1
PRELUDIO
Dal Diario del Dottor
Charles Cromwell.
Torre di Londra, Febbraio 20**
Mi ha convinto
a venire qui.
Mi ha costretto a venire qui, piegando la mia
volontà. E’ sempre così, sempre, non
cambierà mai.
Nessuno può
resistergli: i suoi occhi ordinano, le tue membra obbediscono. E’ un magnete, oh,
un dolce magnete che languido ti fa genuflettere al suo cospetto, e nulla ti
sembra sbagliato, nulla ti sembra fuor di giustizia, fintanto che esce dalle
sue labbra, dalla sua bocca bagnata di saliva purpurea, dalle sue iridi di
rosso metallo.
Lo anelo e lo
vorrei fuggire, ma più corro più il mio corpo si ribella, un istinto più
antico, animalesco, si risveglia
dentro di me e mi volge di nuovo al suo potere, ubbidiente come il più leale
dei cani.
Mi ha portato
qui su ali notturne, celato da nebbia e stelle morenti.
Mi ha portato
qui e ha sbaragliato i miei nemici, addormentato le guardie, spento le loro
anime con un solo scoccare dello sguardo imperioso.
Ora c’è
silenzio. Silenzio e morte, un vago retrogusto di putrefazione, di ragnatele
rarefatte come l’aria che marcisce nei polmoni.
Sotto di me, uno
scheletro di ossa biancheggianti di polvere, frantumate all’altezza del petto -Posso
ancora vedere schegge di frassino a trafiggere brandelli di costato, rimasugli
di midollo e pelle cadente, violacea, morta.
Risveglialo mi ha ordinato Risveglia il mio figliol prodigo, l’aristocratico devoto.
Le mie mani
tremano mentre sollevo quel ridacchiante ammasso pallidiccio; i denti
innaturalmente lunghi, conficcati nell’arcata dentaria, paiono ridere di me e implorarmi
all’insieme.
Risvegliami sembrano pregare Risveglia questo figliol prodigo, l’aristocratico devoto.
Ma posso farlo?
Posso davvero farlo?
Io credo di no.
Il mio signore
mi ordina di sì.
Mi metto al
lavoro.
0.2
Giorno
1.
Giugno
20**
Cieli
di Londra.
Quinjet
dei Vendicatori.
La fronte è sudata.
Strano.
La temperatura è nella norma, solo un
breve soffio di aria condizionata fischietta timidamente tra i sedili: non c’è
troppo caldo, giacché nessuno dei presenti è costretto ad assistere all’imbarazzante
comparsa di pezzuole nerastre sotto le ascelle di Barton, ma non c’è neanche
così freddo perché segnacoli di brividi compaiano sul petto di Natasha –Con gran disdetta dei presenti. Tranne forse di
Capitan America. Ma è difficile capire cosa gli passi esattamente nel cervello,
né se i suoi neuroni abbiano mai elaborato una fantasia sessuale che andasse
oltre Betty Grable e il di lei sorriso occhieggiante da sopra la spalla.
Ma la fronte è sudata, Tony sente
distintamente goccioline appiccicose gelarsi sopra e tra le sopracciglia,
raccogliendosi nell’incavo delle guance e asciugando, seccando, impastando di
gusto rancido bocca e lingua.
Avverte anche una fastidiosa
oppressione al petto e questa volta non si tratta del grappolo di schegge. È
qualcosa di indistinto. Pressante. Pesante. Batte ad un ritmo diverso del
cuore, affonda nel torace, singulta tra le costole, singhiozza contro i polmoni
e ricade, un tonfo di baratro nero, cerchi lividi ad insozzare il sangue.
Si libera con un gemito d’aria compressa
del casco. Si sente soffocare, l’aria è troppo
calda, il respiro ruscella bollente lungo la trachea e i polmoni sono ormai sul
punto di esplodere.
Capitan America lo fissa dal posto
accanto e sposta la mano sul bracciolo fino a sfiorargli casualmente le dita.
Non si può permettere gesto più palese o plateale: non sono soli e questo lo
frena dallo stringere la presa, dall’accompagnarlo a posare la testa sul suo
petto, dall’accarezzargli i capelli dalla tempia fino al lobo dell’orecchio.
C’è troppa gente, anche se sono solo Vedova Nera e Occhio di Falco, ma si
trattiene comunque.
Barton ridacchia.
Tony ignora entrambi.
Vuole solo riposare.
Vuole solo grattare in pace lo sfogo
che sa essergli comparso all’altezza della clavicola.
Affondare violento le unghie nella
pelle arrossata che morde e che prude, che mangia e che dilania senza freno e
non gli dà requie.
Chiude gli occhi.
Appoggia la testa contro il
finestrino.
Affoga.
Ma non sogna.
La fronte è sudata.
Strano.
Giorno
1
Giugno
20**
Manhattan,
Stark Tower.
Camera
di Tony Stark e Steve Rogers.
Notte.
L’amore con Steve è stato affannato,
diverso, sudato.
Tony apre gli occhi con il braccio
del compagno a comprimergli il torace, il suo volto addormentato conficcato tra
le scapole.
Ansima.
Annaspa.
Scivola via dalla sua stretta, si
libera del calore del suo abbraccio, svicola dalle lenzuola, dai ruvidi
maelstrom di tessuto che gli scorticano l’addome accaldato.
Siede sul bordo del materasso, si
prende la testa tra le mani: sussurra crocchiolii disperati tra i denti
tremuli, le tempie sbiancate da un orrore freddo, senza nome, la schiena
percorsa da brividi in ottave di staffilate che sanno di morte e legno odoroso.
È nudo.
Batte i denti.
Non ha idea di cosa accidenti gli sia
preso.
Suda ancora, non la smette, ha sempre
più caldo, così caldo che sente la pelle raggrinzirsi sulle ossa spugnose, la
carne ritirarsi dai legamenti bagnati, i nervi raggomitolarsi su se stessi con
un gemito liquido. Ha caldo e trema di freddo: l’aria condizionata lo copre di
brina invisibile, il calorifero lo corrode.
Steve ha cercato di aiutarlo, ha
fatto l’amore con lui. Tony s’è dibattuto in una corrente di sogno, cercato
aiuto e il corpo di Steve, ma non ha trovato né l’uno né l’altro, nonostante la
mano tesa di Steve, la voce di Steve come unica guida in un mare immoto,
frastagliato di confusione e insensatezza.
L’orgasmo lo ha lasciato inebetito,
istupidito, ha abbandonato un pianto immotivato negli occhi.
Steve si è addormentato al suo
fianco, l’ha tenuto a sé, l’ha stretto contro il cuore, Sono qui gli ha sussurrato Sarò
sempre qui, ma Tony non è riuscito a sentirlo.
Tony sudava. Continua a sudare.
Manhattan dondola appena fuori dalla
finestra, un pendolo che destra e sinistra barbaglia di luci, destra e sinistra
canta mormorii e singhiozzi, destra e sinistra le insegne s’avvolgono a
spirale, destra e sinistra globi scarlatti appesi al cielo notturno, destra e
sinistra pupille affilate di gatto che soffia, destra e sinistra gira la
spirale di suono, destra e sinistra un punto fisso al centro della testa,
destra e sinistra roteano strisciano serpeggiano destra e sinistra lingue di
bianco e lingue di nero destra e sinistra tutte vertono su quell’unico punto
destra e sinistra Dormi destra e
sinistra la testa ondeggia Sogna destra
e sinistra perde la presa.
Tony crolla.
Barcolla e sprofonda.
L’amore con Steve è stato affannato,
diverso, sudato.
E la clavicola morde e prude, mangia
e dilania.
0.3
INTERLUDIO
Dal Diario del Dottor
Charles Cromwell.
Feudo di Falsworth, Marzo 20**
Il padrone mi
ha schiuso i segreti del tempo, nel coito con la morte ho trovato l’accesso
alla vita. Mi ha lasciato solo, ma non mi abbandonderà mai davvero.
È qui, nella
mia testa: sento suadente il sussurro sibilino salire sull’ossa, sul sangue.
Moine d’emoglobina e io, adorante, rispondo.
Ordini malarici
e io, anelante, obbedisco.
Mi ha schiuso i
segreti del tempo, ho sostituito scheletro allo scheletro. Quando? Non lo so.
Non ricordo. Le memorie sono confuse, sono nebbiose, ma il padrone è con me e
ho rivestito di nuova pelle il figliol prodigo, l’aristocratico devoto.
Ora è bella,
ora è bianca, bianca di stelle ricoperte di biacca e cerone. È pronto per
entrare in scena, lo so. Lo sento. Anche il padrone è soddisfatto.
Il padrone
sorride nella mia testa e io mi sciolgo di quel suo sorriso affilato, appuntito, vivrei solo per lui, per lui
solo morirei.
L’ombra del
castello è tanto lunga da farmi da coperta e lenzuolo, mi ci avvolgo, mi ci
rifugio mentre spio gli esiti del mio lavoro e chiamo il mio padrone, il mio
signore, Guarda! gli dico Guarda! Il frutto dei tuoi insegnamenti,
Maestro delle Tenebre e del Nulla che Tutto Genera, Dio del Sangue! Guarda! Il
figliol prodigo, l’aristocratico devoto è pronto a risorgere! Risorgerà!
Avverto un
gemito, aria risucchiata vorace.
Sporgo la testa
sopra la cassa.
È vivo.
Mi guarda.
Ha gli occhi
neri e pupille di gatto, il volto scarno, un triangolo rovesciato che s’affina
al mento bombato; posso contare le costole, le dita sono artritiche, le unghie
come artigli, rasoi coperti d’un opaco velo in cheratina. Il torace è oblungo,
l’addome rinsecchito, le gambe allampanate, le ginocchia gonfie e sporgenti. I
piedi paiono pinne, squamosi, lucidi, appiccicosi di melma bavosa.
Mi guarda e
solleva le labbra cianotiche in un ghigno sorridente, così dissimile da quello
del padrone da essere quasi uguale.
Mi sorride. La
lingua pallida guizza a solleticare la punta di un canino.
Potrei morire.
Lo voglio. Lo
desidero.
Si solleva dal
feretro. La notte intesse una corona sbiadita, ciancicata, attorcigliata di
filamenti astrali; la luna sgocciola liquami argentei sul cranio coperto appena
di una peluria grigiastra, come quella che gli nasconde il flaccido incunearsi
del pube.
Mi guarda.
L’orbita è
viola, l’iride della tonalità delle false perle, la cornea impregnata del
giallo da ittero.
Ripete il gesto
con la lingua.
Oh, come lo
voglio.
Mentre scrivo,
arcua la schiena scheletrica sui bordi lignei, proprio come i gatti in procinto
di spiccare un salto. Le vertebre sono spunzoni taglienti, creste ossee
deliziosamente ricurve.
Padrone, che
regalo! Che meraviglia! Lo voglio!
È mio! Mio!
È---*Il diario si interrompe con una striatura
rossa*
0.4
Giorno
2.
Giugno
20**
Manhattan,
Stark Tower.
Attico.
(Sono
solo due nella stanza: Steve Rogers, Capitan America, legge un giornale seduto
comodamente in poltrona. Tony Stark, Iron Man, è dietro al lungo tavolo di linoleum
bianco, una mano sostiene la testa, l’altra è artigliata alla tazza di caffè
ormai presumibilmente freddo. Non deve aver dormito molto, forse non ha dormito
affatto. Si aggrappa alla minuscola stoviglia quasi fosse tutto il suo mondo.)
STEVE: (sollevando gli occhi dalla carta stampata) Si stanno verificando
le stesse sparizioni di Londra.
TONY: (senza dare alcun segno di aver compreso o anche solo sentito quanto
gli è stato detto) Mh.
STEVE: (Imperterrito) Non posso credere che sia vero. Eppure ricordo che…(corruga la fronte) Tony, mi stai
ascoltando?
TONY: (finalmente alza la testa) Eh?
(Steve
sobbalza, spaventato. Tempo un istante ha lanciato il giornale sulla poltrona e
le mani, prima occupate a tenere alti i fogli imbellettati di inchiostro, ora
sono al volto del compagno e lo girano e lo esaminano e lo accarezzano e lo
toccano, per assicurarsi che sia carne vera quella sotto i polpastrelli, e non
frattaglie d’ectoplasma. La pelle di Tony non ha più colore, come qualcosa o
qualcuno avesse succhiato via tutto il sangue; gli occhi sono fondi, le
palpebre ispessite d’una tonalità tra il livido ed il nero, incassate
nell’orbita gonfia, purulenta. La bocca è una strisciolina bianco-rosa,
malsana, la barba si è incartapecorita, ingrigita come i capelli alla base
delle tempie.)
STEVE: Tony! Tony che ti succede? Che
hai? (Si umetta le labbra con la lingua.
Sono secche, hanno il sapore della sabbia) E’ da ieri che sei strano. Da
quando sei sparito mentre aspettavamo di incontrare Union Jack.
TONY: (Con voce atrofizzata) Io…Ho freddo.
STEVE: (Poggiando il palmo della mano sulla sua fronte per sentirne la
temperatura) Freddo? Ti stai praticamente liquefacendo…!
TONY: (Guardando un punto distante oltre la parete) Sì.
STEVE: (Preoccupato) Sì, cosa?
TONY: (Annuisce) Sì (Col medesimo
tono monocorde)
STEVE: (Lo prende per le spalle, sempre più preoccupato) Tony, ma che…
(Steve
non riesce a concludere la frase che l’ID-Card pigola e vibra. Il Capitano
sminuzza un’ingiuria tra i denti, le dita corrono impacciate a cercare il
tesserino: lo solleva quel tanto che basta per tenere sotto controllo sia lo
schermino digitale che Tony, ancora davanti a lui.
Tony
non si è mosso, non ha dato cenno di aver visto o udito alcunché. Gli occhi sono
vitrei, le braccia penzolano lungo i fianchi, la bocca è appena schiusa a
mostrare un baluginio bianco di denti. Continua a guardare il punto imprecisato
sulla parete. Non dice una parola.)
STEVE: (Rivolto al tesserino) Qui Capitan America.
(Sul
quadrato digitale che funge da schermo appare il mezzobusto di Nick Fury.)
NICK FURY: Capitano Rogers,
convocazione urgente. Sull’Helicar dello S.H.I.E.L.D. fra venti minuti.
(Steve
assottiglia le labbra, gli occhi corrono al viso assente ed esangue del
compagno)
NICK FURY: (Tono indurito, metallico) Qualche problema, Capitano?
STEVE: (Dopo un attimo di esitazione) No, signore. Ci sarò. (Un istante di silenzio) Il Barone John
Falsworth, vero? Sta colpendo anche qui.
NICK FURY: Mi dispiace, Capitano.
(L’ID-Card
si spegne con un pigolio e Steve la rimette nella tasca. Alza gli occhi al
soffitto, deglutendo pesantemente.)
STEVE: J.A.R.V.I.S., visto che sia
Vedova Nera che Hulk non sono reperibili, contatta Occhio di Falco. Priorità
massima, lo voglio a tenere Tony sotto controllo.
(Una
voce computerizzata si diffonde nell’attico)
J.A.R.V.I.S.: Sì, signore.
(Steve
sospira, guarda Tony negli occhi. Questi non ha reazione, non sembra neanche
essere davvero lì. Non sembra neanche essere vivo. Una ruga va ad aggrinzire la
fronte del Capitano –Un dubbio? Un sospetto?-. Scuote la testa, bollando di
ridicolo il pensiero appena formulato –Forse sta solo sperando, pregando che i suoi sospetti siano infondati)
STEVE: Devo andare. Sarò qui quanto
prima. (Gli lascia un bacio all’angolo
delle labbra. Tony non risponde, non si muove)
(Steve
chiude gli occhi. Sospira. Poi esce.
Tony è
ancora dietro al tavolo di linoleum. Annuisce di nuovo.)
Giorno
2
Giugno
20**
Manhattan,
Stark Tower.
Camera
di Tony Stark e Steve Rogers.
Notte.
Destra. Sinistra.
Il dondolio è ricominciato, forse non
è mai cessato.
Steve non è lì, Tony non sa dove sia.
Lo stomaco si torce. Forse dovrebbe preoccuparsi. Dov’è? Perché non ricorda di
averlo visto andarsene? È tutto confuso.
Destra. Sinistra.
Il dondolio continua, forse non si
fermerà mai.
Non pensa più a Steve. Lo stomaco è
calmo, pesa nel ventre. Non sa dove sia Steve, ma la mente non formula più
alcuna domanda, non reagisce più ad alcun pensiero, ad alcuna preoccupazione.
Destra. Sinistra.
Il dondolio non smette, non lo farà mai.
Di nuovo, gli occhi appaiono dietro
la finestra: sono carboni ardenti, sono spilli conficcati nel tessuto stesso
della realtà, sono squarci felini attraverso il pulviscolo notturno.
Steve non è lì.
Destra. Sinistra.
Steve non è lì, ma ora gli occhi sono
dentro la stanza.
Steve non è lì, ma ora c’è un uomo al
posto suo e Tony rimane seduto sulla sponda del letto, a guardarlo, ad
osservarlo, a fissarlo. Il prurito al collo quasi ringhia, si fa insopportabile
e se Tony ne avesse ancora la forza, porterebbe la mano alla sua altezza e si
strapperebbe via la pelle con un unico, feroce gesto di sfida.
Ma Steve non lì.
C’è un uomo al posto suo.
E’ alto, distinto, viso triangolare e
occhi abbaglianti di una strana luminescenza rossastra.
Emerge dall’ombra, la vezzeggia con
un bacio ed un sussurro, ne fa una marsina di seta antracite aperta su un gilet
borgogna, ornato di pomelli grigio scuro. Tiene la testa piegata con indolenza
sulla spalla, così da scoprire la clavicola ben modellata, stretta dal collo
montante e cinta con presa ferrea dalla cravatta inamidata, splendente di
bianco virginale.
Le brache di lino color crema sono
chiuse al ginocchio da un cinturino di cuoio, inguainate in un paio di alti
stivali in pelle marrone, ombreggiate dalla linea liquida del bastone da
passeggio; l’uomo ne stringe il pomello ricurvo in argento, a guisa di rettile,
picchiettando l’unghia affilata contro l’occhio dell’animale –Serpente? Drago?
La corta frangia rosso-brunita
nasconde appena le sopracciglia inarcate in un deliziato, sensuale
divertimento, i riccioli ruggiscono e ondeggiano ai lati delle tempie, sopra le
orecchie.
Tony lo osserva e pensa ancora che
Steve non è lì, ma destra e sinistra ticchetta l’orologio che l’uomo tiene
distrattamente appeso alle dita, destra e sinistra e non pensa a nulla.
Non pensa più.
E' vuoto.
E' riempito solo di quel color borgogna, della voce melliflua che lo culla e lo ammalia.
«Mi senti?» chiede l’uomo e la voce
nasconde un riso da dominatore, la bocca dalle labbra sottili si solleva a
disegnare un arco saputo, soddisfatto, sulla mascella aristocratica.
«Sì»
«Mi obbedirai?» si avvicina e nasconde
l’orologio nel taschino.
Piega languidamente le spalle, in un
inchino ricercato e studiato, per arrivare a sfiorargli la curva del mento a
punta di dita e giocherellando con la barba ispida.
«Sì»
«Cosa sarai per me?» ora la voce
carezzevole è il sibilo della spada sguainata, del metallo battuto dal martello
rovente, latrato di cane rabbioso.
«…Vendetta.»
0.5
EPILOGO
Diario.
Feudo di Falsworth, Aprile 20**
Ho ripreso le
forze.
Il sangue dei
pazienti mi ha rinvigorito.
Il mondo è
cambiato e allo stesso tempo non è accaduto nulla che potesse destare il mio
interesse. Esiste solo una cosa in grado di tenermi vigile, tenermi vivo: la vendetta.
Ho letto molto
di lui, di loro.
Devo colpire.
Partirò oggi
stesso.
Diario.
Manhattan, Maggio 20**
La notte li
protegge, ma non sono consci del mio famelico osservare.
Oh.
Oh, fra tutte
le cose, poi, mai avrei immaginato un simile risvolto. Non era nei piani, ma
ora, ora…! Oh, sciocco, sciocco. Mi hai offerto tu stesso la vendetta, l’hai
servita su di un piatto d’argento, accompagnata da un suadente calice colmo di
sangue zuccherino.
Suggella pure
l’incontro clandestino, apice ed apoteosi di molteplici incontri parimenti clandestini.
Abbeverati al
suo respiro, finché puoi.
L’ansito che ti
sgorgherà dalla gola, nella quiete peccaminosa delle vostre stanze, non è che
il preludio al tuo pianto futuro.
Diario.
Torre di Londra, Giugno 20**
Eccolo.
Diviso dai suoi
compagni.
Pronto alla mia
venuta.
Tiene il casco sottobraccio, il corpo cinto d’una
corazza più spessa e dura del ferro.
Si sente al
sicuro, si sente baldanzoso. Non crede alle storie di fantasmi, per lui uno
scheletro è uguale ad un altro, e la gente sparisce dalle grandi città fin
dall’inizio dei tempi. Ma fa comunque un giro di perlustrazione, blandito da
uno sguardo e da una parola, da una tacita promessa di ricompensa allorquando
la solitudine sarà loro unica compagnia.
Si crede
predatore, non sa di essere preda.
Si crede
difeso.
Ma da qui posso vedere perfettamente il suo collo
scoperto.
0.6
Giorno
3.
Giugno
20**
Manhattan,
Stark Tower.
Stanza
di Tony Stark e Steve Rogers.
«Tony?»
La porta cigola e guaisce, come nel
peggiore dei film horror.
E Clint li detesta, i film horror, li detesta con tutta l’anima. Figurarsi
avere la netta impressione di trovarsi nel bel mezzo di uno di essi.
Mette un piede nella stanza percolata
di nero, dove agglomerati di ombra spenzolano bavosi dagli angoli del soffitto,
dove grumi scuri si affastellano appallottolati sotto al letto, dentro
l’armadio, dietro il comodino. L’aria è pesante, le finestre sigillate, le
imposte sbarrate; persino il sottile filo di luce che dalle spalle di Barton si
fa timidamente strada sulle piastrelle decide che non è più posto per lui,
quello, e arretra un passo alla volta, si affaccia ancora un istante dallo
stipite.
Scompare.
La camera ripiomba nell’oscurità e
Barton comincia a ripetersi che non è una bionda maggiorata e stupida, ergo non
deve preoccuparsi della pellaccia. Lo sanno tutti nei film horror la prima a
perdere la testa o arti limitrofi è la bionda maggiorata e stupida di turno.
Lui è tranquillo. Non verrà smembrato, né trucidato brutalmente.
È un inizio. Un ottimo inizio.
Avanza ancora, avanza circospetto,
avanza fino a ritrovarsi al centro esatto dell’incubo, costretto tra il
mastodontico armadio a muro e gli sgangherati, idrofobi piedi del letto,
seminascosti dal rigurgito malsano e azzurro delle lenzuola gettate in terra
alla rinfusa.
Di Iron Man non c’è traccia.
Non un rumore smuove il silenzio
claustrofobico.
Barton deglutisce, umettando poi le
labbra con un guizzo nervoso della lingua.
Che Stark sia strano lo pensa dacché gli è
capitato il suo file S.H.I.E.L.D. sotto mano, ma adesso il suo comportamento è
strano ai livelli di Freddy Krueger.
Steve lo ha chiamato il giorno prima
perché lo tenesse d’occhio, ma quando è arrivato alla Tower l’AI che gioca a fare
il maggiordomo gli ha fatto notare come il Signor
Stark fosse salito nelle proprie stanze –Dove è rimasto fino ad adesso,
evitando di scendere persino per mangiare.
È rimasto solo perché Steve è un
brav’uomo e non vuole ritrovarsi il suo scudo al posto dell’arcata dentaria.
…E poi anche per i liquori gratis e
le cibarie accuratamente disposte nel frigorifero.
«Tony, dove sei? Il Grande Pirata In
Carica ci vuole tutti sul ponte, ahrrrr--»
Lo mette a disagio non riuscire a
vederlo –Lui vede tutto, ma non vede Stark, non in quel momento. Il buio non è
mai stato un problema, ma è come cieco, adesso, e Stark si nasconde, non
respira, nessun riflesso d’iride o movimento alcuno, è come celato al mondo, è
assurdamente celato agli occhi. E la cosa non gli piace.
La cosa lo costringe a dibattersi tra
la stolida solidità marchio di fabbrica S.H.I.E.L.D. e il panico che già romba
muto in fondo alla gola, ribollendo tra le costole.
Fump.
Qualcosa caduto sul morbido.
Clint scorge subito il materasso che s’incava
sotto un peso non indifferente, ma non chi
è appena saltato sulle coperte.
Frush.
Le lenzuola cadono, il qualcosa si è
spostato –E’ veloce, maledettamente veloce, e Clint non lo vede, non lo vede
ancora e se non le vede arrivare è la fine perché, dannazione, lui è comunque
biondo naturale.
Tum.
Contro il muro, ora.
Il suono è quello di una mano
schiantata sulla parete, i polpastrelli che cercano appiglio sulla superficie
liscia e scivolosa, tinta del bianco che scivola graduale ad un tiepido
azzurro, tipico degli ambienti personali di Stark.
Tump.
Tump. Tump. Tump.
Passi.
Passi animaleschi sul soffitto e
Clint si maledice per non aver portato con sé l’arco o anche solo una
graffetta; alza gli occhi, ma quello che vede è solo il neon spento, un
ritaglio rettangolare smorto, inutile, e accanto---
«Tony!»
Clint Occhio di Falco Barton vede
tutto, quello che è reale e quello che non lo è.
Ma quando Tony Stark gli balza
addosso -Tony con la faccia contorta, abbruttita, imbestialita, Tony con gli
occhi di fiamma e il volto cadaverico, Tony con la bava alla bocca e i denti
snudati- ha solo il tempo di pensare che ormai è troppo tardi.
Giorno
3
Giugno
20**
Manhattan,
Stark Tower.
Camera
di Tony Stark e Steve Rogers.
Notte.
Steve entra.
La polvere sospira di piacere sotto
la suola degli stivali.
Il lezzo di metallo e morte è tale da
fargli lacrimare gli occhi: si porta la mano sinistra al volto, nascondendo
narici e bocca dietro la piega dura del pugno.
Un chiarore violaceo aleggia sognante
nella camera da letto, si acciambella, umido e tumido, nei bozzoli enfi della
coperta; nenie di colori si rincorrono e si chiamano e bisbigliano di
fantasmagorie blu e grigie, le tende s’irrigidiscono al pigolio di nuvole che
chiare annunciano l’arrivo dell’alba e già si dividono a lasciar passare i
primi raggi del sole. Gli ampi vetri dell’armadio a muro specchiano il biondo e
l’oro della testiera del letto, l’abat-jour crema sul comodino, il paralume
bombato e bordato di una sottile striscia argento nel punto in cui il collo si
restringe, fino ad assumere forma tubolare.
Il corpo di Clint Barton è
innaturalmente spezzato, si profila aguzzo, lucido di sangue nella penombra.
Gli occhi sono sbarrati al soffitto,
la bocca aperta oltre le possibilità della mandibola –Staccata di netto e
mollemente appoggiata sul torace divelto; il naso quasi non si vede, coperto
com’è dall’escrescenza tumefatta delle guance sbranate. La testa è slanciata
verso sinistra, tanto che l’orecchio si appoggia senza sforzo sulla spalla:
bisogna ringraziare lo squarcio alla gola per quella posizione pacifica al
limite dello struggimento.
Il torace è un’esplosione di organi
disciolti e viscere fuse; lo sterno spicca candido nel violento porpora
generale, le costole affondano ancora dietro le ascelle fino alla colonna
vertebrale, come se nessuno le avesse avvertite che non c’è più bisogno della
loro protezione. Il bacino fratturato s’inarca scomposto, più alto sulla
destra, e vi pendono brandelli ondeggianti di pelle putrida e carne morta.
Liquami biancastri rigagnolano lenti
tra i nervi strappati e la carne masticata, dilaniata, lacerata brano a brano.
Quando Steve solleva lo sguardo dallo
spettacolo impietoso, Tony lo sta fissando di rimando dalla finestra.
Non è mai stato così bello.
I capelli scuri nella loro incolta
cura scivolano dalla fronte alta alla nuca, pettinati all’indietro sopra la
punta dell’orecchio; la barba circonda perfettamente la curva decisa del mento,
risalendo col pizzetto a coprire la fossetta sorridente sotto il labbro
inferiore, e i baffi sono sollevati a seguire il morbido movimento della bocca
scarlatta, appena alzata in direzione degli zigomi. La pelle è candida, fredda
di marmo e di neve, solo un velo rosa sulle guance e all’angolo dell’orbita,
un’indecisa pennellata sulle nocche e sui polsi sbiaditi.
Gli occhi hanno assorbito tutti i colori del
mondo, sono neri e venati di rosso, palpitano di sangue vivo, s’accordando
armoniosi alla tinta cardinale del rivoletto che placido cola dai denti
patinati di vermiglio e scivola languido lungo la linea del collo, soffermandosi
appena a definire i contorni di due cerchiolini innocenti, paonazzi, per
sparire oltre il bordo della maglietta insozzata e lacera, là dove Barton ha
affondato le unghie in un ultimo, patetico tentativo di aver salva la vita.
Tony preme la lingua contro il labbro
superiore, depositandovi una stilla color rubino.
«Steve.» soffia un sussurro e
socchiude soddisfatto le palpebre bianche, le ciglia lasciano cadere fili
d’ombra sui tratti affilati «Non ho più freddo.»
Il Capitano deglutisce, fatica a
tenere insieme parole e concetti.
Lì, lì ai suoi piedi c’è il corpo di
Clint, sfatto, mutilato, brutalmente a pezzi, e là, davanti a lui, contro la
finestra, ma senza riflettersi sul vetro, c’è Tony, contaminato dal morbo di
Falsworth, dalla malattia del Barone Sangue –Quel Barone Sangue che è stato a
chiamato ad eliminare e che gli ha rivolto parole incerte, incomprensibili
nell’ultimo baluginio di vita corrotta. Ho
comunque la mia vendetta ha ghignato, prima che Steve gli staccasse di
netto la testa grazie al fedele scudo Ho
comunque un figlio- e, Dio, Tony non
è mai stato così bello, mai così letale, e non sa che fare, sa che deve agire,
e non ci riesce, e il lezzo putrescente si fa più forte, e Stark è vicino, oh
così vicino, il suo respiro ha il tanfo mefitico degli intestini rancidi, la bocca
irrorata di rosso violento –Amore e morte, sensualità e rigor mortis
avvinghiati nella camera immersa dentro l’irrealtà di un’alba decisamente troppo
lontana per crederla vera.
Gli incastra il volto nella mano
destra e Steve ha un moto di ribellione, lesto gli stringe le spalle e tenta di
allontanarlo, ma la lingua di Tony è più veloce e pizzica, picchietta il lobo
dell’orecchio, le labbra scendono a reclamare eloquenti il possesso della
clavicola. La resistenza del Capitano è fumo, ora, a contatto col suo respiro
bollente, con le dita che gli sollevano il mento e la punta del naso che carezza
sospirando la pelle ingemmata di brividi e il palmo sinistro che gli stringe il
fianco, lo agguanta e lo accosta al ventre, lo costringe più vicino, lo intrappola
senza sforzo, preda com’è di una volontà incosciente.
E sta per cedere ancora, sta per
cedere di più, cadere, calare e affogare, quando i canini di Stark gli
grattano la gola, cercando il punto più tenero dove conficcarsi.
«No!» Steve lo spinge via con un
colpo poderoso, il respiro affannato appeso faticosamente alle labbra
contratte.
Stark barcolla ringhiando, le spalle
si sollevano, la testa s’incassa, gli occhi hanno un lampo bestiale.
Il Capitano piega il braccio a
sciogliere le cinghie che assicurano lo scudo alla schiena. Tony digrigna i
denti.
«Guarda» esala, nel tentativo di
richiamarlo a sè «Lo hai ucciso, Tony. Hai ucciso Clint…»
Il figlio di Howard drizza d’improvviso
la schiena, sbarra gli occhi pallidi, il guizzo di umanità è tale da
strappargli un tremito unico per tutta la lunghezza del corpo spigoloso; il
volto s’ingrigisce, la bocca si storce, oblunga e grottesca, arretra d’un
passo, due, si trova bloccato nella fuga dalla parete, recalcitra, crolla a
terra, porta le mani a coprire le orecchie, scuote la testa, dondola, avanti e indietro,
indietro e avanti, sibila e singhiozza e sbocconcella moccoli di negazione tra
le labbra cianotiche.
«Non volevo. Non volevo.
Nonvolevononvolevononvolev---»
Steve gli è andato incontro, attento
ad ogni reazione convulsa che lo shock avrebbe potuto scatenare, s’è
inginocchiato, ha sollevato una mano per posargliela sulla testa in un moto di
profondo affetto e si è bloccato all’ultimo momento, soffocando nell’orrore
ogni più piccolo barlume di comprensione.
«Lo so. Lo so, Tony. È stato lui. Il
Barone Sangue. Ti ha…infettato. Ma è
stato sconfitto, non ti tormenterà più. Troveremo una cura, ved---»
«Una cura?» uno scatto feroce e Stark sputa l’ultima parola come un bolo
marcio di fiele «Una cura, lui dice.» gnaula, lamentoso «Una cura al veleno
immortale. Lui mente. Lui mente, non ha visto il Barone, non ha assaggiato il
sangue. Lui non sa. Io sì. Il sangue. Il sangue.»
abbaia una risata orrenda e il Capitano schizza in piedi, si allontana, quasi
inciampa nella salma rigida, terrorizzata dell’Agente Barton.
Stark si solleva con scatti nervosi e
clang clang clang di mandibole,
scrocchi di denti, scivolare di sangue e saliva e sudore; piega orrido la
testa, lo squadra da sottinsù, torce le dita come artigli e snuda i canini
vischiosi. Gli occhi sono folli, le pupille sottili, le iridi vitree.
«Mi sono nutrito di sangue e calore,
non esiste più cura!» ruggisce.
Quindi scatta.
Salta.
Il Capitano solleva lo scudo,
rispedisce l’avversario indietro, a schiantarsi contro la parete. Stark guaisce
e uggiola, scrolla il capo, a quattro zampe piega le ginocchia, si dà la
spinta.
Balza ancora.
È animale, è puro istinto di
cacciatore e sopravvivenza: si muove come una belva tra il fogliame, pianifica
agguati, si ritrae, soffia, sibila, tenta di mordere, graffia, urla.
Mentre rotola di lato per evitare un
assalto, Steve ripensa al sangue virulento del Barone e al suo sogghigno
morente, traboccante soddisfazione e gioia acida.
Ho
comunque la mia vendetta.
Il Capitano si scansa, tira indietro
il braccio e carica il pugno. Stark latra, contorce il volto ad una sagoma
accartocciata di furia.
Un filo roseo d’alba bacia reverente
il profilo tondeggiante dello scudo.
Steve comprende.
E vorrebbe morire.
Quando
gli Agenti S.H.I.E.L.D. irrompono nella stanza
Steve ha
la testa recisa di Tony stretta amorevolmente al petto.
Sta
urlando
Ma non
gli è rimasta nemmeno la voce.
Note
Finali:
Note
Sulla Narrazione:
So che vi state tutti chiedendo: Ma che cacchio ci fa un pezzo scritto a
copione nel bel mezzo del racconto? Ho letto troppo Fitzgerald Ho
pensato di, come dire, narrare il distacco di Stark da se stesso anche tramite “supporto
grafico”, quasi Tony stesse osservando la scena fuori dal proprio corpo, come
una scena a teatro su cui non ha facoltà di intervento.
Il suo punto di vista, poi, si
interrompe nel momento esatto in cui il Barone lo sottomette al proprio volere
e non ci sono più suoi punti di vista per tutto il resto della storia.