Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: Sylphs    20/09/2013    6 recensioni
"Aspetta!"
"Si girò di scatto, con prontezza fulminea, colto da un sussulto a cui non era affatto abituato.
Sansa gli corse incontro, in un turbinio di gonne, e si fermò davanti a lui. Era ancora pallida e tremante.
Sandor fece per domandarle cosa volesse, ma lei lo anticipò. Gli pose le mani sulle spalle larghe, si mise in punta di piedi e, il più in fretta possibile, così velocemente che lui quasi non se ne accorse, posò un bacio delicato sulla guancia libera dalle cicatrici, irruvidita dalla barba e macchiata di sangue. Strizzando gli occhi come se le costasse ma, al tempo stesso, sentisse di volerlo fare".
Cosa sarebbe successo se la notte della battaglia Sansa avesse accettato di fuggire con il Mastino?
Genere: Fantasy, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sandor Clegane, Sansa Stark
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Little bird
 
 
 
Per un attimo Sansa lo vide, tutto nero contro il verde che scintillava fuori dalle finestre.
La metà deturpata del suo volto era una maschera di sangue brunastro.
I suoi occhi ardevano di un luccichio ferale.
Non aveva nulla di umano in quel momento, il Mastino di re Joffrey, e la giovane Stark ne ebbe paura, una paura acuta, paralizzante.
La sua mano d’acciaio le stritolava il polso sottile, ma era troppo atterrita per opporsi. Cercò di farfugliare qualcosa, ma le parole non trovarono la via per uscire. Tutto ciò che ne emerse fu un fievole mugolio.
“L’uccelletto del re non ha più belle paroline da cantare?” ringhiò Sandor Clegane. Il suo alito sapeva di vino rancido, vomito, e sangue, sangue, sangue.
“Tu…tu sei ferito?” mentre pronunciava quella flebile frase, Sansa non poté fare a meno di domandarsi se il sangue di cui era ricoperto fosse suo…o di qualcun altro.
Perché il Mastino amava uccidere, più di ogni altra cosa.
Non era come i cavalieri delle ballate che le raccontava la vecchia Nan. Lui li odiava, i cavalieri. E adesso anche lei li odiava. Nessuno di loro aveva mosso un dito, a parte il Folletto, quando Joffrey l’aveva fatta picchiare per il tradimento commesso da suo fratello Robb. Non erano dei veri cavalieri. Ma anche Clegane non era intervenuto, allora. Perché il Mastino era fedele al suo padrone. E lei non lo voleva lì, adesso, nella sua stanza, con i bagliori smeraldini dell’incendio che consumava Approdo del Re e le grida dei moribondi nelle orecchie.
Che cosa vuole da me? Ha…dormito nella mia camera?
“Se anche fosse” gracchiò quell’uomo gigantesco e spaventoso, afferrando una caraffa di vino dal suo tavolino da notte e ingollandone una lunga sorsata: “Cosa importa all’uccelletto ammaestrato del re? Le ferite non sono per quelle come te, non è vero? I tuoi fottuti sir non sanguinano…loro perdono acqua di rose dalle vene e hanno la merda che profuma…al massimo muoiono difendendo una cosina graziosa come te….”
Con il dorso della mano callosa si asciugò la bocca grondante.
“Ma anche tu… mi hai difesa…” pigolò Sansa debolmente, rievocando la Sommossa del Pane, quando il Mastino aveva mozzato brutalmente il braccio del mendicante che la agguantava e si era fatto strada attraverso la massa mulinando la spada, con il volto trasfigurato.
Sandor Clegane ridacchiò, producendo un suono simile ad una sega che sfregava contro il legno, e sbatté con violenza la caraffa sul tavolino: “Non ti interessa sapere chi sta vincendo la battaglia, uccellino?”
La fanciulla diede una rapida occhiata alla finestra da cui ancora filtravano quei bagliori verdastri, innaturali: “Chi…chi sta vincendo?”
“So solo chi ha perso” lui scrollò la testa; il suo viso era pieno di sangue: “Io”.
Sotto a tutto il sangue e la sporcizia, la sua pelle era pallida. E cogliendo i riflessi delle fiamme che crescevano sempre più alte, il calore che arrivava fino a lei, Sansa si chiese cosa provasse il Mastino nel rivedere il fuoco in cui il fratello lo aveva spinto, se non si sentisse braccato, come un cane circondato da lupi affamati. Se non avesse paura…come lei.
“Sono sicura che tu…” non riuscì a sostenere il suo sguardo pieno d’ira e continuò a parlare fissando il pavimento: “…abbia combattuto valorosamente”.
“L’uccellino ha sempre commenti cortesi da offrire” sibilò il Mastino, ansando come una bestia: “Ma vanno bene per i cavalieri come quel Tyrell…al Mastino del re non servono i complimenti di un uccelletto ammaestrato” fece una pausa e aggiunse, con una nota di amarezza nella voce raschiante: “Non ci riesci proprio a guardarmi, vero?”
Gli occhi azzurri di Sansa - occhi dei Tully – si alzarono velocemente e si posarono, esitanti, controvoglia, su quel volto sfigurato, su quella bocca che si torceva. Non erano le ustioni a ripugnarla, non la devastazione prodotta dalla Montagna che Cavalca; era l’odio e la rabbia che gli avevano sempre distorto i lineamenti, sentimenti così forti e spaventosi da atterrirla completamente.
Ma stavolta la smorfia non era dovuta solo a questo. C’era del dolore, in essa. E il dolore, a differenza dell’odio, era un sentimento che lei poteva comprendere, forse più di chiunque altro, da quando la testa di suo padre era rotolata sul terreno e aveva sentito, mentre gridava, che dopotutto era colpa sua. Quando Joffrey, per la prima volta, le era apparso come il mostro che era, e non più come il dolce principe dei suoi sogni.
Il Mastino, quell’uomo spaventoso e temuto, quel macellaio, soffriva. E Sansa, ormai da tempo, si sentiva vicina a tutti coloro che soffrivano. Perché dopotutto l’aveva salvata. Proprio come i cavalieri che tanto disprezzava.
Osò avvicinarsi di qualche passo, vincendo la paura e la repulsione, sopportando il penetrante, metallico odore di sangue che emanava da lui, e tendere una pallida mano verso il suo viso ferito: “Se vuoi posso…posso pulirti le ferite”.
Clegane la respinse, non senza una certa delicatezza: “L’uccelletto è così servizievole…” provò a produrre un ghigno, ma il dolore lo tramutò in una smorfia contratta e le dita salirono impulsivamente alla tempia: “Non hai lasciato la tua gabbia dorata proprio come ti avevano ordinato, eh?”
E dove altro sarei potuta andare? Si chiese Sansa, con sconforto. Il suo Florian le aveva detto di aspettare. Non bisognava essere impulsivi. E non c’era nessun’altro a corte su cui lei potesse fare affidamento.
Tuttavia la vecchia Nan le aveva insegnato a replicare con la cortesia in ogni circostanza, e sentiva che se fosse venuta meno al dogma, qualcosa di lei sarebbe andato inevitabilmente perso, così recitò, in modo quasi convincente: “Voglio solo…essere leale”.
“Ah, davvero?” ringhiò il Mastino, accasciandosi contro il tavolino da notte e muovendo una mano a tentoni, rudemente, rovesciando la lampada ad olio, in cerca della caraffa semivuota: “E perché mai dovresti? Vuoi davvero rimanere con Joffrey? Vuoi farti mettere il suo bambino nella pancia e farti assoggettare dai leoni, lupacchiotta? Io non credo proprio. Un Mastino le sente sempre le menzogne, le fiuta. E l’uccelletto non è bravo a dire le bugie”.
Sansa chinò il capo un attimo, lasciando che i lunghi capelli ramati le piovessero sul petto. Clegane aveva ragione. Quello che lei voleva davvero era che Joffrey perdesse e che Robb la riportasse a Grande Inverno, tra le braccia di sua madre. Dove niente e nessuno avrebbe più potuto ferirla, umiliarla, farle del male. Voleva rivedere Bran e Rickon e perfino sua sorella Arya. Anche Jon Snow, suo fratello bastardo.
Ma Sandor era il Mastino del re. E gli era sempre stato fedele. Forse era venuto nella sua stanza, adesso, nell’infuriare della battaglia, per tenderle una trappola. Anzi, doveva essere sicuramente così. Forse a mandarlo era stato Joffrey, nella speranza di coglierla in fallo, di strapparle una confessione, di bollarla come traditrice. Ma lei non si sarebbe lasciata ingannare. Lei aveva ser Dontos, il suo caro Florian. Lui l’avrebbe salvata. E non poteva tradirsi, prima che ciò avvenisse.
Impulsivamente, quando vide Clegane barcollare, lo toccò per il bordo del lungo mantello bianco chiazzato di sangue: “Forse dovresti cercare il gran maestro Pycelle” mormorò in tono freddo.
“Quel vecchio rimbambito?” grugnì lui. Stavolta non la scostò; forse non ne aveva la forza: “Non riuscirebbe nemmeno a ricucirmi l’alluce. E poi me ne devo andare”.
“Andare?” chiese senza capire.
“L’uccelletto ripete tutto quello che sente. Sì, andare” sospirò Sandor: “Non c’è posto per un vigliacco tra questi cavalieri”.
“Ma come potresti?” ribatté Sansa: “Stanno combattendo ovunque…non riuscirai mai…”
“Non riuscirò mai?” lui toccò l’elsa della spada, quasi amorevolmente: “Ho questa. E ho il mantello della Guardia. Chi mi sbarrerà la strada lo spedirò tra le fiamme. Quelle eterne” un ghigno ferale gli distorse la metà piagata della bocca, ma la giovane lesse qualcosa di amaro in esso. Non scherzava sul fuoco con leggerezza: “Quel fottuto Folletto. Lo ucciderò” soggiunse, quasi tra sé.
Ci fu una lunga pausa. Sansa torturò la gonna tra le mani, mentre il Mastino, riprendendo l’equilibrio dopo aver mandato giù un’altra sorsata di vino, alzava lentamente il capo, puntandole addosso quei suoi occhi rabbiosi. Le parve di cogliere, pian piano, qualcosa di diverso in essi, uno sguardo strano, che la esaminava a fondo, e che sentì spontaneo evitare.
“Potrei portarti via con me” gracchiò l’uomo ad un certo punto: “Ti terrei sempre al sicuro. Qui tutti hanno paura di me. Se proveranno a farti del male li farò a pezzi”.
Sansa non si aspettava quella proposta. Rimase in silenzio, cercando di metabolizzarne il senso, di decidere cosa fosse meglio. Voleva andarsene più di ogni altra cosa.
Ma insieme al Mastino?
Lui non era certo un vero cavaliere come sir Loras. Se fosse stato il Cavaliere di Fiori a chiederle di fuggire, non avrebbe avuto il minimo dubbio ad accettare. Lui era bello, era valoroso, era buono. E l’avrebbe protetta da ogni pericolo, non avrebbe permesso a nessuno di oltraggiare la sua Regina d’Amore e di Bellezza. Perché non era stato lui a chiederglielo? Perché il Mastino? Non si fidava di quell’uomo orribile e gigantesco. Aveva ucciso tanti soldati, aveva difeso Joffrey.
Ma non era un mostro come suo fratello. Al torneo gli aveva impedito di commettere un omicidio. L’aveva salvata dai rivoltosi. E non era un vigliacco, anche se sosteneva il contrario. Se avesse accettato la sua proposta, forse l’avrebbe riportata a Grande Inverno da sua madre. Non aveva idea di dove fosse finito sir Dontos, ma forse….forse era morto. E se era morto, chi l’avrebbe fatta scappare da lì?
“Ma forse l’uccellino non vuole lasciare la sua gabbia dorata” la voce raschiante del Mastino interruppe la sua riflessione: “È troppo ben ammaestrato per volare via”.
“No!” strinse i pugni sulla veste. Lei non era un uccellino. Lei era un lupo. Anche se era da sola e avevano ucciso la sua Lady.
“Mi…porteresti dalla mia famiglia?” rialzò il capo e si arrischiò a guardarlo negli occhi.
Sandor ricambiò lo sguardo: “Forse”.
Le si strinse il cuore. Non poteva fidarsi di lui. Non poteva mettere la sua vita nelle mani di quell’uomo feroce e assetato di sangue.
Si allontanò da lui, sedendo sul letto, e girò il viso verso la finestra. L’incendio proseguiva con la sua opera di distruzione. Sperò che consumasse tutto Approdo del Re, che non lasciasse intatto nulla, che polverizzasse ogni stemma dei Lannister. Allora tutto si sarebbe risolto da solo. In quel momento non le importava nemmeno di morire, tanto forti erano il suo sconforto e la sua impotenza.
Udì i passi di Clegane che si dirigevano verso la porta, il tintinnio delle maglie della cotta. Andava via. E lei rimaneva lì, prigioniera, ad attendere che l’incendio raggiungesse il palazzo, o che le giungesse notizia della vittoria di Joffrey.
“Aspetta!” urlò senza riflettere.

Il corridoio era deserto. L’eco dei suoi passi copriva completamente il suono lieve di quelli della piccola Stark, che lo seguiva a fatica, in un fruscio di gonne, mentre la tirava avanti per il polso minuto. Non sarebbe stato un problema uscire dal palazzo: tutte le sentinelle erano impegnate all’esterno, a combattere per re Joffrey.
E a tentare di domare le fiamme.
Ma non lui. Lui non era un cavaliere. Era solo un macellaio, un Mastino. Un traditore. E si era liberato dal guinzaglio, abbandonando il suo padrone in mezzo ai nemici, a quello Stannis che si sarebbe volentieri preso la sua graziosa testa bionda di Lannister. Lo avrebbe difeso volentieri, quel moccioso megalomane, se avesse potuto. Un mastino era sempre fedele al suo padrone.
Ma non quella volta. No, quella volta no.
Era tutta colpa di quel bastardo del Folletto. Se non avesse….e poi lo aveva insultato, lo aveva accusato di essere un vigliacco, quel nanerottolo, quel miserabile sputo dalla lingua velenosa, una lingua che avrebbe volentieri strappato….ma la cosa che più lo mandava in bestia era che quel mezz’uomo aveva avuto ragione. Non era sceso in campo come lui, non aveva affrontato l’incendio, era lì, a muoversi furtivamente per i corridoi come un fottuto ratto, trascinandosi dietro la prigioniera più preziosa del suo antico padrone, quella cosina sciocca e graziosa, che sprecava la sua regale considerazione solo per i “veri cavalieri”. E lui era esattamente il contrario. No, lui non aveva nulla a che spartire con quei sacchi di letame.
Udì, appena prima di svoltare ad un incrocio, il rumore pesante e metallico di stivali dalla suola chiodata che rimbombavano sul pavimento di pietra, poco lontano da loro. Scattò immediatamente dietro ad una colonna, rafforzando la stretta intorno al piccolo polso della fanciulla e premendola contro di sé con forza inusitata; sapeva che l’uccellino avrebbe levato il suo pigolio, ma le tappò la bocca con la grossa mano insanguinata e dalle dita callose scaturì solo un farfuglio incomprensibile. La ragazzina sbarrò gli occhi azzurri in un’espressione di panico e incomprensione, volgendoli su di lui ma distogliendoli subito dopo.
Non era fatta per sangue, battaglie, paura e dolore. Era troppo fragile e beneducata per sopportarli. Per sopportarlo. Era fatta per banchetti, per tornei, frasi galanti e tutta quella merda che le avevano insegnato e in cui credeva con assoluta ingenuità, che non faceva che ripetere come il bravo, sottomesso uccelletto che era.
Eppure, proprio quella cosina così delicata stava per seguire il Mastino attraverso campi devastati e piane bagnate di sangue, per dormire all’addiaccio sotto gli alberi, accanto a lui.
Avrebbe rallentato la sua marcia. Si sarebbe lagnata, avrebbe preteso gli agi e la comodità a cui era abituata in quel suo modo silenzioso e insopportabile, non lasciandosi sfuggire una sola lamentela ma tenendogli puntati addosso, costantemente, quei suoi grandi occhi ingenui, facendogli sentire, ad ogni occhiata, quanto fosse turpe e indegno, quanto poco corrispondesse all’idea d’uomo che aveva sognato.  Oh, sì, solo un damerino imbellettato avrebbe potuto conquistarsi l’onore di un sorriso da parte della graziosa, cortese Sansa Stark. Non certo uno come lui.
Ma non gliene fregava un cazzo. Per quanto lo riguardava i “sir” potevano andare a farsi fottere. Si era portato dietro la piccola lupacchiotta solo per…per ottenere una ricompensa da sua madre, Lady Catelyn. Sì, l’avrebbe accompagnata a Grande Inverno e, grazie al favore reso alla sua famiglia, avrebbe intascato oro a sufficienza per campare, ora che aveva disertato dal suo servizio e che lo attendeva una vita di macchia. In fondo, riunirsi alla madre era proprio quello che l’uccellino voleva. Avrebbe fatto felici entrambi.
Un drappello di guardie agitate passò correndo nel punto in cui erano stati fino ad un attimo prima, in una cacofonia di passi e di imprecazioni, quasi tutte con la spada sguainata e la lancia alta nell’aria, e si dileguò nei meandri del castello, probabilmente in direzione dell’uscita che anche lui e Sansa stavano cercando di guadagnare a fatica. Andavano a governare le fiamme.
Ma le fiamme non si potevano governare, lui lo sapeva bene. Le fiamme erano eterne, furiose, e né la lama di una spada né la forza di mille uomini erano in grado di fermarle. Corrodevano piano, lasciando il tempo di avvertire ogni singola stilla di dolore bruciante, finché un uomo non perdeva ogni dignità e coraggio, finché non strisciava supplicando e piagnucolando, e sperando soltanto di poter morire.
La fanciulla, stretta ancora tra le sue braccia vigorose, lo osservava con il suo sguardo profondo, pulito, indagatore. Sandor Clegane si sentì scoperto, scavato, e irrigidì i muscoli, lasciandola andare di colpo, così tempestivamente da indurla a barcollare. Nessuno lo aveva mai esaminato a quel modo. Tutti avevano paura di lui, del suo volto sfigurato, della rabbia che sembrava accompagnarlo come un’ombra affamata, della sua fama. E nessuno, tantomeno una ragazzina, poteva permettersi di studiarlo come se fosse stato un fottuto ornamento in una sala.
“L’uccellino farebbe meglio a tenere a freno i suoi occhietti curiosi” biascicò: “Se non vuole che glieli strappi”.
Sansa impallidì e li distolse immediatamente, con quell’espressione atterrita e disorientata che ormai Sandor aveva imparato a riconoscere. L’unica espressione che le avesse mai suscitato. Non l’aveva più vista sorridere, da quando suo padre era stato decapitato da sir Ilyn Payne. C’era sempre stata un’ombra nelle sue iridi azzurre, un sottofondo di malinconia e di sopportazione sul suo visetto infantile. Credeva di ingannarli con quella sua pantomima da fanciulla leale e sottomessa, ma certo non la faceva a lui. Lui lo sapeva, quanto volentieri avrebbe cavato gli occhi a Joffrey, quanto lo odiava. E capiva. L’odio l’aveva sempre capito.
Sì, all’uccellino non sarebbero mai brillati gli occhi nel guardare lui, non si sarebbe illuminata come quel giorno lontano al torneo, quando quell’idiota di sir Loras Tyrell l’aveva incoronata Regina d’Amore e di Bellezza.
“Andiamo” bofonchiò, prendendola di nuovo per il polso e riprendendo a muoversi verso l’uscita.
Lei lo seguì, esitante, guardandosi attorno come un animaletto spaventato.
“Non devi avere paura, uccellino” ghignò Sandor:  “Non c’è nessuno qui che possa costituire una minaccia per me. Se proveranno ad assalirci, farò il bagno nel loro sangue”.
La fanciulla ebbe un brivido: “Perché sei sempre così pieno di rabbia?”
“La tua septa ti ha insegnato che c’è un perché per tutto? Si sbagliava, uccelletto. Tutti gli uomini l’hanno dentro, quella rabbia, solo che sono troppo codardi per ammetterlo. Il tuo caro padre, ad esempio…”
“Mio padre era un brav’uomo!” esclamò Sansa con improvviso, insospettato ardore, alzando incautamente la sua voce melodiosa.
“Tutta la sua onestà e la sua rettitudine non gli sono servite, però. Era uno dei tuoi preziosi veri cavalieri, ma è crepato esattamente come tutti gli altri. Non esistono eroi, uccellino. Esistono solo armi” carezzò l’impugnatura della spada: “E uomini pieni di rabbia pronti ad usarle”.
La fanciulla non replicò, ma il Mastino comprese ugualmente che, anche se comprendeva il senso del suo discorso, non intendeva assorbirlo. Per quanto assurdo e ridicolo sembrasse, aveva sempre compreso Sansa Stark. Quella sua patetica, tenera fiducia in un mondo idilliaco e fasullo, un mondo che si ostinava a mantenere intatto malgrado la morte e le sventure che si erano abbattute su di lei, un mondo in cui non c’era posto per l’odio o la crudeltà, ma solo per gli inchini, i baci, le frasi gentili, la bellezza. Un mondo che lui aveva sempre disprezzato…e che sempre gli era stato inaccessibile. Un mondo che sapeva essere governato da un’assoluta e totale falsità. Un mondo in cui vivevano grassi uomini ricchi vestiti di velluto, cavalieri gonfi d’onori come otri di vino che mentivano sapendo di mentire.
Ma lei invece ci credeva davvero. Credeva davvero a tutte quelle stronzate.
Stupido uccellino.
Raggiunsero il portone d’ingresso senza fare più brutti incontri e uscirono in giardino muovendosi furtivi come ratti. Sandor Clegane si diresse alle scuderie senza alcuna esitazione. Una volta rubato un cavallo forte, dileguarsi nella macchia approfittando del caos sarebbe stato uno scherzo. Sentiva sulla pelle il calore delle fiamme, la loro vicinanza lo faceva quasi impazzire. Avevano riflessi verdi, malefici, che lo accecavano e lo riempivano di panico come succede ad un cane accerchiato. Tutto per colpa di quel maledetto nano… che aveva osato dargli del vigliacco. Era lui il vigliacco. Solo i vigliacchi si servivano del fuoco per combattere.
Suo fratello Gregor era un vigliacco. Invece di affrontarlo, aveva preferito far fare alle fiamme, e ce lo aveva tenuto dentro finché non si era beato a sufficienza dell’odore della sua carne bruciata e dei suoi capelli strinati. E l’avevano fatto cavaliere.
Perché solo i vigliacchi diventavano cavalieri. Ma lui ci sputava sopra ai loro fottuti titoli d’onore. Non valevano più dello sterco di un porco.
Sentì Sansa tremare, vicino a lui, sulla soglia delle scuderie, e si voltò a gettarle una rapida occhiata: era pallida come un fantasma, con gli enormi occhi sgranati che riflettevano la luce del fuoco, e le labbra piene e rosate che fremevano vistosamente. I capelli fulvi, sciolti, la ricoprivano come un sudario.
Era così piccola. Così ingenua, troppo ingenua per sopravvivere in un posto come quello, dove solo coloro che erano in grado di proteggersi tiravano avanti. Così candida e innocente tra tanto orrore, tanto marciume, tanta morte. Niente di tutto questo sembrava toccarla.  Non finché avesse potuto rifugiarsi in una stupida canzone d’amore, in un poema cavalleresco, in un sogno ad occhi aperti. Qualcosa, nel petto del Mastino, si mosse a quella vista, qualcosa di vecchio e arrugginito.
“Uccellino…” mormorò, avvicinandosi a lei e prendendole istintivamente il viso tra le enormi mani segnate dagli elementi, con una delicatezza sorprendente in un uomo così gigantesco. Per la prima volta, ebbe paura di romperla, di frantumarla se l’avesse stretta troppo forte, di doverla sfiorare con cautela, con riguardo, proprio come facevano i suoi adorati veri cavalieri. Voleva rassicurarla, dirle che sarebbe andato tutto bene, che finché fosse stata con lui niente e nessuno avrebbe potuto ferirla, o offenderla, che se ci avessero anche solo provato li avrebbe sbudellati e poi gli avrebbe fatto mangiare le loro stesse interiora. Sì, se fosse rimasta sotto la sua protezione, non l’avrebbero picchiata mai più, né le avrebbero strappato lacrime e gemiti. Nessuno avrebbe osato toccare il suo uccellino. Tanto, erano così spaventati e codardi che neanche ci avrebbero provato.
Sansa Stark ricambiò il suo sguardo, con i suoi grandi, dolci occhi azzurri, e per un attimo il feroce Mastino si sciolse di fronte ad essi, totalmente disarmato, inerte, appeso a quel color cielo come lo sarebbe stato un cieco alla vista. Aveva la sensazione che avrebbero potuto concedergli il perdono, un luogo caldo in cui rifugiarsi, dove né il fuoco né l’ombra incombente di suo fratello lo avrebbero raggiunto. Quella fanciulla era l’unica che forse avrebbe potuto liberarlo dall’odio, dalla rabbia che era ormai sua compagna di letto. Del resto, aveva accettato di fuggire con lui, anche se non era bello e non aveva niente in comune con i cavalieri che tanto ammirava. L’uccellino aveva lasciato che fosse lui, Sandor Clegane, a liberarlo dalla sua gabbia dorata, a donargli nuove ali per volare via. E lui se ne sarebbe preso cura, del suo piccolo uccellino. Avrebbe potuto portarla lontano, in Oriente, al sicuro dai Lannister e da quella contesa per il trono che considerava una ridicola bega di potenti e nulla più, avrebbe potuto proteggerla e offrirle una nuova vita.
Non era un fottutissimo “sir”, non era affascinante e profumato come quello stronzo di Loras Tyrell, ma non era un codardo. Questo no. E non c’era uomo che temesse. L’uccellino avrebbe potuto essere felice, con lui.
Le si avvicinò ancora di più, scostandole una ciocca di capelli dalla fronte, e per la prima volta la chiamò per nome, quel nome che quasi tutti ormai le negavano: “Sansa…”
Lei rabbrividì, un movimento che Sandor colse appena, e chiuse istintivamente gli occhi, facendosi rigida e tremante tra le sue mani come se si aspettasse un bacio…e lo aborrisse.
In quel momento, l’uomo ricordò chi era.
Il feroce Mastino di re Joffrey.
Un assassino efferato di cui tutti avevano paura.
Un mostro con metà del volto consumato dal fuoco, orrendo a vedersi e troppo ripugnante per trovare spazio nei begli occhi della splendida, dolce lady Sansa Stark.
Provò una sensazione di freddo, di gelo assoluto, come se una punta di ghiaccio gli si fosse infilata nel cuore arido e pieno d’odio e si fosse rigirata spietatamente nella carne, straziandolo. Ma non poteva permettere che l’uccelletto ammaestrato lo scoprisse, e si riprese con una scrollata di spalle, approntando il viso ad un’espressione aspra e sarcastica mentre ripeteva, con una nuova, dolorosa consapevolezza: “Proprio non ci riesci a guardarmi, vero, uccellino?”
Si allontanò dalla fanciulla, avvertendo l’improvviso, insostenibile impulso di fracassare qualcosa, di affondare la sua lama nel petto pulsante di un uomo, e nello stesso momento Sansa riaprì gli occhi, quasi mortificata…come se avesse avuto paura di offenderlo. L’uccelletto aveva paura di tutto. Ma non l’aveva offeso. Aveva cessato da un pezzo di offendersi.
Poi qualcosa cambiò sul viso di lei, un repentino, profondo terrore lo trasfigurò e una mano si levò ad indicare un punto alle spalle del Mastino: “ATTENTO!” l’urlo della piccola Stark, colmo d’orrore, parve risuonare in tutte le scuderie.
I riflessi di Sandor Clegane non vennero meno neanche in quella circostanza, sebbene si fosse scoperto appesantito dai troppi pensieri, e disturbato da quella punta di ghiaccio che ancora non si era sfilata dal suo cuore.
Si girò di scatto, snudando la spada in un solo, agile movimento, e fronteggiò un soldato con lo stemma dei Lannister inciso sui pettorali dell’armatura, un ragazzetto spaurito e terrorizzato, con le mani fradice di sudore che stringevano convulse il manico di un’alabarda: “Tu…tu stai…disertando!” ansimò: “Tradimento!”
Sandor sentì l’odore della sua paura, forte, denso, inconfondibile, un misto di sudore rancido, sangue che pulsava impazzito nelle vene, sale. Quell’orrenda, malsana fragranza lo inebriò, lo avvinse in un delirio sanguinoso e smise di pensare, cancellò dalla mente le assurde, bizzarre riflessioni che per un attimo lo avevano spinto ad abbassare la guardia per concentrarsi anima e corpo nella familiare, gradita gioia di uccidere. Non c’era nulla che amasse allo stesso modo…
…fino ad ora.
Scrollando la testa, spinse indietro Sansa, non senza una certa gentilezza, allontanandola dal duello, e ringhiò tra i denti digrignati: “Sta lontano, uccellino, se non vuoi perdere le ali”.
Poi levò la spada in alto, il volto sfigurato che si contorceva orribilmente in una smorfia bestiale, feroce, disumana, la bocca deformata in una linea distorta, e si lanciò contro al nemico facendo mulinare la lama e cogliendolo del tutto impreparato.
La sua arma si abbatté con forza terribile sullo scudo del soldato, prontamente sollevato per accogliere i suoi colpi, ma Sandor Clegane non demorse: continuò a tempestarlo di affondi, ancora e ancora e ancora, inarrestabile, attaccando ora con la lama, ora con il pomolo della spada, mentre l’avversario arretrava e lo scudo si deformava sempre di più, cieco, ansante, rabbioso come un cane che ha fiutato l’odore del sangue e ha perso ogni capacità di ragionare, e quando finalmente frantumò la difesa del nemico bastò un fendente ben assestato a fargli schizzare via di mano l’alabarda, a disarmarlo. Il ragazzo cadde a terra, ai suoi piedi, implorando pietà.
Ovviamente, era un vigliacco come gli altri. Solo i vigliacchi si abbassavano a supplicare. Lui avrebbe accettato la morte con dignità. Non avrebbe mai pregato il suo assassino. Lo disprezzò ancora di più per quella resa e avvertì più forte il desiderio di ucciderlo, di porre fine alla sua esistenza, di cancellare dal mondo ogni fottuto codardo, ogni maledetto verme che strisciava e supplicava.
Anche lui aveva strisciato e supplicato quel giorno, da bambino, quando Gregor gli aveva spinto la faccia nel fuoco. Anche lui aveva piagnucolato, pisciandosi addosso e implorando pietà, senza che suo fratello ascoltasse una sola delle sue preghiere. Anzi, l’aveva divertito ancora di più, gli aveva reso il “gioco” più interessante. E il ricordo bruciava proprio come le fiamme che lo avevano ustionato, gli corrodeva lo stomaco.
Fu quel ricordo a martellargli odiosamente in testa quando piantò la lama nello stomaco del soldato, quando la rigirò, annusando avidamente il fetore di morte e spargendo a terra sangue e interiora fumanti, in preda ad una gioia folle, ad un’estasi che rasentava la follia. Il ragazzo fremeva, contorcendosi, gli occhi fuori dalle orbite, spalancati e già pronti a divenire vitrei come polle d’acqua riflettente.
Ma furono altri gli occhi che Sandor incontrò nel raddrizzarsi e nell’estrarre la spada insanguinata dal ventre dilaniato della sua vittima.
Gli occhi azzurri dei Tully, incastonati nel volto candido e bellissimo di una ragazzina che sembrava già una donna.
Occhi sgranati, inorriditi, sconvolti.
Occhi che lo condannavano.
Che avevano terrore di lui.
Che gli rimandavano indietro l’immagine di un mostro, di un essere indegno.
Occhi che lo fecero sentire nuovamente freddo, svuotato, che spensero la frenesia bellicosa e tolsero ogni piacere all’uccisione, che anzi gli diedero l’impressione di essere sporco, irredimibile. Troppo bestiale perché la loro proprietaria potesse concedergli il suo affetto…figurarsi qualcosa di più profondo.
Sansa Stark era immobile contro una parete, paralizzata dall’orrore e dalla paura, una bianca mano premuta sulla bocca e il magro corpo attraversato da un tremito convulso e ricoperto da una cascata di capelli color rame. Le lacrime le rigavano le guance come strisce di mercurio, i dolci lineamenti erano contratti oltre ogni dire.
Sandor Clegane sentì il cuore dolere e contorcersi, ma nonostante tutto, nonostante il senso di perdita, di assoluta, totale sofferenza che provò, riuscì a sorridere con un’ombra di amarezza, quasi di tenerezza, una tenerezza che stonava così tanto sul suo volto feroce, fatta per uomini diversi da lui, uomini perfetti, irraggiungibili come Loras Tyrell.
Uomini che lei avrebbe contemplato con ammirazione e adorazione, non con quella ripugnanza che lo feriva peggio, mille volte peggio del fuoco in cui Gregor lo aveva cacciato.
E per una volta, per una sola, fuggevole volta, il Mastino rimpianse di non essere un vero cavaliere, di non poter corrispondere all’ideale di lei, di non essere in grado di darle ciò che avrebbe voluto.
Perché, ora lo sapeva con assoluta certezza, l’uccellino non avrebbe mai volato libero e felice se c’erano le zampe fameliche e soffocanti di un mastino a trattenerlo.
Le andò incontro, ignorando il modo in cui lei si appiattì al muro di catrame della scuderia, il pallore che le invadeva quel suo grazioso, bellissimo faccino, il flebile gemito che le uscì dalle labbra. Il sorriso triste, nel frattempo, era ancora al suo posto, incollato alle fattezze terribili che l’odio e la furia gli avevano conferito.
“Non avere paura, uccellino” mormorò piano, e l’improvvisa dolcezza nella sua voce raschiante spinse Sansa a sollevare di qualche centimetro il capo, a guardarlo con una punta di stupore che Sandor accolse socchiudendo gli occhi per imprimersi ogni particolare di le nella mente: “Sono un assassino, ma non ti farò del male. Non ti farò del male…”
“Ti aveva chiesto di risparmiarlo!” soffiò lei, in un impeto di coraggio che l’uomo non poté fare a meno di ammirare; era una Stark di Grande Inverno, dopotutto, e aveva ereditato dagli antenati quella fierezza che forse un giorno avrebbe imparato a mostrare sempre: “Un vero cavaliere avrebbe…”
“Sì, so cosa avrebbe fatto un vero cavaliere” la interruppe Sandor, ma senza l’acredine con cui di solito accompagnava simili affermazioni. Poi aggiunse, con una malinconia che avrebbe voluto nasconderle ma che prese il sopravvento su di lui: “Forse un giorno lo incontrerai”.
Sansa lo fissò, stupita, senza ribattere.
“Non vuoi più andartene, vero, uccellino?” continuò Clegane: “Non avere paura di dire la verità. Non puoi mentire a me. Coraggio, ammettilo”.
Lei esitò. Ma poi l’ebbe vinta la sua indistruttibile corazza di cortesia e sottomissione e si limitò a chinare la testa, senza rispondere, senza confessare alcunché.
Ma il silenzio era un assenso. E il Mastino non aveva bisogno di altro.
Il suo sorriso amaro e triste divenne più ampio: “Vedrai, uccellino, prima o poi te ne volerai via da qui. E forse io e te un giorno ci rincontreremo. Mi avevi promesso una canzone, ricordi?”
Sansa sbatté le palpebre: “Una canzone?”
“Sì, uccellino. Una canzone. Florian e Jonquil o un’altra di quelle belle storielle che ti piacciono tanto. Un giorno canterai per me”.
Non era sicuro che sarebbe successo. Probabilmente non avrebbe mai più rivisto il suo piccolo, fiero e indifeso uccellino ammaestrato. Ammaestrato per ora…prima o poi avrebbe riconquistato la libertà. Ma una parte di lui non poteva fare a meno di sperare. Non credeva negli dèi, erano solo cazzate che gli uomini avevano inventato per avere meno paura, per non dover contare solo su se stessi e costruirsi con le proprie forze il loro destino, ma forse il suo cammino, in futuro, chissà quando, si sarebbe intrecciato nuovamente a quello di Sansa.
“Addio, uccellino” concluse in un soffio, voltandole le spalle e prelevando un enorme stallone da guerra nero che aveva già prescelto quando erano entrati nelle scuderie e ancora aveva pensato di scappare con lei, che gli si stringeva da dietro sulla sella proprio come aveva fatto durante la Rivolta del Pane, quando, nella confusione, nella totale mancanza di alleati, si era aggrappata a lui come se fosse stato la sua ancora di salvezza, stringendolo con le sue piccole mani e facendolo sentire un uomo e non un cane, una bestia, per la prima volta. Quando era stato il suo “salvatore”.
Gettò indietro la testa e scoppiò in una risata simile ad un latrato, accingendosi a montare in groppa.
“Aspetta!”
Si girò di scatto, con prontezza fulminea, colto da un sussulto a cui non era affatto abituato. Sansa aveva gridato la stessa cosa poco tempo prima, quando aveva accettato di scappare con lui. Che avesse… cambiato idea?
La fanciulla gli corse incontro in un turbinio di gonne, non senza la sua solita riluttanza, e si fermò davanti a lui. Era ancora pallida e tremante.
Sandor fece per domandarle cosa volesse, ma lei lo anticipò.
Gli pose le mani sulle spalle larghe, si mise in punta di piedi e, il più in fretta possibile, così velocemente che lui quasi non se ne accorse, posò un bacio delicato sulla guancia libera dalle cicatrici, sulla sua pelle irruvidita dalla barba e macchiata di sangue. Strizzando gli occhi come se le costasse ma, allo stesso tempo, avesse sentito di doverlo fare.
E Sandor Clegane tremò da capo a piedi, gli parve, per un istante, di andare in pezzi solo perché una ragazzina lo aveva baciato sulla guancia, regalandogli, forse, il contatto più intimo che avesse mai sperimentato.
Nessuno lo aveva mai baciato prima.
Non sua madre, un’estranea che viveva nella sua stessa casa.
Non suo padre, un uomo rude e brusco che gli aveva insegnato a combattere prima ancora che a parlare.
Non una donna. Le uniche donne che avessero mai condiviso il suo letto erano state le puttane che re Joffrey gli concedeva talvolta di pagare. Disprezzava tutte le donne.
E ora l’uccellino gli aveva dato un bacio.
La guardò, senza trovare niente da dire, senza rivolgerle uno dei consueti commenti sarcastici.
Lei, seria, allungò una mano e gli sfiorò l’altra guancia, quella ustionata. Era appiccicosa di sangue, ma c’era anche qualcos’altro di liquido. Qualcosa che non era sangue.
“Addio, Sandor Clegane” sussurrò la fanciulla.
Poi corse via, lasciandolo solo nella notte illuminata a giorno dai fuochi.

Angolo autrice: Okay, premettiamo una cosa…io adoro da sempre la SanSan, è in assoluto la mia coppia preferita in Trono di Spade. Martin, perché li hai separati??? Questi due sono fatti per stare insieme!! Non disprezzo neanche la Tyrion/Sansa, ma trovo che Sandor sia perfetto per lei.  Insomma, si compensano, e poi ho sempre sentito che tra loro vi era, dopotutto, una fortissima comprensione! Coomunque…certo non sono all’altezza del grande Martin, ma ho voluto scrivere questa sciocchezzuola per rendere omaggio alla mia coppia preferita. Come vi sarete accorti, ho modificato la scena in cui Sandor si intrufola nella stanza di Sansa e lei rifiuta di andare con lui, ma non ho voluto stravolgere tutto….non mi piace uscire troppo dalla trama originaria. Così ho semplicemente ampliato la scena e ho aggiunto il bacio finale, ci avevo sperato veramente tanto che i due se lo scambiassero…anche casto e tenero sulla guancia.
Beh, spero che qualche anima pia capiti di qui, in ogni caso buona settimana a tutti!
Sylphs  

 
  
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