Salve a voi, fandom di Sherlock.
Dovrei schiarirmi la voce e presentarmi, visto che questa
oneshot costituisce il mio esordio in questa sezione, ma lascio le futilità
alla mia ingarbugliata bio.
Ho sempre amato le avventure di Sherlock Holmes, però ammetto
d’aver finito solo recentemente la visione(visione?mi si sono incrociati gli
occhi, vista la velocità con la quale ho divorato le puntate) delle due
stagioni di questa stupenda trasposizione televisiva.
Ne ho adorato ogni singolo aspetto, a partire dalla Londra
moderna fino a finire negli occhi di Cumberbatch che avevo, per fortuna, avuto
modo di apprezzare già altrove.
Ovviamente è una
Johnlock ma ahimè, siccome l’ho scritta io è irrimediabilmente malinconica e
triste. Siete avvertiti.
Ma quanto diamine parlo?
Sperando che sia gradita, non mi resta che augurarvi una
buona lettura.
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Sherlock
amava smentire.
Lo
faceva di continuo, talvolta senza nemmeno prestarci troppa attenzione – la sua
preziosa, brillante attenzione -.
Semplicemente,
lo faceva e basta.
Ogni
cosa che non rientrava nella sua logica –l’unica corretta, l’unica degna di
essere chiamata tale-, veniva prontamente smentita e la verità, ovviamente
fornita da lui stesso, presentata a tutti su un baroccheggiante piatto d’argento.
John
Hamish Watson sollevò impercettibilmente un angolo delle labbra, ricordando
tutte le volte che il genio di
Sherlock aveva fatto guadagnare all’amico
occhiate piene d’odio.
E
d’invidia.
E di profonda, malsana ammirazione da parte
sua.
°
Erano
passati circa due anni dal suo suicidio.
Poco
più di settecento giorni pieni di nulla per l’ex soldato, che andava avanti
senza guardare la strada sotto i suoi piedi. E sotto il suo bastone: la zoppia
si era ripresentata in modo inversamente proporzionale al suo equilibrio
mentale.
Era
tornato dalla psichiatra, si.
Dopo
un anno, ancora non riusciva a pronunciare quelle parole senza balbettare.
“Il
mio amic…il mio migliore amic-o…”
Niente
di più.
Sherlock
avrebbe classificato quel suo deficit come “ridicolo”.
Anzi
no, non avrebbe detto niente.
°
Davanti
alla sua lapide solitamente non apriva bocca.
Si
limitava a restare immobile, con le mani nel giaccone imbottito e lo sguardo
fisso su quelle lettere fredde che componevano il nome della persona che
l’aveva riportato alla vita.
Don’t be dead.
Perché
dentro di sé John Watson non era in silenzio in quel cimitero;
Don’t be dead.
Perché
c’era una sola frase che ripeteva a lui
e a sé stesso ogni giorno, quando si guardava allo specchio.
Non
doveva pregare solo Sherlock Holmes di non
essere morto: doveva pregare anche quel pallido riflesso utilizzando le
stesse parole.
Non.Doveva.Essere.Morto.
Lo
faceva per Sherlock perché, cazzo, da qualche parte Holmes continuava a
respirare e a smentire.
°
Fu
proprio quell’insignificante verbo a far venire tutto fuori, a ferire fino a
far sanguinare ancora e ancora.
Smentire.
Cosa
che, suo malgrado, anche Watson faceva di continuo da quando lo conosceva – si,
usava ancora il presente-.
Smentiva
con gli occhi Angelo ogni volta, quando l’oste li guardava traboccante di
felicità: la stessa felicità che si prova guardando lo scambio delle fedi tra
due novelli sposi in una chiesa.
Lo
smentiva anche verbalmente, ma lui non demordeva.
Sherlock,
invece, ascoltava e basta.
John
Watson smentiva anche il cliente di turno, quando si riferiva a Sherlock
chiamandolo il suo ragazzo. Sentiva
impercettibilmente il sangue concentrarsi, pensava al dannato sistema nervoso,
onnipotente sui vasi sanguigni, che in quel momento aveva deciso di farli dilatare
e…
Fantastico, pensava quando si lasciava andare a tutta quella razionalità
scientifica, sto diventando come lui.
…e
candidamente John arrossiva.
L’interlocutore
di turno spostava lo sguardo da lui a Sherlock Holmes che in quei frangenti,
ovviamente, non apriva bocca ed anzi guardava fisso Watson con le punte delle
dita strette davanti alle labbra.
°
La
soluzione per John Hamish Watson arrivò in un plumbeo pomeriggio londinese come
molti altri, quando aveva penzoloni tra le dita una busta colma marchiata
“Tesco”(*) dalla quale s’intravvedevano diverse confezioni di Earl Grey.
Stava
attraversando il ponte di Blackfriars(**) quando si fermò.
Un
ciclista dietro di lui lo sorpassò guardandolo storto per quel brusco
cambiamento ma Watson non lo notò.
Si
poggiò alla balaustra, lasciando la busta a terra.
Era
solo un dettaglio, era solo uno stupido dettaglio, continuava a ripetersi.
Ma
eliminato l'impossibile, ciò che resta,
per improbabile che sia, deve essere la verità (*),proprio come una volta
aveva affermato lo stesso Holmes, quel suo pensiero non poteva essere così
sbagliato.
Sherlock
non aveva mai smentito quelle voci.
Non
si era mai preoccupato di correggere nessuno, sulle insinuazioni che li
vedevano…amanti, compagni. Intimi.
Perché?
Il
peso di quell’interrogativo ora arrovellava la mente di John.
Se
lo chiese di nuovo in quel cimitero, con la busta ancora stretta tra le dita e
l’ombrello -comprato di fretta per difendersi dall’ennesimo temporale, per
cinque sterline-, aperto sopra di lui.
Non
si era mai fatto problemi, lui, lo Sherlock - noncurante delle norme sociali –
Holmes, a spiattellare in faccia al malcapitato di turno, senza troppi
fronzoli, di star dicendo delle fandonie. A maggior ragione quando quelle
fandonie lo riguardavano da vicino.
Ed
invece mai un solo fiato, mai un solo accenno di smorfia a quelle insinuazioni.
°
In
effetti, negli ultimi tempi nemmeno Watson smentiva più.
Ci
rifletté di fronte all’agognata tazza di the caldo con latte e l’asciugamano
sul collo che tamponava le punte ancora umide dei suoi capelli.
Ma
lui sapeva il perché di quel cambiamento: era arrivato a patti con sé stesso. Aveva
accettato che una parte -ancora non sapeva quanto grande-, di lui, era
irrimediabilmente innamorata del suo migliore amico.
Che
banale e antico cliché. A dir poco imbarazzante, considerando il suo essere
medico ed ex militare, quindi saputamente razionale.
Anche
se mai la sua razionalità era sembrata blanda
di fronte ad un tipo come Sherlock.
Ma
ce l’aveva fatta, infine.
L’aveva
ammesso.
E
così, quando qualcuno affermava –perché col tempo le insinuazioni si erano trasformate in vere e proprie affermazioni- qualcosa su loro due, John
Watson si limitava a permettersi di arrossire. In silenzio.
Ma
Sherlock?
Con
lui quel discorso non poteva valere. Lui da sempre non aveva mai smentito e
tantomeno arrossito.
L’aveva
visto arrossire in occasioni rare ma mai in quelle circostanze…o si?
John
scosse la testa al buio, impedendo alla fantasia di prendere piede sui veri
ricordi.
Sapeva
delle inclinazioni del detective, anche se l’uragano Adler l’aveva seriamente
destabilizzato. Ma quella era tutta un’altra storia.
Non
poteva sapere il perché, non poteva seriamente rispondersi a
quell’interrogativo.
Ma
per una persona che ha perso tutto, avere saldo tra i pensieri un interrogativo
equivaleva ad avere ancora qualcosa per cui aprire gli occhi la mattina.
Perché
John Hamish Watson era convinto che, prima o poi, quando il detective si
sarebbe ripresentato davanti alla porta del 221b, avrebbe potuto chiederlo direttamente
a lui.
Note
inutili:
(*)
Famosa catena britannica di supermercati.
(**)
Questo qui, che mi piace proprio tanto e dovevo inserirlo in qualche modo :
http://it.wikipedia.org/wiki/Ponte_dei_Frati_Neri
(***)
Ovviamente è una gentile concessione di Sir Doyle tratta da “Il segno dei
quattro” e citata anche nella serie.