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Autore: reby    23/09/2013    1 recensioni
[...]Smentiva con gli occhi Angelo ogni volta, quando l’oste li guardava traboccante di felicità: la stessa felicità che si prova guardando lo scambio delle fedi tra due novelli sposi in una chiesa.
Lo smentiva anche verbalmente, ma lui non demordeva.
Sherlock, invece, ascoltava e basta. [...]
Post Reichenbach.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve a voi, fandom di Sherlock.
Dovrei schiarirmi la voce e presentarmi, visto che questa oneshot costituisce il mio esordio in questa sezione, ma lascio le futilità alla mia ingarbugliata bio.
Ho sempre amato le avventure di Sherlock Holmes, però ammetto d’aver finito solo recentemente la visione(visione?mi si sono incrociati gli occhi, vista la velocità con la quale ho divorato le puntate) delle due stagioni di questa stupenda trasposizione televisiva.
Ne ho adorato ogni singolo aspetto, a partire dalla Londra moderna fino a finire negli occhi di Cumberbatch che avevo, per fortuna, avuto modo di apprezzare già altrove.
Ovviamente è una Johnlock ma ahimè, siccome l’ho scritta io è irrimediabilmente malinconica e triste. Siete avvertiti.
Ma quanto diamine parlo?
Sperando che sia gradita, non mi resta che augurarvi una buona lettura.






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Sherlock amava smentire.
Lo faceva di continuo, talvolta senza nemmeno prestarci troppa attenzione – la sua preziosa, brillante attenzione -.
Semplicemente, lo faceva e basta.
Ogni cosa che non rientrava nella sua logica –l’unica corretta, l’unica degna di essere chiamata tale-, veniva prontamente smentita e la verità, ovviamente fornita da lui stesso, presentata a tutti su un baroccheggiante piatto d’argento.
John Hamish Watson sollevò impercettibilmente un angolo delle labbra, ricordando tutte le volte che il genio di Sherlock aveva fatto guadagnare all’amico occhiate piene d’odio.
E d’invidia.
E di profonda, malsana ammirazione da parte sua.

°

Erano passati circa due anni dal suo suicidio.
Poco più di settecento giorni pieni di nulla per l’ex soldato, che andava avanti senza guardare la strada sotto i suoi piedi. E sotto il suo bastone: la zoppia si era ripresentata in modo inversamente proporzionale al suo equilibrio mentale.
Era tornato dalla psichiatra, si.
Dopo un anno, ancora non riusciva a pronunciare quelle parole senza balbettare.
“Il mio amic…il mio migliore amic-o…”
Niente di più.
Sherlock avrebbe classificato quel suo deficit come “ridicolo”.
Anzi no, non avrebbe detto niente.

°

Davanti alla sua lapide solitamente non apriva bocca.
Si limitava a restare immobile, con le mani nel giaccone imbottito e lo sguardo fisso su quelle lettere fredde che componevano il nome della persona che l’aveva riportato alla vita.
Don’t be dead.
Perché dentro di sé John Watson non era in silenzio in quel cimitero;
Don’t be dead.
Perché c’era una sola frase che ripeteva a lui e a sé stesso ogni giorno, quando si guardava allo specchio.
Non doveva pregare solo Sherlock Holmes di non essere morto: doveva pregare anche quel pallido riflesso utilizzando le stesse parole.
Non.Doveva.Essere.Morto.
Lo faceva per Sherlock perché, cazzo, da qualche parte Holmes continuava a respirare e a smentire.

°

Fu proprio quell’insignificante verbo a far venire tutto fuori, a ferire fino a far sanguinare ancora e ancora.
Smentire.
Cosa che, suo malgrado, anche Watson faceva di continuo da quando lo conosceva – si, usava ancora il presente-.
Smentiva con gli occhi Angelo ogni volta, quando l’oste li guardava traboccante di felicità: la stessa felicità che si prova guardando lo scambio delle fedi tra due novelli sposi in una chiesa.
Lo smentiva anche verbalmente, ma lui non demordeva.
Sherlock, invece, ascoltava e basta.
John Watson smentiva anche il cliente di turno, quando si riferiva a Sherlock chiamandolo il suo ragazzo. Sentiva impercettibilmente il sangue concentrarsi, pensava al dannato sistema nervoso, onnipotente sui vasi sanguigni, che in quel momento aveva deciso di farli dilatare e…
Fantastico, pensava quando si lasciava andare a tutta quella razionalità scientifica, sto diventando come lui.
…e candidamente John arrossiva.
L’interlocutore di turno spostava lo sguardo da lui a Sherlock Holmes che in quei frangenti, ovviamente, non apriva bocca ed anzi guardava fisso Watson con le punte delle dita strette davanti alle labbra.

°

La soluzione per John Hamish Watson arrivò in un plumbeo pomeriggio londinese come molti altri, quando aveva penzoloni tra le dita una busta colma marchiata “Tesco”(*) dalla quale s’intravvedevano diverse confezioni di Earl Grey.
Stava attraversando il ponte di Blackfriars(**) quando si fermò.
Un ciclista dietro di lui lo sorpassò guardandolo storto per quel brusco cambiamento ma Watson non lo notò.
Si poggiò alla balaustra, lasciando la busta a terra.
Era solo un dettaglio, era solo uno stupido dettaglio, continuava a ripetersi.
Ma eliminato l'impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità (*),proprio come una volta aveva affermato lo stesso Holmes, quel suo pensiero non poteva essere così sbagliato.
Sherlock non aveva mai smentito quelle voci.
Non si era mai preoccupato di correggere nessuno, sulle insinuazioni che li vedevano…amanti, compagni. Intimi.
Perché?
Il peso di quell’interrogativo ora arrovellava la mente di John.
Se lo chiese di nuovo in quel cimitero, con la busta ancora stretta tra le dita e l’ombrello -comprato di fretta per difendersi dall’ennesimo temporale, per cinque sterline-, aperto sopra di lui.
Non si era mai fatto problemi, lui, lo Sherlock - noncurante delle norme sociali – Holmes, a spiattellare in faccia al malcapitato di turno, senza troppi fronzoli, di star dicendo delle fandonie. A maggior ragione quando quelle fandonie lo riguardavano da vicino.
Ed invece mai un solo fiato, mai un solo accenno di smorfia a quelle insinuazioni.

°

In effetti, negli ultimi tempi nemmeno Watson smentiva più.
Ci rifletté di fronte all’agognata tazza di the caldo con latte e l’asciugamano sul collo che tamponava le punte ancora umide dei suoi capelli.
Ma lui sapeva il perché di quel cambiamento: era arrivato a patti con sé stesso. Aveva accettato che una parte -ancora non sapeva quanto grande-, di lui, era irrimediabilmente innamorata del suo migliore amico.
Che banale e antico cliché. A dir poco imbarazzante, considerando il suo essere medico ed ex militare, quindi saputamente razionale.
Anche se mai la sua razionalità era sembrata blanda di fronte ad un tipo come Sherlock.
Ma ce l’aveva fatta, infine.
L’aveva ammesso.
E così, quando qualcuno affermava –perché col tempo le insinuazioni si erano trasformate in vere e proprie affermazioni- qualcosa su loro due, John Watson si limitava a permettersi di arrossire. In silenzio.
Ma Sherlock?
Con lui quel discorso non poteva valere. Lui da sempre non aveva mai smentito e tantomeno arrossito.
L’aveva visto arrossire in occasioni rare ma mai in quelle circostanze…o si?
John scosse la testa al buio, impedendo alla fantasia di prendere piede sui veri ricordi.
Sapeva delle inclinazioni del detective, anche se l’uragano Adler l’aveva seriamente destabilizzato. Ma quella era tutta un’altra storia.
Non poteva sapere il perché, non poteva seriamente rispondersi a quell’interrogativo.
Ma per una persona che ha perso tutto, avere saldo tra i pensieri un interrogativo equivaleva ad avere ancora qualcosa per cui aprire gli occhi la mattina.
Perché John Hamish Watson era convinto che, prima o poi, quando il detective si sarebbe ripresentato davanti alla porta del 221b, avrebbe potuto chiederlo direttamente a lui.



Note inutili:
(*) Famosa catena britannica di supermercati.
(**) Questo qui, che mi piace proprio tanto e dovevo inserirlo in qualche modo : http://it.wikipedia.org/wiki/Ponte_dei_Frati_Neri
(***) Ovviamente è una gentile concessione di Sir Doyle tratta da “Il segno dei quattro” e citata anche nella serie.














   
 
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