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Autore: LilithJow    06/10/2013    3 recensioni
Io avevo sempre odiato la morte, così come le persone che le andavano incontro; quelle che rinunciavano alla propria vita, sperando in un'esistenza migliore, che però non c'era e io lo sapevo bene. Non capii perché nella mia mente si materializzò l'idea di permettere a Sebastian di uccidermi e non era qualcosa di simile a ciò che era successo in precedenza.
Avevo deciso di sacrificarmi per permettere a Simon di vivere e ritenevo che fosse una buona motivazione. Ma allora, una ragione non c'era, eppure lo desideravo comunque. - SEGUITO DI "LULLABIES"
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 9
"To begin and to end"



Cadere nell'acqua gelida è come essere infilzati da mille aghi, sparsi in tutto il corpo. Il respiro si blocca e, con esso, sembra farlo anche il cuore. Non c'è modo peggiore di morire. Davvero, non c'è.

Le onde mi sbattevano da una parte all'altra. Riuscivo a malapena a stare a galla. Urtai più volte le rocce attorno a me. Trattenni il respiro, quando l'acqua mi sommerse. Tenere gli occhi aperti lì sotto fu difficile, tanto che fu persino inutile tentare di combattere, sebbene volessi farlo.
Sarei annegata, in breve tempo, se Thomàs non mi avesse afferrato. Sì, lo vidi: era saltato anche lui e, in quel momento, mi stava salvando la vita.
Annaspando, cominciai a muovere rapidamente le gambe. Mi sforzai di resistere all'acqua, aggrappandomi alle spalle di Thomàs e, insieme, riuscimmo nell'impresa di raggiungere la terra ferma. Con mia sorpresa, mi accorsi che la dimora del Creatore si ergeva su un'isola composta e circondata da enormi massi e scogli puntigliosi. Intorno ad essa, si trovavano altre macchie di terra – prevalentemente sabbia. Su una di esse, c'eravamo noi.
Nessun Divoratore ci aveva seguito. Non mi spiegai il motivo, per loro l'acqua non era un problema, ma fui lieta del fatto che non ci fossero più addosso.
Cercai di rimettermi in piedi, combattendo contro la sabbia bagnata e il peso dei vestiti che, nel frattempo, mi si erano appiccicati addosso. Thomàs aveva preferito trascinarsi sulle ginocchia fino alla parte asciutta dell'isola. Lo vidi a carponi, fermo, mentre riprendeva fiato, a qualche metro da me. Mi morsi piano il labbro inferiore e lo raggiunsi. «Stai bene?» chiesi, anche se quella domanda sembrava così da idioti, fatta a qualcuno che era appena saltato nell'acqua gelida da venti metri d'altezza.
Lui non rispose. Tossì – il che parve finto – e si alzò, barcollando. Allargò le braccia, sarcastico. «Oh, sì, va tutto meravigliosamente bene, Hazel!» gridò.

«Perché stai urlando?» replicai e, non consapevolmente, usai il suo stesso tono elevato.

«Perché?!» ripeté. «Perché se sei di fronte a qualcuno che può ucciderti solo schioccando le dita, tu NON lo attacchi con un pugnale!».

«Io ho dovuto!».

Ci stavamo, letteralmente, urlando addosso.

«NO! No, tu non dovevi, Hazel! Lo hai attaccato e chissà cosa potrebbe fare ora!».

«Io avevo bisogno che la smettesse di parlare, perché ha reso privo di senso tutto ciò in cui ho sempre creduto!». Trattenni un singhiozzo, ma ormai stavo piangendo. Strizzai gli occhi e strinsi i pugni, lungo i fianchi. «Era tutto falso. Quello che ho passato con Simon era falso, perché lui non c'è mai stato. Era solamente... Schiavo di qualcosa che io non sapevo di controllare e... E non ce la facevo più. Io non riuscivo a starlo ad ascoltare». Portai, istintivamente, le mani al petto. Era quasi certo che avrei avuto un altro attacco di panico e mi sforzai di respirare a fondo e in modo regolare, proprio come Thomàs mi aveva suggerito la prima volta.

«Come lo accetti?» mormorai. «Non puoi... Non posso solo accettarlo, io non posso...».

Thomàs sospirò e io smisi di parlare. Mi abbracciò, stringendomi a sé, proprio come avrebbe fatto con una bambina con le ginocchia sbucciate. Quelle, però, sarebbero guarite; il mio cuore a pezzi e calpestato, no.
Mi lasciai completamente andare al pianto. Le lacrime mi riempirono il viso, che affondai nel petto di Thomàs. Avrei voluto sparire, avrei voluto annullarmi. Avrei voluto che tutto si annullasse.
Lui non disse nulla per consolarmi; nemmeno ci sarebbe riuscito. Rimase semplicemente in silenzio e mi diede la possibilità di sfogarmi, per quanto mi era concesso.
Mi distaccai solo quando sentii che le mie lacrime si erano esaurite. I miei occhi si erano gonfiati e avevo mal di testa. «Cosa facciamo adesso?» domandai, quasi non volessi sul serio una risposta.
Thomàs si morse piano il labbro inferiore. «Torniamo in città e...» sussurrò. Scosse appena la testa, passandosi una mano tra i capelli. In realtà, non sapeva cosa fare, proprio come me. «Casa di Martha non è più un luogo sicuro, evidentemente» aggiunse, poco dopo. «Dovremmo spostarci».

«Il Creatore potrebbe trovarci anche nell'angolo più remoto degli Inferi».

«Mhm, non se siamo bravi a nasconderci».

Abbozzai una risata, priva d'entusiasmo, e non aggiunsi nulla.


***


Abbandonare un luogo, per me, era sempre stato difficile, sebbene, dopo un'esistenza passata da nomade, avrei dovuto farci l'abitudine.
Invece no; ogni volta era arduo, ma mi convincevo del fatto che andasse fatto per la mia sopravvivenza e, in tal caso, delle persone a cui volevo bene.
La nostra nuova casa era una villa in piena campagna, in Florida, isolata, praticamente, da tutto e tutti, il che non mi dispiaceva affatto. Dovevamo nasconderci e quello sembrava proprio essere il luogo ideale per farlo.
L'arredamento rustico, con tanto di camino nel salotto, dava un'idea di pace e benessere. Ero lieta del fatto che l'ambiente attorno a me fosse così; serviva a lenire il devasto che si celava dentro di me.
Lo spazio a nostra disposizione era raddoppiato ed era dire tanto, considerato il fatto che l'attico di Martha era già enorme. Mi chiesi come avesse fatto a rimediare un rifugio – così lo aveva chiamato – in tempi relativamente brevi, ma lei, non sapevo in che modo, riusciva sempre a trovare una soluzione e mai impiegandoci troppo.

 

Era notte fonda e io sedevo a terra, davanti al camino acceso. Guardare il fuoco scoppiettare fu ipnotico e, seppur per poco, servì a distrarmi dai cattivi pensieri.
La casa era immersa nel silenzio; sia Simon che Thomàs dormivano e, probabilmente, avrei dovuto farlo anche io. Il mio problema erano gli incubi: mi assalivano non appena chiudevo gli occhi e riuscivano sempre a smorzarmi il respiro.

«Problemi d'insonnia?».

Mi bastò girare di poco il capo per vedere lo sguardo vispo di Martha, già seduta al mio fianco, senza che io me ne fossi, prima, resa conto.

«Già» replicai, distrattamente.

«Potrei prepararti una tisana».

«Non credo servirebbe».

La sentii sospirare. «Lo credo anche io» sussurrò. «Vorrei poterti essere più d'aiuto, ma al momento, più di una tisana non posso offrirti».

«Tu stai facendo tantissimo, Martha, sul serio».

Sorrise appena, ma fui abbastanza certa che lo fece solo per rassicurarmi. Lei era la mia ancora, dopo tutto.

«Da quando il Creatore ti ha detto quelle cose, stai...» disse Martha, dopo qualche secondo. «Mi sembra che tu stia evitando Simon».

Ovviamente se ne era accorta. Era difficile nasconderle qualcosa. «Lo sto facendo» ammisi, rivolgendo una rapida occhiata al fuoco davanti a noi.

«Perché?» mi chiese, allora.

Sforzai un sorriso e il mio fu solo di circostanza. «Lo sai perché. Lui non... Non ha mai provato niente e non proverà mai niente per me e... Dato che lui, invece, per me significa tutto, fa... Fa male stargli vicino».

«Questo è un ragionamento assurdo».

«Non lo è».

«Sì, lo è. Ascolta, non cambia niente, rispetto a prima. La memoria di Simon è pressoché inesistente. Non ricorda nulla della sua vita passata, nulla di ciò che accaduto. Perché stai scegliendo di lasciarlo andare, senza nemmeno provarci?».

«Non so nemmeno cosa dovrei tentare».

«Di farlo innamorare, Hazel. Fallo innamorare di te».

Scossi appena la testa, perplessa. «E come si fa?».

«L'amore è in te. Tu sei così umanamente pura e lo eri anche quando la tua natura non era umana. Daresti la tua vita per lui e credo che Simon questo dovrebbe saperlo».

«Non so se basta».

«Basterà».

Martha si mise in ginocchio e con le dita mi sfiorò le guance, portandomi poi delle ciocche di capelli dietro alle orecchie. «In tutti questi secoli con gli umani, una cosa l'ho capita: non hanno mai una seconda possibilità» mormorò. «Sarebbe da pazzi se tu ne rifiutassi una così grande».

Mi sforzai di sorridere, quella volta in maniera più sincera. Martha, allora, allargò le braccia e mi permise di rifugiarmi tra di esse, come avrebbe fatto una bambina. In realtà, non ero così certa del fatto che avesse ragione. Sebbene mi sforzassi di crederci, la mia mente mi ostacolava in ogni modo, dicendomi che avevo cosa più importanti a cui pensare, per esempio la mia sopravvivenza, dato che avevo sfidato il Creatore nel momento esatto in cui l'avevo ferito con quel pugnale.
Eppure, un'altra parte dentro la mia testa, anche se più debole, mi spingeva a provarci, perché tanto ciò che avrei potuto perdere, l'avevo già perso, e così era facile.


La notte passò in quel modo. Tra le braccia di Martha, riuscii ad addormentarmi e quel briciolo di sonno fu rigenerativo. Quando aprii gli occhi, la mattina, tutto aveva l'aria di essere diverso. Non che effettivamente lo fosse – ci voleva ben altro per risolvere ogni minimo problema – ma, nonostante ciò, mi concessi il lusso di essere positiva e di buon umore.

Perlomeno, mi sforzai di farlo, mi sforzai di provarci, anche se sarebbe stata tutta un'illusione.

Simon me lo aveva detto, una volta, che gli umani tendono ad illudersi, ad immaginare ciò che non può avvenire, con il solo intento di stare bene. E io avevo estremo bisogno di stare bene.

Il sole era sorto già da parecchio, quando mi intrufolai nella camera di Simon, quella volta senza perdermi in troppi dubbi e alternative alquanto sciocche. Lui dormiva ancora e la luce filtrava lieve tra le tende di velluto verde.
Sorrisi appena, vedendolo così rilassato, tra le lenzuola candide che si intonavano al pallore della sua pelle. Salii sul materasso, tenendo in mano il muffin al cioccolato che ero appositamente andata a comprare dall'unica tavola calda nei paraggi, che in realtà distava trenta minuti a piedi, a passo svelto.
Restai ferma, per un po', prima di sporgermi nella sua direzione e poggiare delicatamente le labbra su una sua guancia. Avrei voluto osare di più, ma era meglio tenere sotto controllo la mia illusione. Lui non si svegliò subito. Passò qualche minuto prima che aprisse gli occhi e si accorgesse della mia presenza. «Ehi» sussurrò, con voce impastata, passandosi una mano sul viso.

«Ehi» replicai, con lo stesso tono. «Ti ho portato un muffin».

Abbozzò un sorriso. «Non ho avuto cali di zuccheri».

«Lo so, ma una persona, una volta, mi ha detto che aiuta ad evitarli».

Lo feci ridere. «Persona molto intelligente».
Prese delicatamente il muffin dalla mia mano e gli diede un morso, sorridendomi poi. Sembrava sereno: l'innocenza e l'ingenuità che lo avvolgevano lo rendevano tale. A volte, avrei voluto dimenticare tutto anche io. Tutto, tranne lui, questo era certo.

«Ti va di...» balbettai. «Insomma, di... Uscire un po', oggi?».

Simon alzò un sopracciglio, ancora masticando. «Per andare?».

«Fuori. Non molto distante, ma... Possiamo divertirci anche stando nei paraggi e poi potresti... Prendere un po' di sole».

«Sono così pallido?».

«No, sei perfetto». Mi pizzicai appena il labbro inferiore con i denti e lui arrossì. Proprio come prima della sua perdita di memoria, Simon non andava d'accordo con i complimenti.
Mi alzai lentamente dal letto, portandomi una ciocca di capelli dietro ad un orecchio. «Vestiti, ragazzo carino» dissi. «Ti aspetto di sotto». Mi congedai con quella frase e mi sembrò di essere tornata indietro col tempo, quando tutto andava bene; ammesso che nella nostra storia ci fosse stato un momento in cui tutto era a posto.
Scesi in salotto e aspettai che lui fosse pronto, da sola. Martha e Thomàs non c'erano. Probabilmente, erano andati a recuperare cibo e altre necessità dall'altra parte del mondo – letteralmente. Quando Simon mi raggiunse, gli sorrisi e lo invitai ad uscire. Non avevo esattamente un piano per la giornata. Martha mi aveva suggerito di farlo ri-innamorare di me, ma, come avevo detto, non avevo la benché minima idea di come si facesse.

Passare il più tempo possibile con lui mi parve un buon inizio, anche senza fare molto; stare seduti sull'erba, camminare tra gli alberi, ridere, scherzare. Era quello che una normale coppia di adolescenti avrebbe fatto.
Alla fine, quando il sole stava per calare, ci ritrovammo sul tetto della casa, sdraiati l'uno accanto all'altra, a fissare le nuvole tinte d'arancio che di lì a poco avrebbero lasciato spazio alle stelle.

«Ho paura» sussurrò Simon, ad un tratto e, per un attimo, pensai fosse a causa dell'altezza. «Di cosa?» chiesi, allora, voltata col capo verso di lui, che intanto fissava il cielo.

«Di questo» mormorò. «Di me, del fatto che non ricordo nulla. Hanno detto che col tempo avrei recuperato la memoria, ma a me sembra di ricordare sempre meno».

«Non dipende da te, Simon».

«Lo so. E' che è ingiusto. Insomma, io non ricordo nemmeno i volti dei miei genitori o com'era essere un bambino. Non so quand'è il mio compleanno o dove sono nato. A volte mi sembra persino di non esistere».

«Tu sei Simon Clarke» esclamai, lasciando perdere parole consolatorie che non sarebbero servite a nulla. Non era ciò che voleva. Lui si voltò lentamente alla mia frase e io andai avanti: «Il tuo compleanno è il 19 dicembre. Compirai diciassette anni. Sei nato a Mansfield, nel Missouri, e ti sei trasferito a Chicago quasi un anno fa. Non hai mai avuto una vita facile, ma te la sei sempre cavata, anche quando tutto era sul punto di crollare. Non sono sicura di volere che ricordi le brutte cose che ti sono capitate. Da un lato, sono contenta che siano state rimosse dalla tua testa. Per quanto riguarda le cose belle, come i tuoi genitori, io, purtroppo non posso ridartele, però posso aiutarti a costruire altri ricordi felici e spero che, almeno per un po', ti possano bastare».

Simon assunse un'espressione indecifrabile per qualche secondo e sperai non desse di matto in quel momento per ciò che gli avevo detto. Non lo fece, anzi, accadde l'opposto: mi sorrise genuinamente, socchiudendo gli occhi. «Grazie» sussurrò.

«Non c'è di che» replicai e tornai a fissare le nuvole.

Forse non sarebbe stato così difficile farlo innamorare. O forse, il mio amore sarebbe bastato per entrambi. Mi piacque vederla così, almeno in quel momento, sotto le stelle che, timide, iniziarono a riempire il cielo.

  
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