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Autore: Fiby_Elle    13/10/2013    2 recensioni
Sopravvivere alla morte di una persona cara è sempre difficile.
Sopravvivere alla morte di un figlio è come affogare sulla terra ferma.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Sebastian Smythe | Coppie: Blaine/Sebastian
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Questa fan fiction partecipa all'iniziativa domeniche a tema organizzata dal gruppo Seblaine Events
 



Yellow
 
 
your skin 
oh yeah your skin and bones 
turn into something beautiful 
and you know 
you know I love you so 
you know I love you so 



Mi hanno detto che non hai rispettato lo stop.
L’acqua veniva giù a secchiate da un cielo plumbeo che aveva minacciato pioggia fin dal primo mattino, la città allagata si riempiva di fanghiglia, dell’odore stagnante di smog e umido, mentre tu tornavi a casa in sella alla tua Vespa gialla, zaino in spalla e scarpe di tela troppo leggere, quelle che papà ti ha urlato tutto l’inverno di non mettere, ma, come al solito, sei più testarda tu.
Ce l’avevi quasi fatta a superare quell’incrocio, bisogna dartene atto.
Coi tuoi riflessi di gazzella, sei sgusciata sulla destra, mancando il faro della Toyota per un pelo, probabilmente sia tu che l’autista avete tirato su sospiro di sollievo, eppure è proprio in quel momento che la pioggia vi ha fregato.
Le ruote della macchina ci hanno messo dieci centimetri prima di trovare l’attrito giusto per frenare.
Dieci centimetri sono poco più di quella penna viola che usi per scrivere sogni sul tuo diario.
Dieci centimetri sono il mio dito indice, sommato al tuo di bambina.
Dieci centimetri sei tu la prima volta che ti ho vista, un ammasso di cellule disegnato su una radiografia.
Dieci centimetri sono quelli che servono alla Toyota per urtare la tua Vespa e farti volare come un uccellino.
Atterri sulla sua carrozzeria, prima di scivolare nel fango.
L’asfalto ti scortica le guance, il motorino ti trascina con sé per un paio di metri, poi ti ruba una scarpa; la gente accorre verso di te, incredula, impaurita, mentre l’eco del tuo impatto col suolo riempie ancora l’aria, si amalgama coi tuoni nel cielo.
Perfino la pioggia concede un attimo di tregua, forse si ferma anche lei a guardarti, come uno di quei passanti che adesso ti circondano, pieni di preoccupazione.
Ma è un rivolo rosso, quello che ti macchia i capelli, Ellie, è sangue quello che si mescola all’acqua stagnante.
Come al solito, non avevi indossato il casco.
 


Quale è stata l’ultima cosa che hai detto, Ellie?
Qual è l’ultima parola che è uscita dalla tua bocca?
Io la prima me la ricordo, è stata papà.
Blaine stava provando una canzone al pianoforte, io e te lo ascoltavamo dal divano, battendo le mani e inventando smorfie quando il ritornello non ci piaceva. In quel periodo ci divertivamo molto a inventare nuove ninne nanne per te e ricordo chiaramente che, sebbene fossi così piccola, riuscivi lo stesso a far prevalere la tua opinione, già determinata come saresti stata anche da adolescente.
Ad un certo punto io e Blaine ci siamo messi a battibeccare per un Si bemolle, quando all’improvviso ti sei scocciata, hai imposto la tua autorità da piccola diva e ci hai riportati all’ordine.
Papà!
È forse questa l’ultima cosa che hai sussurrato? Hai forse pensato a noi? Chiesto il nostro aiuto?
Non lo so, Ellie, perché io accanto a te non c’ero, ero chiuso al sicuro tra le scartoffie del mio ufficio, mentre tu cercavi un’ancora qualunque che ti tenesse giù.
È stato Thad a dirmelo.
È entrato nel mio ufficio in silenzio, tanto che ci ho messo un po’ ad accorgermi della sua presenza; si è piazzato davanti alla mia scrivania, traballando, poi mi ha guardato, ma con dieci anni di vita in meno sulla pelle.
“Ha chiamato l’ospedale.” ha mormorato, spaesato, incredulo “Helen ha avuto un incidente.”
Siamo rimasti immobili, tutti e due.
Penso di aver fissato il vuoto diciassette anni, diciassette anni in cui mi sono visto passare davanti agli occhi tutta la tua vita, giorno dopo giorno –la prima volta che ti ho tenuta in braccio, tu e papà che cantate vecchie hit di Katy Perry, saltellando per tutto il salotto, tuo fratello Jason che ti urla contro, perché, al solito, ti sei finita il suo pacco di biscotti.
Poi, ho cominciato a ridere.
“Ellie è a casa, Thad.” ho affermato tra le risate, sicuro come non ero stato su niente nella mia vita.
Perché la mia bambina non poteva essere in ospedale, non poteva essersi rotta la testa, era in camera sua a scrivere canzoni, anzi, sicuramente era a telefono con qualche sua amica, occupando la linea di tutta la casa e facendo salire vertiginosamente la bolletta.
“Ellie è a casa.” ho ripetuto, ma la mia voce era già più flebile.
Il coraggio di contraddirmi, zio Thad non l’ha avuto.
Ha fatto appena in tempo a scuotere la testa, prima di eruttare in un pianto isterico.
No, Ellie, non eri a casa.
 


Dirlo a Blaine è stata la cosa più difficile che io abbia mai fatto nella mia vita.
L’ho chiamato dalla macchina, prima si scendere per entrare in ospedale.
Aveva ricominciato a piovere.
Non sapevo neanche cosa dire, se dargli una speranza o metterlo davanti ai fatti, mi sentivo una bambola, la mia testa era vuota, non riuscivo a pensare in modo razionale.
Ma cosa c’è di razionale in mia figlia che muore.
Cosa c’è di razionale nella mia bambina di diciassette anni che non mi vedrà invecchiare, che non canterà mai più con me.
Sentire la voce di Blaine dall’altro lato della cornetta è un pugno nello stomaco, ma sentire la mia bocca che parla, che dice che hai avuto un incidente, è come qualcuno che mi apre le costole a mani nude e mi strappa via il cuore.
Perché quando una cosa la dici ad alta voce, Ellie, quando una cosa esce fuori dalla tua testa, allora smette di poter essere un incubo e acquisisce sostanza.
E la sostanza, questa volta, è che tu sei in una sala operatoria, con la testa aperta ed io vorrei soltanto morire.
Tuo padre mi chiede di ripetere quello che ho appena balbettato.
Non ci crede, come d’altronde, stento a crederci ancora io.
Il verso che fa ascoltando il mio silenzio somiglia al ragliare di un asino, un verso di dolore fisico che non può appartenere ad un essere umano.
“Ti prego dimmi che è ancora viva! Sebastian! Ti prego! Dimmi che ancora viva!”
“Non lo so.”
Ellie, non lo so.
 


Blaine a Jason arrivano dieci minuti dopo, sorreggendosi l’un l’altro come due profughi, gli occhi rossi e le guance umide.
Blaine lascia che Jason prenda posto su una delle poltroncine, dopodiché si rifugia tra le mie braccia, che lo cingono per pura inerzia, perché dentro di me non è rimasto più niente, eppure lo stringono, forte, come a tenere insieme le ossa di questo scheletro vuoto.
Non hai idea di quanto io abbia amato quest’uomo, Ellie, sono bravo coi giochetti, con le battute intriganti e i giri di parole, ma quando si tratta di sentimenti arrossisco ancora come un bambino.
Ho amato Blaine perché dicevo a tutti di essere uno stronzo, lui però non c’ha creduto e alla fine ha convinto pure me.
Amo Blaine perché siamo sposati da vent’anni, ma ancora adesso, quando faccio l’amore con lui, tremo mentre lo tocco.
Amerò Blaine per il resto della mia vita perché avete gli stessi occhi, lo stesso modo di guardarmi e farmi sentire migliore rispetto alla merda che sono. Lo amerò perché stiamo andando in pezzi e c’è Jason e ci siamo noi e dovremmo combattere l’un per l’altro per non cadere, per non morire di dolore come ci sembra adesso.
Il medico appare dalla porta poco dopo, ma non c’è bisogno che parli, sai Ellie? Io già lo so.
Non c’è stato molto da fare, quando sei arrivata qui stavi già volando via e hanno provato a tirarti giù per un piede, ma avevi la testa allagata.
Sei morta sull’asfalto, guardando il cielo sopra di te, serena e dignitosa come sei sempre stata.
Tuo fratello crolla sui talloni, fissa il pavimento coi suoi occhi verdi sgranati, respirando in modo affannoso come dopo una maratona.
Blaine nasconde il viso sotto il mio braccio, nell’incavo della mia ascella e camuffato dalla stoffa della mia camicia, si lascia andare ad una specie di ringhio, mentre con le mani intrecciate ad abbracciarsi lo stomaco, sembra voglia imprimersi le unghie nella carne.
Per quanto riguarda me, Ellie, riesco solo a pensare che quella Vespa gialla te l’ho regala io.
Io e solo io ti ho condannato a morte.
Mi accorgo di essermi dilaniato il labbro coi denti, solo quando la mia bocca si riempie di sangue.
 


Come si sopravvive alla morte di un figlio, Ellie?
Tu eri aria nei polmoni, senza di essa, cosa rimane?
Io e Blaine entriamo nella tua stanza e ancora spero di non riconoscerti, che si siano sbagliati, che il cellulare squilli e dall’altra parte ci sia il tuo broncio, la tua voce scocciata che si lamenta perché ha fame. Ma c’è silenzio in quell’affranto di ospedale, nessun trillo viene a salvarci… e quella bambola senza capelli puoi essere solo tu.
Ti riconosco dalla forma delle labbra, morbide, rosse, un po’ a cuore.
Saprei individuarle tra mille, anche con un taglio netto al centro, un dente saltato, la pelle raschiata dalla guancia al mento; saprei farlo perché le labbra sono la prima cosa che ho baciato quando l’infermiera ti ha posato tra le mie braccia, prima di affondare il naso nel tuo odore di neonata.
Sei tu.
Sei tu con le tue unghie mangiate, i polpastrelli consumati dalle corde della chitarra.
Sei tu con le ciglia lunghe e nere, anche senza mascara.
Sei tu con la cicatrice sotto il mento, quella volta che dallo zio Coop volevi fare la coraggiosa e ti sei fatta mettere in sella ad una bici senza rotelle.
Sei la mia Helen che sbatte le porte, caparbia come una leonessa e che adesso sembra soltanto un uccellino addormentato.
Blaine è il primo che si avvicina.
Ha superato quella rabbia sorda che gli era esplosa nel cuore e adesso piange, ma non emette un suono. Si siede accanto a te su una sediolina, a vederti così indifesa gli scappa un sorriso, ti accarezza la testa calva.
“Sei bella…” dice “Sei proprio bella.”
Io non ti trovo bella, Ellie.
Non c’è bellezza nella tua pelle livida, quando dovrebbe essere rosea, piena di vita.
Non c’è bellezza nelle tue braccia abbandonate lungo i fianchi, quando dovresti essere in camera tua a provare quel vestito blu che adori, sorridendo allo specchio per quel boccolo dispettoso che ogni tanto ti spunta davanti al viso, a solleticarti il naso.
Non c’è giustizia nella mia bambina che muore, tu che sei fatta solo di cose buone, che urli tanto, ma non hai mai fatto male a una mosca.
Qual è stata l’ultima volta che ti ho sentita ridere?
Quando è stata l’ultima volta che ti ho detto che ti amavo?
Ci penso, ma non me lo ricordo, ho paura di non averlo mai fatto.
Ma ti ho amato, Ellie, ti ho amato talmente tanto che adesso mi sento come se qualcuno mi avesse rubato un pezzo di corpo e se non sto piangendo, è perché il dolore si è preso tutto, perfino la mia disperazione e l’unica cosa che vorrei fare adesso è urlare fino a perdere i sensi, così magari tu ti svegli e mi dici che è soltanto un brutto sogno.
Eppure non è un brutto sogno, Ellie, è una realtà dove io mi sveglierò i giorni a venir, sapendo di non trovarti, dove tutto mi parlerà della tua assenza, alimentando questa voragine che ho nel petto.
D’un tratto Blaine ti prende la mano, preme le labbra sulla tua pelle e comincia a mormorare qualcosa.
Ci metto un po’ prima di capire cosa stia facendo, perché la sua bocca incollata fa fatica ad articolare le parole e quella che è una canzone sembra quasi una preghiera.
Hallelujah, degli Imogen Heap.
All’inizio lo guardo stranito, penso che sia pazzo. Non mi sembra il momento adatto per mettersi a cantare, poi però mi ricordo il luccichio dei tuoi occhi, la prima volta che ti ho posato una chitarra in mano, e il modo abbagliante in cui hai sorriso, quando ti dicemmo che ti avremmo iscritto ad una scuola di canto e allora capisco che se c’è un momento adatto per cantare è solo e soltanto questo, così mi siedo dall’altra parte del letto, ti stringo anche io una mano gelida e mi unisco a lui.
Dalle sponde opposte di quella tomba, io e Blaine troviamo la forza di sorriderci.
Se devi volare via, Helen, non ti permetteremo di farlo tra le lacrime, senza una mano che ti stringe.
Forte.
 



Addio, piccola Ellie.
Addio piccola donna, cocciuta come un mulo, il cuore fatto d’amore e la testa piena di sogni.
Sappi solo che non sei mai stata sola, che non è esistito un solo secondo in cui tu non sia stata amata.
Addio amore mio e se sbaglio qualche nota, scusami, non ti arrabbiare.
Sono solo che io che finalmente piango e premo un bacio, per l’ultima volta, sulle tue labbra sbucciate.
 
 
 
 
 
 
Ovviamente ispirata dall’ultima puntata di Glee, sottolineo il fatto che questa fan fiction non ha alcuna pretesa ed è stata scritta per puro sfogo personale dell’autrice.
Spero soltanto che vi sia piaciuta. 
   
 
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