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Autore: Selina    10/04/2008    7 recensioni
Raccolta di tre oneshot horror, completamente scollegate tra loro. AU.
1. The Queer Half
Sora si intrufola nel laboratorio sbagliato e beve l'intruglio sbagliato, e come al solito tocca a Riku mettere insieme i pezzi. [Riku, Sora, Kairi]
2. Goodbye Pisces
Una strana conversazione tra una ragazza scappata di casa e un ragazzo bloccato in mezzo al niente. [Riku, Naminé]
3. Wishmaster
Il solito, vecchio 'stai attento a quel che desideri', ma c'è ancora qualcuno che non ha imparato la lezione. [Axel/Roxas/Naminé]
Genere: Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
Capitoli:
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Personaggi: Riku, Naminé.

Pairing: sono sempre gli stessi che girano XD RikuSora, SoraKairi, RokuNami e AkuRoku impliciti.

Rating: PG13.

Note: avevo BISOGNO di scrivere qualcosa su Naminé, è una necessità che ricompare ad intervalli regolari ;_; Sarà per questo che la shot mi è uscita particolarmente fluida (e spero più comprensibile della precedente *_*). Si può anche dire che sia la versione girl power di Another Night XD

Goodbye Pisces è il titolo di una canzone di Tori Amos<3, mentre durante la stesura ho ascoltato ossessivamente Jackie's Strength<3



:: GOODBYE PISCES ::



Era il momento in cui la preda scappava, quello in cui le leonesse l’attaccavano alle spalle.


Pioveva così forte che faceva fatica a sentire i propri pensieri.

Lei e lo sconosciuto condividevano il minuscolo micromondo che la tettoia ritagliava nella pioggia scrosciante, come una prigione umida su cui si specchiava il riflesso caliginoso del lampione.

Pesci segregati in un acquario.

Lei si era sentita rinchiusa in una boccia di vetro per tutta la vita, ed era frustrante che tutte le miglia percorse, tutta l’invalicabile distanza che aveva posto tra la sua vecchia vita e quella che sperava fosse la nuova non avesse cambiato le cose.

L’autobus faticò a ripartire, e le ruote slittarono a vuoto. Lei cercò di ripararsi le gambe nude con la giacca, ma non fece in tempo, e fanghiglia gelida e sporca le schizzò sui polpacci, lasciati scoperti dal leggerissimo vestito estivo. Cercò di asciugarsi con le mani come poteva, e rabbrividendo si rimise la giacca sulle spalle. Il pullman si perse in lontananza.

Anche il ragazzo aveva subito l’assalto della fanghiglia, come i suoi jeans testimoniavano, ma non sembrava curarsene. Non sembrava curarsi di niente, in una paziente, silenziosa attesa, con gli occhi fissi di fronte a sé come se attraverso la pioggia battente riuscisse a vedere qualcosa. Lei lo guardò di soppiatto, cercando di non farsi notare, seduta dall’altro lato della panchina gelida.

Poteva essere pericoloso. Era uno sconosciuto, ed erano soli in mezzo al niente, in piena notte, con le gocce di pioggia che cadevano fitte come aghi.

Poteva essere qualunque cosa.

Eppure, in definitiva, l’unica cosa chiara era la sua squisita, innegabile bellezza.

Avrebbe voluto tirare fuori il blocco e provare a disegnarlo, sfumando il candore della sua pelle con un rosa appena accennato sugli zigomi, ed avrebbe rifinito d’argento il bianco scintillante dei suoi capelli. Ma era assai improbabile che quello sconosciuto non si sarebbe accorto di essere provvisoriamente diventato il suo modello, e lei non voleva attirare la sua attenzione.

E poi non aveva più un blocco.

L’aveva gettato nel fiume prima di partire, per dimostrare qualcosa, ma guardandolo assorbire l’acqua putrida prima di affondare si era sentita esattamente allo stesso modo. Satura fino all’orlo di residui melmosi, incrostati alle pareti del suo cuore come uno strato di sporcizia particolarmente ostinato che neppure raschiando fino a sanguinare si sarebbero staccati. Aveva pensato che abbandonando la sua cattedrale di pastelli in fondo all’oceano sarebbe riuscita a riemergere fino a toccare la riva ostile, ma anche se il suo mondo da sogno era rimasto sepolto sotto una cupola di acqua stagnante non era cambiato niente.

Aprire gli occhi non aveva salvato la principessa dalla sua torre d’avorio.

E quella notte senza fine si trascinava lenta come una preda agonizzante, su cui il fruscio ininterrotto della pioggia si attorcigliava come un viticcio velenoso.

Stava iniziando a pensare che la sua vita fosse iniziata e finita su quella panchina quando, molto più tardi, si decise a richiamare l’attenzione del suo silenzioso compagno. Si era mosso appena da quando l’autobus era ripartito, e lei aveva captato ogni singolo, trascurabile gesto con uno stato d’animo a metà tra l’aspettativa ed il terrore.

Era troppo bello perché la speranza di essere toccata, anche solo per un attimo, non mettesse radici nella sua pelle.

«Scusa… - iniziò, cercando di dare un nervo d’acciaio alla sua voce flebile - Sai a che ora passa il prossimo autobus?»

Lui si girò lentamente, muovendo prima gli occhi verdissimi della testa. Era un effetto stranamente inquietante.

Era come se i suoi occhi la trapassassero.

«Quello che è ripartito era l’ultimo. Bisogna aspettare fino a domattina.»

«E fin dove arriva il primo che passa?»

Le sue labbra pallide ebbero una specie di scatto. Impiegò un lungo attimo a capire che ad animarle era stato un ghigno.

«Da nessuna parte. Questo è il capolinea, al massimo tornano indietro.»

Naminé si strinse le braccia al petto, chiudendosi la giacca. Sentiva il gelo scorrerle lungo la pelle come un cubetto di ghiaccio, ma non era spaventata, non ancora. Non era il pericolo a scenderle fino alle ossa come una lama. Era qualcos’altro. Qualcosa che aveva a che fare con i suoi occhi verdi.

Qualcosa che somigliava alla rassegnazione.

«E se io volessi andare avanti?»

Lui si strinse nelle spalle. La luce incerta del lampione illuminò il guizzo netto dei muscoli, sotto la pelle tesa delle braccia scoperte.

«Dovrai farlo a piedi.» Le indicò qualcosa di indistinguibile, nella pioggia fittissima, oltre l’alone di luce. «Da quella parte c’è una fermata dell’autobus, dove passa un’altra linea. È ad una decina di chilometri. Se parti adesso dovresti arrivarci prima di mattina.»

La strada buia e fradicia non era particolarmente allettante. Si strinse nella giacca ancora più strettamente, con un gesto nervoso.

«E tu?»

Fu stranissima la sensazione di avere finalmente addosso i suoi occhi, e questa volta per davvero.

«Io cosa?»

«Tu… torni indietro?»

Vide i muscoli della mandibola contrarsi, sotto le guance perfettamente lisce. Era troppo, troppo vicina. Ma all’improvviso le sembrò che nessuna estremità di nessuna panchina l’avrebbe condotta abbastanza lontano da lui. Era troppo bianco, troppo bello, troppo strano per non divorare la distanza.

«No. Non tornerò mai più.»

E Naminé, a cui le persone erano sempre sembrate universi sigillati in cui non aveva il permesso di entrare, sentendo in quel gelo profondo una sfumatura stranamente familiare agì nella maniera più impensabile che potesse venirle in mente. Spalancò la porta.

«Non tornerai perché non puoi?»

«Non lo farò perché non voglio.» Ed il suo sguardo offeso la sfidò a sostenere il contrario, improvvisamente vivido, improvvisamente vicino.

Lei strinse le labbra, sforzandosi di sembrare decisa.

«Nemmeno io tornerò.»

«Non hai qualcuno che ti aspetta?»

Sembrava quasi interessato, ora. Quasi presente. Quasi vero.

«Nessuno che io voglia rivedere.»

L’istituto.

DiZ. Marluxia. Larxene. Axel.

Roxas.

«Capisco.»

«E tu? - gli domandò a bruciapelo, incurante del bagliore liquido dei suoi occhi - Non c’è nessuno che ti aspetta?»

Ne fu certa, stavolta. In un qualche strano, contorto, spaventoso modo, il ragazzo sorrise.

«Credo che sia passato troppo tempo.»

Poteva essere più vecchio di lei di un anno, due al massimo. Non doveva essere lontano da casa da tanto. Anche perché sembrava perfettamente padrone della situazione, perfettamente vestito, perfettamente in salute. E soprattutto, non sembrava affatto che avesse intenzione di nascondersi.

Ma in fondo erano sperduti nella campagna sotto una pioggia torrenziale, neppure lei che era scappata da neanche dodici ore pensava di doversi nascondere da qualcosa.

«Sicuramente ti staranno ancora cercando…»

«No. Non c’è più nessuno da cercare.» E la maniera stranamente sicura, stranamente definitiva con cui glielo disse sigillò qualunque replica dietro le sue labbra.

Attese che il silenzio sciogliesse gli echi delle loro ultime parole, prima di tornare ad aprire bocca.

«C’è qualche posto in cui vorresti andare?»

Gli sembrò di sentirlo ridere. Fu come un dito trascinato su un vetro, un suono appena percettibile che lega i denti.

«Nella città più grande di tutte. Sulla spiaggia più bella. Sulla montagna più alta. Vorrei attraversare l’oceano e navigare sul fiume più lungo del mondo. Vorrei vedere più gente di quanta riesca ad immaginare. Vorrei andare via.» Sospirò, e sentirlo fu quasi doloroso. «Sì, vorrei andare via. Vorrei scappare.»

«Da cosa?» domandò lei, confusa.

«Da chi. È sempre quella la domanda giusta.»

Roxas.

«Sì. Lo è.» Il battito della pioggia era così continuo che sembrava diventato silenzioso, alle sue orecchie ormai assuefatte. «Da chi, allora?»

Lui inclinò un po’ la testa, con aria stranamente meditativa.

«Pensavo che a forza di bussare mi avrebbe fatto entrare, sai. Ma lui ha fatto finta di non sentire.»

«Lui?» non riuscì a non chiedere Naminé, mentre il ragazzo sorrideva di nuovo, tagliente come una lama.

«Si chiamava Sora.» Fece una pausa brevissima, poi le chiese subito, come per un ripensamento: «Tu invece perché sei qui?»

Naminé sussultò, arretrando per istinto. Era così abituata a restare sigillata nella sua piccola boccia per i pesci che all’improvviso, al tocco leggerissimo di quello sconosciuto, si sentì assalita.

«C’era qualcuno che non volevo più vedere» confessò alla fine, a voce bassa. «Perché vederlo era diventato doloroso.»

Il sogghigno con cui le rispose fu spietato come un’aggressione.

«Vigliacca fino alla fine. Come tutti.»

«Come te.»

Ed anche se non sapeva da dove avesse tirato fuori il coraggio di dirglielo, la risata aguzza del ragazzo si frantumò sui suoi denti stretti come le mascelle di una tagliola.

«Mi chiamo Riku.»

Lei sbatté le palpebre, sorpresa, e fu per reazione meccanica che gli rispose: «Io sono Naminé.»

«Na-mi-né» ripeté lui lentamente, dando al suo nome una cadenza stranamente musicale. «Somigli a qualcuno che conosco.»

«Qualcuno che ti piaceva?»

Era come se quella loro conversazione non fosse del tutto reale. Come se, in qualche modo, potesse lasciare nello zaino Naminé per essere qualcun altro, lì seduta in mezzo al nulla.

«Qualcuno che odiavo.» Era come, si rese conto con un brivido, essere sola. «Ma paradossalmente era una delle poche persone che riuscivo a sopportare.»

Le venne da ridere, assurdamente. E lo fece, pianissimo, a voce bassa.

«È strano. Anche tu mi ricordi una persona che detesto.» Si zittì per un secondo, il tempo di un respiro. «Avete gli stessi occhi.»

«Scommetto che era una persona orribile.»

«Era fastidiosa. E spaventosa, a modo suo.»

«È da lei che sei scappata?»

Scosse la testa, infastidita, come una bambina scoperta con le mani nella cioccolata.

«Non sono scappata.»

«Tutti scappano. Scappano sempre.»

Lui aveva gli occhi chiusi, adesso. Abbassò la voce, come se avesse paura di disturbarlo.

«Ho pensato che sarebbe cambiato tutto, se me ne fossi andata.»

Che Naminé sarebbe stata meno Naminé.

Lui non disse niente, ma fu come se l’avesse sentita.

E lei aggiunse, in un sospiro: «Mi ha portato via qualcosa a cui tenevo.»

«E tu hai cercato di riprendertelo?»

«Non pensavo di poterci riuscire.»

Lui tirò indietro la testa e si appoggiò al muro di plastica della stazione. Aveva ancora gli occhi chiusi.

«Questa musica non cambia mai.» Li riaprì lentamente, il verde che si accendeva a schegge attraverso le ciglia fitte. «Questo posto non cambia mai. Sono stanco di tornare.»

«Non tornarci, allora» rispose lei, confusa. «Non c’erano un sacco di posti in cui volevi andare?»

Lui sospirò, ed all’improvviso la sua voce le sembrò lontanissima, quando le rispose. «Ci ho provato, una volta. Non sono andato molto lontano. Non sono neanche riuscito ad arrivare alla prossima fermata. Per questo torno sempre qui.» La luce del lampione si riflesse nel bianco metallico dei suoi capelli, quando raddrizzò la testa e la fece ondeggiare leggermente, enfatizzando il tono cantilenante delle sue parole. «Sempre, sempre, sempre.»

La sua voce le scorreva come ghiaccio sulla pelle. E solo adesso, finalmente, Naminé ebbe davvero paura.

«Cos’è successo?»

«Era una nottata così bella» bisbigliò lui, appoggiandosi di nuovo alla parete. «Ero solo, finalmente. Ero libero. Potevo fare qualunque cosa, arrivare dappertutto, vedere tutto quello che c’era da vedere. Pensavo che arrivato in città avrei avuto soltanto l’imbarazzo della scelta per la vita che avrei voluto vivere.» Sospirò, in una maniera a stento percettibile. «Sai, quella volta non pioveva.»

Naminé si strinse di più nella giacca, senza sapere cosa dire. E dopo un attimo lunghissimo, trascinato nel tempo come un respiro interrotto, lui ricominciò.

«Quando si è fermata quella macchina ho pensato che sarebbe stata una buona idea farsi dare un passaggio. Non avevo paura. Non ero debole, pensavo, e non ero indifeso. Non credevo, allora, che potesse esserci qualcuno più forte di me.» Fu feroce il sogghigno con cui lo ammise. «È una lezione molto difficile da imparare.»

Parlare era come cercare di inghiottire della ghiaia. La sua gola non era preparata, non era pronta e non era fatta per riuscirci.

«Sei stato…»

«Stuprato ed ammazzato. E pensa - le disse, girandosi verso di lei con occhi verdissimi ardenti come quelli di un gatto nel buio - anche lui aveva i capelli bianchi.»

Era così strano, così assurdo. Impossibile da credere.

Non pensò neanche per un attimo che non fosse vero.

Rimasero in silenzio per tantissimo tempo, fino a quando Naminé non riuscì di nuovo a respirare. E con la mente sconvolgentemente lucida, sconvolgentemente limpida, gli domandò di nuovo: «Torneresti a casa, se potessi?»

Le belle labbra di Riku si torsero in una smorfia.

«No, non lo farei. Te l’ho già detto.»

«Allora penso che potresti essere felice, adesso.»

Riku non rispose. Era così bello, così strano, così bianco. L’aveva pensato subito. Ed ora che lo guardava da vicino, che lo vedeva davvero, le sembrava anche così incorporeo, così evanescente. Così inutile.

Tutto era inutile, all’improvviso. Probabilmente lo era sempre stato.

Aveva quasi smesso di piovere quando Naminé, mentre la notte agonizzava, lo chiamò: «Riku?»

«Mh?»

«…e se lui ti avesse detto di sì?»

La sua figura sembrò sfarfallare leggermente nel primissimo chiarore dell’alba, ed il suo sorriso aveva una sfumatura amara mentre si girava a guardarla.

«E se a me non fosse bastato?»

Esitò a rispondere, e più aspettava, più la voce di Riku s’infiltrava nella sua testa come un’eco, più le sembrava che ci fosse qualcos’altro dietro la superficie piatta delle sue parole. Un intero mondo, sconosciuto, profondo come l’oceano. Ed altrettanto spaventoso.

Ma qualunque cosa potesse dirgli, qualunque cosa potesse sembrare meno scontata ed inutile in quella sua esistenza terribile in cui i ticchettii degli orologi si riavvolgevano continuamente su se stessi, fu stroncata prima ancora di nascere dall’arrivo dell’autobus.

Lo videro arrivare lungo la stradina fangosa, da lontano, spuntando dalla nebbia mattutina come una creatura viva. Ed il debole chiarore del sole che si faceva strada tra le nuvole si riflesse sul parafango schizzato, sulla carrozzeria rovinata, sul parabrezza sporco.

La voce di Riku sembrava stranamente divertita, stranamente rassegnata quando le chiese: «Hai deciso di tornare a casa?»

Avrebbe voluto che quella notte assurda fosse riuscita a regalarle qualcosa di trascendente, una visione, una certezza, una speranza d’acciaio in cui poter credere. Ma le restava soltanto un’angoscia senza forma, ed il terrificante sospetto che avrebbe potuto esserci lei su quella panchina a guardare Riku andare via, se solo le cose fossero andate diversamente. Se solo fosse arrivata prima.

Mentre osservava la sua sagoma diventare sempre più traslucida nel chiarore dell’alba, l’unica rivelazione che riuscì ad afferrare fu che non voleva diventare come lui.

«Per ora» gli rispose, guardandolo scomparire. «Ci sono delle cose che devo fare.»

Ed il suo passo era sicuro, mentre si avvicinava all’autobus fermo dall’altra parte della strada. Si sentiva stranamente poco provata dopo la nottata in bianco. Forse era stato tutto un lunghissimo sogno.

Ma sapeva di essersi svegliata, adesso.

Avrebbe fatto una scala con le sue lenzuola annodate e l’avrebbe gettata dalla finestra. Sarebbe scesa dalla sua torre d’avorio ed avrebbe ripescato dal fondo del mare i suoi pastelli ed i suoi fogli, perché non era niente di così reale a chiuderla in quella prigione piccola e scura che aveva chiamato Naminé.

Ed anche se non sapeva se sarebbe riuscita ad ottenere quello che voleva, sapeva che avrebbe tentato.

Avrebbe ripulito il suo cuore incrinato dalle alghe che lo soffocavano ed avrebbe continuato a camminare.



  
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