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Autore: shimichan    24/10/2013    8 recensioni
Una one shot. Tre vite. Mille ricordi.
“Ricordavo Londra. I suoni, le luci, l’atmosfera…hai poi scoperto cosa c’era nel cuore della ragazza che amavi?”. Si stende al suo fianco, prendendole la mano. “Ho scoperto cosa c’è nel mio, tu”.
[ShinRan moments]
Gatto è un regalo di Shinichi, che aveva storto il naso, quando aveva scoperto come si sarebbe chiamato. L’aveva accusata, con un sorriso, di essere un’emulatrice e lei, in risposta, di essere uno stupido.
[ShinShiho friendship]
Solo che amare è un verbo, non un aggettivo. Non è una cosa statica, fissa, stabilita.
È mutevole, si evolve, cresce e a volte s’inabissa. Basta solo trovare la coniugazione giusta per farlo riaffiorare.

[...?]
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Altro Personaggio, Ran Mori, Shinichi Kudo/Conan Edogawa | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo, Shiho Miyano/Shinichi Kudo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutti! ^^
Questa è la prima volta che scrivo un fic di questo genere...una raccolta di frammenti che vedono coinvolti i tre moschettieri protagonisti.
Vi avviso è molto lunga...però scorrevole, quindi non dovrebbe risultare pesante (almeno spero....o___O)
.
Spero vi piaccia, ma al solito sta a voi giudicare, perciò...giudicate, giudicate!





Dedicata ad angelo97, Juuri e Stella1994x,
perchè ogni storia deve avere il suo lieto fine





La solitudine dei numeri primi

 
“I numeri primi sono divisibili soltanto per 1 e per se stessi. Se ne stanno al loro posto nell'infinita serie dei numeri naturali, schiacciati come tutti fra due, ma un passo in là rispetto agli altri” (P. Giordano)
 
 

 
New York, 13 settembre 1983
 
Il legno profuma. Di vecchio, di stantio, di cartapesta e vernice, di lacrime, di sudore, di polvere accumulatasi negli angoli che nessuno vede. Il legno in ogni venatura, in ogni graffio, in ogni ammacco cela la storia del teatro che la sua forza da anni sorregge, e così anche una semplice carezza può accorgersi della mano che in precedenza si è posata su una tavola e l’orecchio udire il respiro ansioso del Romeo di Olivier prima che questo entrasse in scena a proclamare che l’amore è fiele che strangola e dolcezza che sana.
“What are you doing here?”.
La voce sorpresa di un bambino le fa staccare le dita dalla trave su cui è seduta, quasi la stesse profanando. Si volta, ritrovandosi davanti due occhi blu che la fissano in attesa di una risposta.
“You can’t…” si blocca, dubbioso “…mi capisci almeno? Do you understand me?”.
Lei annuisce, preferendo il silenzio alle parole.
“Sei la figlia di un addetto ai lavori?”.
No, mima, nuovamente solo con il capo.
“Allora non puoi stare qui”.
“A me piace stare qui” rivela in un sospiro, sollevando un lembo della pesante tenda di velluto.
“Si vede il pubblico”.
“E cosa c’è di bello? A teatro si viene per assistere ad uno spettacolo”.
Lei alza le spalle. “Preferisco stare dietro quinte. Quando non sanno di essere viste, le persone sono più vere e non puoi essere ingannato, mentre sul palcoscenico e in platea vigono severe le regole dello spettacolo e dell’etichetta. Guardi il tuo vicino di posto e non puoi non chiederti se la sua cortesia sia reale o fittizia, ma qui…qui è tutto inevitabilmente vero”.
La fissa sbalordito e in parte contrariato, tuttavia non ha modo di replicare perché sua madre lo strattona per la collottola.
“Shinichi! Quante volte ti ho detto che non puoi stare qui!”.
“Ma mamma!” cerca di giustificarsi, agitando una mano “…lei…lei…”.
Lo sguardo esasperato di sua madre s’incrina, divenendo furente ed il piccolo capisce subito il perché: sta indicando un punto vuoto.
 

 
New York, 8 Febbraio 1985
 
“Ran non dirmi che hai ancora paura del buio!”.
“N-no” e si stringe più forte alla manica dell’amico, tentando invano di sopprimere i brividi.
Il rumore dei passi che incespicano sui materiali di scena risuona sordo nell’oscurità,
prolungandosi in eco spettrale quanto l’ambiente polveroso da cui sono circondati.
“P-perché…perché mi hai portato qui?” chiede, torcendosi le dita attorno all’orlo della gonna, impiastricciata dalle ragnatele.
Lui si ferma all’improvviso e sfoggia un sorriso rassicurante,
mentre allunga un braccio per scostare i drappeggi che impediscono alla luce di filtrare.
“Guarda. Questo è il posto migliore del teatro”.
Ran si sporge ed gli occhi le si riempiono d’ammirazione nel vedere la platea, le gallerie, i soppalchi intarsiati da eleganti foglie laccate d’oro riempirsi di gente in palpitante attesa, ma, nello scorgere una donna visibilmente emozionata, seduta in prima fila, il suo entusiasmo si spegne.
“Shin, da qui non possiamo assistere allo spettacolo però…”.
 
 

Tokyo, 29 Aprile 1996
 
Il lucchetto si chiude con un click metallico e Shiho si guarda attorno per accertarsi che nulla le sia sfuggito.
“Allora è vero. Stai partendo”.
Trasalisce, prima di rendersi conto che quella voce appartiene a Shinichi.
“Nessuno ti ha insegnato a bussare, Kudo-kun?”.
“La porta era aperta” mormora senza enfasi, più per l’abitudine di rimbeccarla che per reale necessità di giustificarsi. Muove qualche passo, fermandosi in mezzo alla stanza alla vista della valigia gonfia sul letto e del biglietto di sola andata posato sulla scrivania.
“Non sono qui per chiederti di rimanere, ma per accertarmi che tu abbia fatto la scelta giusta”.
Shiho socchiude le palpebre, riflette, sposta lo sguardo sullo specchio.
È diversa da come si aspettava, da come sperava di essere, perché lo specchio è la forma più crudele di verità. Non si appare mai come si è veramente. Sarebbe tutto più semplice se l’immagine riflessa corrispondesse a chi si è dentro, sarebbe bello doversi limitare a mostrarlo e invece ci vogliono sempre le parole, quelle che lei non riesce a pronunciare.
In quel silenzio, tuttavia, una risposta giunge comunque.
“Vuoi che ti accompagni in aeroporto?”.
“No, ho chiamato un taxi. Sarà qui a momenti”.
Shinichi si torce le dita nelle tasche. Vorrebbe abbracciarla, ma gli abbracci prima di una partenza hanno sempre il sapore amaro di un addio, mentre lui vuole considerare quel distacco come un speranzoso arrivederci.
“Allora….ciao”. Il tono è impacciato, gli occhi afflitti. “E ricordati di scrivermi, sei pur sempre la mia partner”.
Le labbra di Shiho disegnano un piccolo sorriso che vale quanto una promessa, anche se il suo sguardo s’incrina, schiacciato da una verità nascosta a lungo, come si conviene a quelle importanti, quelle difficili da scovare, che si aprono solo a chi ha la chiave giusta.
Annuisce nonostante tutto e sale in auto, senza voltarsi, senza vedere Shinichi impalato in mezzo alla strada con la mano sollevata in un plastico saluto, senza udire il suo battito rallentare quando il taxi scompare dietro l’angolo.
Qualcosa si spegne dentro di lui, come un ultimo tizzone rimasto vivo troppo a lungo sotto la cenere.
Il suo cuore sa, per questo non la rincorre. In fondo, pensa, è giusto così: la vita va vissuta, non osservata.
A Shiho, poi, non è mai piaciuto assistere agli spettacoli dalla platea.
 

 
New York, 22 Giugno 1997
 
Le luci caotiche della città bucano i vetri e le tende leggere che li ricoprono, apparendo torbide ai suoi occhi. Il rosso è più simile al rosa, il giallo al freddo bianco del neon: colori smorti, incapaci di suscitare emozione. Li osserva lampeggiare sul soffitto della camera, pensando che, se ogni persona fosse rappresentata da un colore, lei sarebbe il bianco. Perennemente incompleta e consapevole che una piccola macchia di colore potrebbe mutarla, perché il bianco si adatta ad ogni colore, anche a quello sbagliato. Si volta, abbracciando il cuscino e l’osserva.
Lui sarebbe l’azzurro del cielo, sempre pronto a contenere le nuvole in pezzi, pezzi di bianco.
Perché il bianco è fragile, s’incrina facilmente, ma nasconde le proprie piaghe dietro all’infinito dei suoi confini.
Spesso le capita di sentirsi come se non avesse un passato, come se si trovasse in quel luogo senza sapere da dove viene.
Stanca, di quella stanchezza che sa dare solo il vuoto.
Chiude gli occhi e nello stesso istante il cellulare comincia a vibrare rumorosamente sul comodino.
Lo schermo s’illumina ad intermittenza con il nome del mittente. Lo afferra, alzandosi e, camminando in punta di piedi, raggiunge il bagno.
“Kudo! Ti rendi conto di che ore sono?”.
“Si. Qui sono le sedici e cinquantanove, lì dovrebbe essere piena notte”.
“Infatti. Ti sembra normale chiamare a quest’-”. Si blocca avvertendo un senso d’angoscia. “È successo qualcosa? Al professore o-”.
“No, stiamo tutti bene” la tranquillizza, riuscendoci nonostante la sua voce sia arrochita dalla distanza.
“Allora cosa vuoi?” sussurra, sentendo il fruscio del lenzuolo ed un verso gutturale provenire dalla camera
ed aggiungersi al bip bip della sveglia, che rintocca l’ora.
“È il rumore dell’orologio questo?”.
“Si, ma…”.
“Allora auguri, Shiho.
Quando riaggancia, Shiho rimane ancora qualche minuto in bagno, seduta sul bordo della vasca,
a fissare il cellulare con un timido sorriso e un senso di calore che le si espande al centro del petto.
 
 

Tokyo, 30 Novembre 1997
 
Ran è in ritardo, ma il pesante cappotto che indossa limita i suoi movimenti, cosicché la sua corsa appare sgraziata e goffa, costringendola più di una volta a scusarsi con i passanti che urta e che le rivolgono occhiate colme di sdegno.
Quando arriva al centro commerciale, il fiato corto e ansante le impedisce di urlare per richiamare l’attenzione di Shinichi, che fischietta sotto il grande albero tempestato di luci e cristalli, sollevando di tanto in tanto il polso per controllare l’orologio.
“Scu….scusa” ansima alle sue spalle, mentre il freddo comincia a pizzicarle le guance accaldate.
Lui contrae la bocca in una smorfia, afferrandola per il bavero e sistemandole il nodo della sciapa. “Ecco, così non ti ammalerai”.
Ran sorride, consapevole che il rossore assunto dal suo viso ha poco a che fare con il gelo, e, stringendosi al suo braccio, lo segue tra le vetrine già adornate con temi natalizi. “Le hai già preso un regalo?”.
Sono fermi davanti ad un negozio di articoli femminili.
“Non ancora”.
“Beh, che aspetti? Quella sciarpa è carina, potrebbe piacerle” ed indica il capo stretto al collo del manichino.
Shinichi, però, storce il naso. “No, non le piace il bianco”.
“Davvero?”.
“Già” sbuffa, spostando gli occhi su un paio di guanti cammello. “Dice che non è un colore, che è indefinito e non lo so si può legare a niente, solo al vuoto”.
Rimangono in silenzio alcuni istanti, finché Ran si lascia sfuggire un “Sono un po’ gelosa” che fa incrociare i loro sguardi. “Sai molte cose su Shiho, come se la conoscessi da sempre”.
Nel tono sommesso della sua voce affiora, lieve, il rammarico che le comprime il petto ogniqualvolta la si nomini.
“Il tuo colore preferito è il blu, Ran” sospira, sollevando un angolo della bocca e raccogliendo le sue dita ghiacciate tra le proprie. E a lei basta il calore di quella stretta per scacciare la tristezza. Con lui si sente sempre al sicuro, anche dai cattivi pensieri, come quel giorno di tanti anni prima, quando l’aveva portata dietro le quinte di un teatro e lei si era appesa alla manica del suo maglione blu.
 
 
New York, 20 Dicembre 1998
 
“Shinichi?”.
La sorpresa le opprime la voce, che esce, quindi, distorta, rotta, troppo debole per vincere il chiacchiericcio dei passanti.
Muove qualche passo, ma l’aria metropolitana la costringe a chinare il capo, perdendo un contatto visivo che ritrova nei suoi occhi, ora vicini.
A distanze ridotte, Shinichi si accorge che il suo sguardo in qualche modo è cambiato.
Non è più uno di quelli spietati e accattivanti, che potevano decidere se distruggerti o graziarti con una sola, impercettibile flessione delle sopracciglia. È caldo come non avrebbe mai pensato potesse essere il verde, lucido di commozione
o forse, e più probabile, è il vento freddo dell’inverno a farla lacrimare.
“Cosa ci fai qui?”.
Si stringe le spalle, dondolandosi sulle punte dei piedi un paio di volte prima di piegarsi in avanti, facendo per poco sfiorare i loro nasi.
“Un Ciao sarebbe gradito”.
Shiho sorride, ma solo con un angolo della bocca.
“Ciao….cosa ci fai qui?”.
“Sono passato per un saluto”.
“Kudo…” l’apostrofa sarcastica “…vuoi farmi credere che ti sei fatto più di tredici ore di volo per un saluto? Una mail arriva prima”.
Shinichi scoppia a ridere a quella risposta e lei ha l’impressione che non lo faccia da molto tempo,
specie perché è solo la sua bocca ad essere allegra. Lo sguardo, infatti, è lontano.
“Sono venuto a New York per pensare…”.
Una frase lasciata in sospeso finché Shiho non la conclude. “…a Ran?”.
Quel nome gli provoca un fremito, una stretta dolorosa al costato, lì dove giace il cuore.
“La amo, lo sai, e non voglio perderla, ma il mio lavoro….Si è aperta una crepa nel nostro rapporto e non so se sarò capace di ricucirla”.
“E credi che mettere svariate miglia tra voi possa aiutarti?”.
“Pessima idea, vero? Però qui c’è una persona che nel creare baratri è maestra”.
Shiho sospira, accogliendo quella verità dolorosa, ma inoppugnabile.
Si è scavata attorno un baratro che anni prima aveva provato a saltare, cadendoci, invece, dentro.
Ora si accontenta di sedersi sul ciglio con le gambe a penzoloni nel vuoto.
La voce di Shinichi non smuove più nulla nel suo stomaco, ma l'idea di lui è presente e lo sarà sempre,
come l'unico vero termine di paragone per tutto quello che verrà dopo.
“Shiho! Shiho! Come on! The play is about to begin!”.
Un giovane in giacca e cravatta, dal marcato accento americano, la chiama a gran voce,
spalancando la porta del teatro, prima che lei possa rispondere. “Just a minute” gli urla, voltandosi verso Shinichi.
“Stasera non posso, ma domani…chiamami domani” e, mentre parla, corre verso l’entrata.
Lui la segue, seppur solo con gli occhi.
La vede raggiungere quel ragazzo, lasciarsi cingere la vita, posargli la testa sulla spalla e,
quando si gira per dirle qualcosa, sfiorargli le labbra con un bacio.
E per la prima volta, Shinichi si sente come lo spettatore della platea, che durante lo show, non capisce una battuta:
si guarda intorno, spaesato, cercandone il senso nell’espressione del vicino e solo allora ride, o si rattrista, senza nemmeno sapere il perché.



New York, 21 Dicembre 1998
 
È l’una di notte e lei continua a rigirarsi tra le lenzuola. Il ricordo della serata appena trascorsa è ancora vivido, febbrile. Ci si può ammalare di un ricordo?
Eppure le sensazioni che avverte sono quelle insensate della malattia, quando i suoni sono ovattati, gli occhi umidi, il corpo bollente.
Hanno riso, discusso, parlato come due veri amici e non come due vittime a caccia di giustizia.
Con amichevole preoccupazione, Shinichi si è informato su chi fosse il suo accompagnatore a teatro, con altrettanta cura lei ha sviato le risposte, invitandolo a concentrarsi sui propri problemi e….
D’un tratto il cellulare s’illumina, avvisandola dell’arrivo di un nuovo messaggio.
Sei felice, Shiho?
…e lei vorrebbe tanto rispondere di si.
 
 
Tokyo, 4 Maggio 2001
 
“Allora è vero! Sei tornata!”.
Le catene dell’altalena cigolano quando si volta.
Shinichi la sta guardando come si guarda un’adulta che finge di essere ancora bambina e
lei sorride ricordando che da piccola preferiva rimare seduta sul divano a leggere piuttosto che giocare perché la trovava una cosa infantile.
Non è mai stata brava a vivere le sue età, decisamente.
“Oggi è il tuo compleanno”. Gli porge il pacchetto che teneva in grembo, notando stizzita che il lungo viaggio ne ha stropicciato gli angoli.
“È un libro…” conferma, prima che lui le illustri la sua brillante deduzione. “…non sapevo che altro prenderti”.
Shinichi la ringrazia, accantonandolo sull’altalena libera.
“Devo dirti una cosa. Voglio che tu sia la prima a saperla”.
Il suo sguardo abbandona il terreno smosso sotto i suoi piedi ed incontra l’entusiasmo di due occhi colmi d’emozione.
“Ho intenzione di chiedere a Ran di sposarmi e vorrei che mi facessi da testimone!”.
Snocciola la sua richiesta tutta d’un fiato e Shiho a stento comprende le sue parole, che arrivano dritte al cuore, prima di giungere alle orecchie.
“Allora? Ti prego dimmi di si! Ran chiederà sicuramente a Kazuha e a Sonoko di essere le sue damigelle,
ma non penso che Makoto sia il testimone ideale”.
Stavolta è lei a fissarlo, paragonando il suo broncio a quello capriccioso di un bambino.
“Sei davvero presuntuoso, detective. La tua richiesta dà per scontato che Ran accetti”.
 
Tokyo, 7 Maggio 2001
 
“Aspetto ancora la tua risposta” le fa notare, mentre la voce metallica dell’altoparlante annuncia l’imminente partenza del volo.
“Dii al tuo amico Hattori di vestirsi decentemente…” sbuffa, raccogliendo il bagaglio. “…non ho alcuna intenzione di sfigurare per colpa sua!”.
 


Tokyo, 8 Maggio 2002
 
La sala è ricolma di gente festante. Qualche lacrima bagna il parquet, ma sono troppo poche o troppo felici, per lasciarsene impensierire.
Shinichi guarda Ran, fasciata in un abito d’organza bianco avorio, tentare di calmare il padre in preda a spasmi di rabbia, per cui lui se tiene cautamente alla larga, e crisi di pianto.
Osserva il suo viso contrito, preoccupato per gli altri anche nel suo giorno più bello, si tocca la fede, ritenendosi fortunato, perché è e sarà sempre lui la prima persona cui lei dedicherà i suoi pensieri, angosciati o felici che siano; poi cerca Shiho.
È in piedi, accanto al tavolo del buffet. Ha i capelli più lunghi -lasciati crescere più per mancanza di tempo che per volontà, come lei stessa ha ammesso- e, vista l’occasione, li ha raccolti sulla nuca, in un’acconciatura elegante e non pretenziosa. Mentre parla, alcuni ciuffi ribelli le ricadono sul viso, in quel modo che Shinichi sa darle particolarmente fastidio; infatti sbuffa, ricacciandoseli dietro alle orecchie, ma un ricciolo cocciuto torna a lisciarle la guancia.
Nota il suo disappunto e decide di raggiungerla per suggerirgli di combattere la sua guerra personale con una forcina, tuttavia, mossi appena un paio di passi, si blocca.
In suo soccorso è arrivato, tempestivo, il suo fidanzato, anche se Shiho non vuole lo si chiami così. Prende la ciocca tra due dita, gliela sistema, sorride, sussurrandole qualcosa che la fa arrossire. Non sa cosa le abbia detto, ma poco dopo lei lo prende per mano ed entrambi spariscono nel corridoio.
“Shinichi!”. È sua madre: dal modo in cui avanza verso di lui, si prepara ad una di quelle teatrali sceneggiate che lo innervosiscono da quand’era bambino.
Fugge allora, prendendo la stessa porta da cui, poco prima, è uscita Shiho.
Quell’ala dell’hotel è in disuso, come testimoniano il buio e la tappezzeria sciupata, perciò non capisce cosa l’abbia spinta a rifugiarsi in quel posto malandato, finché non sente alcuni passi rimbombare e farsi più forti, vicini. D’istinto si addossa al muro, celando la sua presenza di una tenda quasi staccata, e sbircia il corridoio, attraversato, un secondo dopo, da quel tipo, l’Americano, come l’apostrofa sempre, tra sé e sé, diretto in tutta fretta verso il salone.
Sembra gentile, ha una discreta carriera accademica sulle spalle e Shiho dice che ‘la fa sentire parte di qualcosa’.
Quando il cono di luce che filtra dalla sala si riduce fino a spegnersi del tutto, esce dal suo nascondiglio e prosegue lungo il corridoio. In fondo a sinistra, c’è una sala aperta e, seduta sopra un tavolino abbandonato, Shiho. Sta quasi per chiederle spiegazioni, ma alcuni dettagli lo fanno desistere: le ginocchia lasciate scoperte, la spallina dell’abito abbassata, le labbra arrossate e poi quel suo sguardo sorpreso e colpevole che lo fissa supplicandolo di non fare domande. L’atmosfera si zittisce, coperta da un sottile velo d’imbarazzo che stringe, stringe fino a spezzarsi. In una risata.
Lui le dice che non si sarebbe mai immaginato un comportamento simile da parte sua.
Lei ribatte, ricordandogli che altrimenti non sarebbe un vero matrimonio.
“E tu quale scusa hai per esserti…spinto da queste parti?”.
“Mi sto dando alla macchia” sbuffa, slacciandosi il primo bottone della camicia ed allentandosi la cravatta.
“Dovresti tornare dagli invitati, invece. Credo che noteranno presto la sparizione dello sposo”.
“Un matrimonio in giallo” scherza, aiutandola a scendere.
Shiho aggrotta la fronte in un’espressione tutt’altro che divertita. “Purtroppo il detective è anche lo sposo”.
“Ci devo proprio andare, eh?”.
 
 
 
New York, 11 Febbraio 2003
 
Si lascia amare.
Le sue mani, piccole e affusolate, s’imprimono sulla pelle tesa ed abbronzata della sua schiena, ma accarezzano un corpo che non conosce.
Dona baci alle labbra che li richiedono, immaginando un sapore che non è mai uguale a quello della sua lingua.
“Where are you, Shiho?”. Una voce arrochita la riporta alla realtà di due occhi blu che tornano ad essere grigi.
La sta guardando con desiderio, lo stesso che prova lei e che dirige altrove.
 “Here” risponde, abbracciandolo per convincerlo e convincersi che sia vero.
Lui sorride, scende a marchiarle il collo, illudendola che un brivido possa annebbiarle la mente, impedirle di pensare. Ma ciò è impossibile.
Si pensa sempre a quello che si ha a cuore. L'amore è una specie di forza di gravità: invisibile e universale, come quella fisica. Inevitabilmente il nostro cuore, i nostri occhi, le nostre parole, senza che ce ne rendiamo conto vanno a finire lì, su ciò che amiamo, come la mela con la gravità.
Shiho si lascia amare, perché non può fare altro.
 
 

Tokyo, 1 Aprile 2003
 
“C’è sempre la segreteria” sospira seccato.
“Su Shin, sarà impegnata. Chiama i tuoi intanto” gli consiglia, sfilandosi il soprabito e rivelando una rotondità sospetta, che, quel pomeriggio, hanno scoperto essere magnifica certezza.
“No” borbotta, ricomponendo immediatamente il numero. “Dev’essere la prima a saperlo!”.
 
 
 
New York, 9 Aprile 2003
 
Non le sono mai piaciuti gli ospedali. Profumano di disinfettante, l’odore di finto pulito, perché non c’è nulla di pulito nella malattia.
E poi non ha mai sopportato il clima d’attesa che permane l’aria, quello che ad ogni cigolio della porta
le fa sollevare di scatto il volto per vedere un’infermiera chiamare i pazienti seduti come lei.
“Myano”.
Si alza, sicura che la lunga trafila affrontata per ritirare delle semplici analisi sia stata inutile,
ma, quando ha tra le mani gli esiti degli esami, avverte una strana sensazione appena sopra la pancia o forse dentro.
Lui è fuori, seduto su una panchina. Sorride non appena la vede uscire e sospira sollevato
nel sapere che i suoi continui malesseri non erano altro che sintomi di stress e troppo lavoro,
nei suoi occhi, però, Shiho scorge il lento affievolirsi di una luce, di una speranza forse?
 
 

New York, 13 Aprile 2003
 
“Mi ha chiesto un figlio”.
“E tu che gli hai risposto?”.
“Non me l’ha chiesto esplicitamente, ma i suoi occhi non lasciavano spazio ad altra interpretazione”.
Però non mi sembri entusiasta”
“Eh, che….non lo so. Mi sembra presto”.
“Convivete da anni ormai”.
“Si, ma…”.
“Di che hai paura, Shiho?”.
“Di me stessa, credo”.
“Una madre, in fondo, assolve il suo compito con piccole premure. Sono gli ostacoli del mondo il vero problema: nessuno sa raggirarli. Tu hai combattuto contro un’organizzazione criminale, sei caduta e ti sei risollevata. Sei un libretto d’istruzioni con tanto di garanzia”.
“Mmm forse, ma…perché ridi?!”.
“Stavo pensando a tuo figlio”.
“E ti viene da ridere? Non è affatto rassicurante!”.
“Scusami. È che mi sono immaginato un bambino musone, che lascia a bocca asciutta qualunque adulto gli dedichi attenzione”.
“Ma è terribile, Shinichi!”.
“No, sarebbe bellissimo. Tuo figlio, intendo”.
“Dipende anche dal padre, suppongo”.
“Sarebbe comunque bello, se avesse i tuoi occhi”.
 

 
Tokyo, 27 Luglio 2003
 
“Apri, Ran!”.
Colpisce il legno scuro con il palmo aperto della mano e la forza è tale che la chiave si sfila dalla toppa e cade a terra, in un tintinnio.
Nessuna risposta, neanche un tremito, dall’interno.
Appoggia la fronte sulla porta, le dita sempre strette alla maniglia quasi avesse paura di vederla scomparire,
il respiro intralciato dal senso d’impotenza che gli comprime i polmoni.
“Apri”.
Un sussurro, stavolta, accompagnato da una carezza che non ha la pretesa di farsi sentire.
Tuttavia la serratura scatta e i cardini cigolano, aprendo una fessura, un invito ad entrare.
La stanza è al buio, ma non completamente.
La persiana lascia filtrare quel tanto di luce che basta per rivelargli che Ran è stesa sul letto, raggomitolata su se stessa.
Si avvicina per posarle una mano sulla spalla, ma lei si ritrae, impedendoglielo e Shinichi capisce che la vera porta chiusa non era quella della camera, ma quella del suo cuore.
 
 
 
New York, 8 Agosto 2003
 
Una tazza di the fumante è la sua unica compagna nell’ennesima notte insonne.
I fascicoli e le cartelle con i dati delle ultime ricerche, però, non centrano; sono accatastati in pile perfette su un angolo del tavolo, assieme ad un paio di provette vuote e un CD di musica - la rilassa ascoltarla mentre lavora.
Stavolta sul computer compaiono caratteri comprensibili a chiunque.
 
 Shinichi, ho saputo del bambino. Mi dispiace|
 
Il cursore sullo schermo ha smesso di lampeggiare quasi sapesse che la frase non verrà mai terminata e, mentre la rilegge, diventa consapevole che quelle parole mancano di qualcosa.
Sono solo lettere battute su una fredda tastiera e qualsiasi cosa manchi loro, quella cosa manca anche a Shinichi ora.
Star lì a fissarle è troppo poco, anzi è ancora meno di quel troppo poco che può fare per lui; perciò afferra la cornetta e compone un numero.
“At what time is the first flight to Tokyo?”.
 
 
 
Tokyo, 1 Ottobre 2003
 
“Grazie per essere rimasta tanto a lungo. Spero che l’università non ti faccia storie”.
“Mi devono comunque un sacco di straordinari e ferie arretrate”.
Dalla cucina arrivano i rumori dei piatti e dell’acqua che scorre, poi un colpo di tosse deciso, al quale l’intensità dello sguardo di Shinichi muta.
“Vorrei che dessi un’occhiata a questi, prima di andare” e le porge una cartellina, nascosta sotto un pesante libro.
“Cosa sono?”.
“Gli esiti degli ultimi esami di Ran”.
Shiho denega la testa, serrando le dita attorno alla stringa della borsa. “Non è il mio campo, Kudo”.
“Lo so, ma sicuramente ci capisci di più di noi due.
Domani Ran ha l’ultima visita di controllo e…sarebbe più facile andarci, sapendo già cosa ci aspetta”.
L’interessata, intanto, si presenta all’uscio con un’espressione supplichevole scolpita in volto.
“Credo di non potermi sottrarre, allora”.
Se c’è una cosa che Shiho odia più di aspettare, è subire lei stessa quell’attesa.
Gli sguardi che seguono ogni suo gesto, interpretandolo a modo loro, le gambe che ballano nervosamente, come dire: ‘Su, sbrigati’ ed i respiri che di frequente bucano le labbra in un sibilo, complicano il suo lavoro.
Cercando di mantenere comunque la calma, sfoglia le pagine e studia l’ecografia: qualcosa non torna.
I valori ormonali sono elevati e non ne comprende il motivo, finché non si accorge della sigla apposta tra le note: PCOS.
Sospira, combattuta. Ora dovrà decidere come rivolgersi loro.
“È tutto perfettamente in ordine”.
Ran si accartoccia in avanti, appoggiando la testa sui pugni chiusi attorno alle ginocchia e lasciandosi sfuggire un “Grazie”, che Shiho sa non essere diretto a lei. Shinichi, invece, esulta in maniera più pacata: cinge le spalle alla moglie e continua a puntare gli occhi nel verde dei suoi.
Ha parlato da amica, però lui è riuscito a vedere lo sguardo del medico.
Quello che non dà scampo alla gioia.
 
 

New York, 2 marzo 2005
 
A volte si affaccia alla finestra dell’appartamento con una mano al petto e ha l’impressione di sentire l’invisibile filo che avvolge il suo cuore in un cappio: è sempre teso a causa della distanza. E si sente stupida a pensare a tutto il tempo che spreca, desiderando essere altrove, dove una persona cammina, ignara di portarsi il medesimo nodo legato addosso.
 

 
Tokyo, 25 Dicembre 2008
 
L’atmosfera natalizia è diversa da quella dell’inverno precedente.
Ci sono le luci, l’albero addobbato con ghirlande rosse e dorate fa bella mostra di sé al centro del salone e l’aria è pregna dell’odore di vino, canditi e zenzero. C’è tutto, eppure Shiho non riesce a scrollarsi dalle spalle la sensazione che, in fondo, manchi qualcosa.
Forse perché non c’è più il professore, colpevole di aver esagerato con la torta alla cannella, da rimproverare, forse perché i sorrisi di Ran hanno perso fiducia, dopo l’ennesimo fallimento, forse perché….“Stai pensando a lui?”.
Shinichi lo fa apposta ad essere così silenzioso in ogni suo movimento per vederla sobbalzare,
portarsi una mano alla base della gola e sgridarlo, solo con gli occhi però.
Il lui in questione se n’è andato settimane fa. Ha fatto le valigie e se n’è andato, in silenzio, perché quando l’amore si accorge di non essere corrisposto, le parole non hanno la forza di farsi sentire. La separazione non l’aveva colta di sorpresa, era nell’aria da tempo, ormai.
Shiho era rimasta semplicemente impassibile ad aspettare che fosse troppo tardi.
“Quando c'è di mezzo l'amore le persone a volte si comportano in modo stupido. Magari sbagliano strada, ma comunque ci stanno provando... Ti devi preoccupare quando chi ti ama non ti ferisce più, perché vuol dire che ha smesso di provarci o che tu hai smesso di tenerci...”.
La sua ingenuità ha qualcosa di commovente. Si chiede, con un pizzico di timore, se arriverà mai il giorno il cui guarderà i suoi occhi non come parte del volto, ma come fossero il volto e tutto ciò che nasconde. Perché gli occhi sono le quinte dell’anima e teme quanto possano mostrare.
Sospira, accettando il punch che Shinichi le porge, e ricorda che, prima di lasciare la stanza, le aveva detto che poteva tenersi l’anello.
Quel cerchietto d’oro bianco con incastonato, al centro, un diamante rosa era stato l’oggetto delle sue riflessioni per tutta la notte, finché non l’aveva riposto nel cofanetto e relegato sul fondo di un cassetto, scoprendo, una volta chiuso, che il suo cuore non aveva bisogno di essere medicato, perché la ferita era grande quanto una puntura di spillo. “…forse non ci ho mai tenuto veramente…”.
 
 

New York, 25 Novembre 2010
 
“L’hai più rivisto?”.
Shiho è appoggiata di schiena alla ringhiera dello stagno, Shinichi, invece, vi punta i gomiti, piegando un ginocchio ed osservando Ran, sulla sponda, dar da mangiare alle anatre.
Denega la testa, stringendo appena le spalle.
“Prima di andarsene mi disse che ero un numero primo”.
“Un numero primo?”
“Già, gli piaceva la matematica, era una specie di hobby. I numeri primi non hanno metà, sono divisibili solo per 1 e per se stessi. Se ne stanno lì, solitari: simili a tutti e diversi da ognuno”.
“Sono numeri speciali quindi”.
Shinichi la fissa, attendendo una conferma, ma Shiho non ha il tempo di rispondere. Ran, giunta alle sue spalle, infatti, l’anticipa.
“Sono numeri destinati a restare soli”.
 
 
 
Tokyo, 7 Gennaio 2014
 
Prende il cellulare.
Le dita tremano sui tasti, un po’ per il freddo, un po’ per timore, ma alla fine riesce a comporre il numero.
“Pronto?”.
La voce di Shinichi è uno sbadiglio rubato al sonno e questo fa desistere la sua dal liberarle la gola.
“Pronto?! Shiho sei tu?”.
Per alcuni istanti sente solo il rumore della pioggia battente…
“Ti senti bene? È successo qualcosa?”.
“Sono sotto casa tua”.
…tamburellare il suo ombrello.
“Dammi un minuto”.
Sessanta secondi dopo, Shinichi è sul marciapiede, davanti a lei, con il cappuccio della felpa zuppo sulla testa ed i capelli appiccicati alla fronte.
Si sente sola, ma non sa come dirglielo. Non sa come dirgli che l’unica persona che le manca veramente è Akemi.
“…ed è morta  vent’anni fa, capisci! In vent’anni non sono riuscita ad instaurare un rapporto che mi faccia sentire la mancanza di un’altra persona!”.
Le sembra di urlare, perché la gola le brucia, ma è solo un’impressione.
La sua voce, infatti, è poco più di un sussurro, sono quelle parole a lacerarla.
“Smettila di mentire!”.
Shinichi, invece, grida. Il suo tono è uno schiaffo, le sue parole prive di consolazione, il suo sguardo una lama che raschia la carne.
“Ci sono io, ricordatelo!”.
 
 

New York, 21 Marzo 2017
 
Si rigira tra le dita il cartoncino colorato, l’invito all’inaugurazione della palestra di karate gratuita che Ran ha voluto aprire nel quartiere di Beika, riutilizzando uno dei tanti magazzini dismessi. La data che marchia la carta è vecchia di un mese.
Non c’è andata, Shiho, a quell’inaugurazione. Le scuse? Lavoro, poco tempo, stanchezza, troppe ore di volo, Gatto.
Insomma quelle che negli ultimi tempi usa con se stessa per non rispondergli, ma ora, alle cinque di mattina, ad un mese di distanza, gli alibi sono finiti.
 
 
 
Tokyo, 22 Marzo 2017
 
“Vieni a letto?”.
L’abbraccio di Ran è dolce, premuroso: gli cinge la vita da dietro e gli posa le mani sul petto, mentre si fa spazio con il mento sulla sua spalla.
Shinichi si volta, le bacia, la rassicura di far presto, poi torna a guardare il cielo dalla finestra.
Sono ormai mesi che Shiho non si fa sentire e, anche se gli sembra impossibile, gli manca.
Gli manca indovinare l’espressione del suo viso ascoltando la sua voce dalla cornetta, gli manca leggere che va tutto bene anche se non è vero e finire per discutere l’ennesima volta sul nome dato al gatto -Gatto?!…insomma non sarà mica un nome!-,
gli manca perfino il suo maledetto sarcasmo, perché quando lui se la prende per una battuta, lei ride.
D’un tratto il vetro riflette il lampeggiare rosso di una spia e un bip prolungato riempie lo studio. È una mail di Shiho.
In un primo momento decide di non aprirla, amareggiato e deluso per essere stato accantonato tutto quel tempo…
poi, però, pensa che, nonostante tutto, gli ha risposto.



Tokyo, 7 Luglio 2026
 
“Non ricordo assolutamente di averti detto una cosa del genere!”.
“Kudo, non vorrai rimangiarti la parola!”.
Ran e Kazuha si scambiano un’occhiata sconfortata, osservando i loro rispettivi mariti litigare in mezzo alla strada come due ragazzini.
Cos-? Io non mi rimangio proprio niente”.
Gli occhi di Shinichi si assottigliano contro lo sguardo testardo e rancoroso del suo amico e neanche Ran riesce a smuoverlo dalle sue convinzioni. “Secondo te, Ran, posso avergli promesso di offrirgli la cena se fosse diventato capo della prefettura di Osaka prima dei cinquant’anni?”.
Lei lo guarda basita, non credendo alle sue orecchie: stanno davvero discutendo per una sciocchezza simile?
“Shin, ti prego…” sospira, reclinando il capo e massaggiandosi una tempia. “Ti sembra il caso di sollevare tutto questo polverone per una cena?”.
Parole al vento. Il detective è inamovibile.
“È una questione di principio!” brontola, cacciandosi una mano in tasca per estrarre il cellulare, di cui comincia a pigiare velocemente i tasti.
A Ran viene un dubbio, ma prima che possa riuscire a formularlo, la suoneria dei messaggi si attiva in una serie di bip.
 
Big Osaka vs Tokyo Spirits, finale di campionato del 2013.
Alla fine del primo tempo, ti volti verso di me e borbotti qualcosa del tipo: “Tsk, figuriamoci! Heiji capo della polizia prima dei cinquant’anni! Impossibile! Quant’è vero che gli Spirits batteranno gli Osaka!”.
La partita finì a favore degli Osaka che vinsero il titolo e tu…

 
“…giurasti che fosse una pura coincidenza, scommettendo con Hattori una cena nel caso avesse ottenuto la sua agognata promozione!”.
Heiji, alle sue spalle, termina trionfante la lettura, cingendogli, poi, il collo con un braccio.
“Allora, Kudo…ho sentito che hanno aperto un nuovo ristorante proprio davanti all’Haido! Dobbiamo muoverci se non vogliamo perderci lo spettacolo pirotecnico di mezzanotte!”.
“Cosa? Ti rendi conto che è il ristorante più caro della città?!”, ma Heiji è già lontano, anche per leggere la seconda parte del messaggio:
 
ps: a proposito, prima della partita avevi scommesso sull’esito con me…quando intendi pagare, Kudo?
 

 
New York, 2 Novembre 2033
 
Il computer acceso, una mail aperta, il miagolio di Gatto.
 
Shiho, mi dispiace non potremo venire quest’anno per la festa del Ringraziamento.
Ran è molto stanca ultimamente e preferisco non costringerla ad un viaggio tanto spossante.
Tu mi capisci, vero?

 
Gatto si struscia sulle sue caviglie e Shiho gli dedica l’attenzione che le sue fusa meritano.
Lo prende in braccio, grattandogli le orecchie come piace a lui, che, infatti, ricambia con un profondo ron ron.
Gatto è un regalo di Shinichi, che aveva storto il naso, quando aveva scoperto come si sarebbe chiamato.
L’aveva accusata, con un sorriso, di essere un’emulatrice e lei, in risposta, di essere uno stupido.
 
 

Tokyo, 30 Gennaio 2035
 
Sale le scale al buio, evitando di posare il piede sul penultimo gradino, quello che scricchiola, per non svegliarla.
Quando si siede sul bordo del letto, tuttavia, delle dita gli sfiorano la spalla, cogliendolo di sorpresa e facendolo sobbalzare,
causando il cigolio delle reti.
“Ran!” la rimprovera, seppur in un sussurro.
Lei nasconde un piccolo sorriso contro un lato del cuscino e lo guarda. Ha gli occhi torbidi, un po’ arrossati, ma comunque dolci.
“Pensieri?” chiede, notando la sua aria distaccata, e lui annuisce.
“Bei pensieri?” azzarda, ma stavolta Shinichi non risponde, non muove neanche la testa.
Si volta, gli angoli della bocca rivolti verso il basso in un’espressione amara. Cerca parole che non trova, così lascia che sia lei a rompere il silenzio.
“I miei sono belli, sai?”.
Gli occhi di Ran ridono prima delle sue labbra, lo contagiano.
“Ah, si?”.
“Ricordavo Londra. I suoni, le luci, l’atmosfera…hai poi scoperto cosa c’era nel cuore della ragazza che amavi?”.
Si stende al suo fianco, prendendole la mano. “Ho scoperto cosa c’è nel mio, tu”.
 
 
 
Tokyo, 22 Febbraio 2035
 
Ran gli prende la mano arrossata e comincia a massaggiargli le nocche intaccate dal freddo con minuscoli taglietti.
“Hai le dita gelate!” borbotta.
“In tutti questi anni non hai mai imparato ad usare i guanti!” e lo trascina dall’altra parte della strada, in negozio di pelletteria.
“Ora scegli!”.
Shinichi lancia un’occhiata perplessa prima a lei, poi alla vetrina dove i capi sono ordinatamente disposti per taglia e colore.
“Faremo tardi”.
“Non ci muoviamo finché non entri a comprarti un paio di guanti”.
“Li comprerò dopo, giuro!”.
“Non vorrai stringere la mano al medico con quei due ghiaccioli che ti ritrovi?!”.
Il sonoro sbuffo che si lascia sfuggire appanna il vetro,
ma gli basta scorgere il riflesso dell’espressione intransigente di Ran per capire di non avere alternative.
“Non so” esclama dopo alcuni minuti di riflessione. “Ci sono troppi colori”.
“Scegli il tuo preferito, allora!”.
“Il verde?” chiede, mostrando una strana smorfia.
Il suo viso si distende un istante per far trasparire una certa sorpresa. “Ti piace il verde? E da quando?”.
Lui alza le spalle, un labbro sporto innocentemente. “Non lo so. Da sempre, suppongo”.
 
 

New York, 7 Marzo 2035
 
Quando attraversa di corsa l’ala oncologica dell’ospedale e scorge una figura famigliare affacciata alla finestra del corridoio, crede di avere le allucinazioni. Tuttavia, a metà strada, si volta per andare a controllare e scoprire di avere la vista ancora buona. “Shinichi?”.
Lui si volta piano piano, quasi temesse di spezzarsi con un movimento troppo brusco.
Nota subito qualcosa di diverso nei suoi occhi. Sono più chiari, opachi, come se avesse visto le sue certezze crollare, ridursi, con la marea, a cumuli di sabbia, che una volta erano castelli e nel momento in cui parla, Shiho, capisce il perché.
“Ran…”. Non serve altro.
Il nome della malattia è troppo brutto per dirlo ad alta voce.
 

 
New York, 23 Giugno 2035
 
“Sei sicura, Shiho?”.
“Si”.
“Io non vogl-”.
“Kudo, è un’idea mia”.
“Allora, grazie. Oggi è il tuo compleanno e sei tu a farmi un regalo…”.
“Per ora non c’è niente, non ti entusiasmare troppo”.
“Una speranza è già qualcosa. Anzi, è molto più di quanto potessi aspettarmi ultimamente”.
 
 

Tokyo, 1 Agosto 2039
 
Apre la porta, senza bussare. Ran è stesa a letto, il viso rivolto alla finestra, quel viso, una volta pieno, provato dalla malattia, dalle notti insonni, dalla morfina che non fa quasi più effetto.
I suoi passi sono tanto leggeri che lei non sembra neanche accorgersi della sua presenza e continua a fissare il sole, trovando forse conforto nei raggi che scaldano la stanza.
Shiho sistema la valigetta sopra il tavolino, prende siringa e disinfettante, le si avvicina.
“Devo prelevarti una piccola quantità di sangue” la informa, senza ottenere la ben che minima attenzione.
Solo quando passa il tampone sul braccio, all’altezza del gomito, Ran accenna ad una reazione: stringe il lenzuolo e muove le labbra rinsecchite dai farmaci per mettere insieme qualche parola. “Shinichi mi ha detto che questo non è il tuo campo, che ti sei sempre occupata di genetica e che per me hai fatto un’eccezione”.
“È così infatti”.
“Dice anche che sei la migliore e…”.
È costretta ad interrompersi perché il respiro cede e la frase termina in un rantolio.
“Shinichi dice un sacco di sciocchezze” taglia corto, avvertendo uno strano senso d’inquietudine montarle nello stomaco, mentre lo stantuffo si solleva e la siringa comincia a riempirsi lentamente di rosso.
“I primi risultati…quanto credi ci vorrà…”.
“Sono cose lunghe, richiedono tempo”.
“Tempo, eh?”.
Ran piega la bocca in quello che dovrebbe essere un sorriso. “Comincia a scarseggiare”.
In quella constatazione, seppur pronunciata flebilmente, Shiho coglie un rimprovero, che la fa irrigidire e il suo sguardo si riveste della durezza di quand’era giovane. A differenza di allora, però, non riesce a creare una barriera abbastanza solida da reggere l’urto di altri sguardi e così gli basta incrociare quello spento di Ran per ammorbidirsi e crollare.
“Hai dei begli occhi. Sono verdi, non me n’ero mai accorta”.
 

 
Tokyo, 17 Novembre 2040
 
Shinichi osserva le gocce di pioggia picchiettare i vetri della sala d’aspetto.
Due giorni prima, Shiho gli aveva detto che la cura funzionava,
che era riuscita a scindere i processi dell’APTX, pilotando la distruzione cellulare sulle matrici tumorali e stimolando il corpo a produrne di sane.
“Ma sua moglie non potrà beneficiarne”.
La sentenza dell’oncologo era stata, per lui, una condanna senza possibilità d’appello
perché il giudice a cui si sarebbe dovuto rivolgere è troppo in alto e la sua voce troppo misera, troppo lontana,
troppo uguale a tutte quelle che cercano invano di raggiungerlo, finendo per mescolarsi e perdere il messaggio.
Shinichi osserva le gocce di pioggia condensarsi, unirsi, ritornare ad essere due perfette entità della stessa materia.
Due giorni prima, i medici avevano usato un termine, per definire Ran, che continua a rimbombargli nelle orecchie: compromessa.
Se si cerca nel dizionario, si scopre che significa: irrimediabilmente danneggiata.
Lui lo sapeva, per questo si era scagliato contro la porta dello studio ed era uscito, sperando che l’eco di quel verdetto non lo seguisse.
Ed anche ora vorrebbe scappare, ma sa che sarebbe inutile; perciò compone un numero e si porta il cellulare all’orecchio.
“Ran è morta”.
Questa parola, morta, è talmente violenta che può dirla una sola volta e poi si zittisce.
Shiho, dall’altro capo, fa lo stesso.
 

 
Tokyo, 22 Novembre 2040
 
Il ghiaino scricchiola contro la suola e il suo rumore si aggiunge allo scrosciare dell’acqua.
Shiho, a capo chino, sotto l’ombrello, segue il pigro percorso di una foglia che s’interrompe sul marmo di una tomba, già meta di altre visite.
Alza gli occhi per guardarlo. Se ne sta immobile, incurante della pioggia che gli ha ormai impregnato giacca e camicia, con i pugni tesi lungo i fianchi.
“Sapevo di trovarti qui” più che dirlo, lo sussurra, lanciando un’occhiata nella direzione di una lapide che porta il nome di una persona mai esistita e ricorda come, quand’era morta, avesse desiderato ogni giorno andarla a trovare e si fosse dovuta accontentare di farlo solo con il cuore.
Shinichi non si volta. Fissa lo spazio vuoto tra i cognomi di sua moglie e nell’attimo in cui parla, Shiho ha la sensazione che si stia rivolgendo a se stesso. “È terribile. Le ho mentito…”.
Lei gli appoggia una mano sul braccio, stringendoglielo cosicché la sua presenza funga da consolazione, e si morde un labbro, conscia della sua impotenza.
“Le ho detto che nel mio cuore c’era lei, ma mentivo…”.
“Il dolore fa sragion-”. I suoi occhi puntati all’improvviso nei suoi impediscono alle parole di uscire.
È furbo Shinichi: piange sotto la pioggia credendo di nascondere le lacrime; non sa che hanno una consistenza diversa e si fanno riconoscere comunque.
“…mentivo perché altrimenti, ora che è volata via, dovrei sentire il dolore del laccio che la lega al mio cuore farsi sempre più forte, dovrei sentirmelo strappare dal petto…e invece se ne sta qui a battere contro il costato…”.
Shiho non comprende del tutto quelle parole, ma sa che il suo, di cuore, la spinge ad abbracciarlo. Così fa, lasciandogli l’incavo della spalla come rifugio. E all’improvviso sembra non piovere più.
Grazie a quell'abbraccio Shinichi sente i suoi spigoli, i suoi difetti, le sue spine smussarsi, addolcirsi e incastrarsi con dolcezza nei vuoti di lei.
 

 
Tokyo, 19 Luglio 2045
 
Camminano fianco a fianco, Shinichi e Shiho, per le strade semi deserte della città. Le vetrine riflettono spietate i crudeli segni che il tempo ha inciso sui loro volti e che lei per vanità cerca di nascondere dietro la spessa montatura degli occhiali.
Non più tornata in America e rimasta lì, al suo fianco, come ora, com’è sempre stato.
Shiho era con lui anche quando non c’era, quando a dividerli c’era l’Oceano o un semplice numero.
Tra i numeri primi, infatti, ce ne sono alcuni di molto speciali. I matematici li chiamano primi gemelli: sono coppie di numeri primi che se ne stanno vicini, anzi quasi vicini, perché fra loro vi è sempre un numero pari che gli impedisce di toccarsi per davvero…
Passando davanti ad un edicolante, Shinichi compra un giornale e storce la bocca leggendo l’annuncio dell’ennesimo detective da strapazzo.
“Ah…” borbotta, accartocciando la pagina. “Sempre i soliti ex poliziotti che prendono questa professione con leggerezza!”.
Shiho sghignazza, coprendosi le labbra con la mano. “Paura della concorrenza?”.
Lui s’impettisce, gli occhi attraversati da un lampo di sfida, e si preme il pollice al petto.
“Affatto! Io sono il numero uno!”.
…tuttavia, nonostante la loro natura solitaria ed ombrosa, tutti i numeri primi, anche quelli gemelli possono contare sul numero 1,
la rappresentazione della loro metà, l’unico numero che riesca a dividerli
e farli sentire così meno smarriti in quello spazio silenzioso e cadenzato fatto solo di cifre.
 
 

Tokyo, 15 Dicembre 2049
 
La guarda. È seduta sul divano e sfoglia una rivista, come quando era Ai e non voleva uscire di casa.
Ha i capelli più chiari, la pelle più sottile, le dita più ossute
Riflettendoci, ha sempre avuto qualcosa in 'più', Shiho. Anche più amore.
Quello che lui aveva percepito quel giorno, vedendola salire nel taxi, quello che l’aveva allontanata da qualsiasi relazione, quello che l’ha fatta attendere per anni.
“Come hai fatto?” chiede d’un tratto. “Come hai fatto ad amarmi tutta la vita?”.
Il cuore di Shiho si restringe fino a diventare grande quanto un cecio, ma l’imbarazzo è il sentimento dei giovani ed i silenzi d’amore non stanno più bene addosso a due come loro.
“Il mio era un amore impossibile. È stato bello, per certi versi. Bello, ma insopportabile”.
I suoi occhi hanno il colore intenso dell’erba di maggio, verde, il suo colore preferito da quando aveva sei anni.
Perché, in fondo, senza saperlo, l’ha sempre amata. Solo che amare è un verbo, non un aggettivo. Non è una cosa statica, fissa, stabilita.
È mutevole, si evolve, cresce e a volte s’inabissa, ma basta solo trovare la coniugazione giusta per farlo riaffiorare. “Ti amo”.
Posa una mano sulla sua, combaciano perfettamente. “Immagino che sia troppo tardi per un primo appuntamento, a teatro magari”.
Nella sua voce corre il rammarico del tempo sprecato, nei suoi occhi il rimpianto di non poter tornare indietro.
Shiho lascia scorrere le dita tra le sue nocche pronunciate e sorride, rivelando la linea perfetta dei denti che incorniciano un viso libero finalmente di rivelare i propri segreti ed amare senza ostacoli. “Dietro le quinte?”.
“Dietro le quinte!” conferma lui, raggiante.
Shiho gli accarezza il viso e si alza. Raggiunge la scrivania in mogano, apre un cassetto e vi estrae una piccola scatolina azzurra, una leggera esitazione sulle labbra. “Non è mai troppo tardi” dice, infine, porgendogliela.
All’interno, con suo grande stupore Shinichi trova due pillole, bianche e rosse, marchiate sul film con un numero minuscolo: 4869.
“Io credevo che non esistesse più”.
“E così sarà, se tu vorrai”.
Gli piega le dita contro il palmo, affidando a lui la decisione: qualsiasi essa sia, lo seguirà.
Ancora sorpreso, si avvicina al caminetto dove i ciocchi crepitano e le fiamme zampillano, riflettendosi nei suoi occhi. Si appoggia alla cornice di pietra, tergiversa ed infine allunga il pugno verso il fuoco, scoprendo l’orologio.
“Dobbiamo muoverci se vogliamo fare in tempo. Lo spettacolo inizia tra poco più di un’ora e dubito che riusciremo a sgusciare dietro le quinte se in ritardo. Anche da bambini si da nell’occhio!”.
 
 ***
 

Due bambini attraversano la strada.
Lui tiene le braccia incrociate dietro la testa e ha l’aria piuttosto scocciata.
Lei, seria, sogghigna.
Quando passano accanto ad un banco dei fiori, il piccolo esala un amaro “Non capisco perché dobbiamo andare a scuola alla nostra età”, facendo sorridere un’anziana signora: certe cose non cambiano mai.

 
 
 
Due adolescenti litigano in mezzo al marciapiedi.
Lei cammina celere, i pugni tesi lungo i fianchi, le labbra arricciate con disappunto.
Lui regge la cartella con una mano posata sulla spalla e digrigna i denti, cercando di starle dietro.
D’un tratto la ragazza si ferma, voltandosi minacciosa, ma assolutamente controllata.
“Mi stava solo salutando, ti ripeto! Sei così antiquato!”.
“Tsk! Senti chi parla! Potresti essere sua nonna!”.
 
 
 
Due adulti camminano per il parco di Beika.
Lui sorride al cielo terso, con la sinistra in tasca e la destra unita ad altre cinque, affusolate, dita.
Lei si gusta un cono gelato, osservando alcuni bambini giocare sulle altalene.
D’un tratto una raffica di vento le scompiglia i capelli e il giovane al suo fianco provvede subito a risistemarli dietro l’orecchio.
“Era una vita che volevo farlo” le confessa, prima di abbassare lo sguardo sulla mano libera di lei, che accarezza la rotondità del ventre, ed abbandonarsi ad un'altra piccola verità. “Sarà bellissimo perché avrà i tuoi occhi”.
 
 
 
  
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