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Autore: Mariam Kasinaga    29/10/2013    2 recensioni
Quel giorno aveva vinto qualsiasi cosa, ma aveva perso il suo orgoglio.
Genere: Drammatico, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo, Giappone feudale
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Il destino di un guerriero

 
 
Giappone XIII secolo
 
La pioggia batteva rumorosamente sul tetto di paglia mentre le onde del mare si infrangevano lungo la scogliera. L’uomo si mise a sedere sul futon, lanciando distrattamente un’occhiata fuori dalla finestra ed osservando come gli alberi di ciliegio venivano sferzati senza pietà dal vento. Mosse la mano destra verso il fodero della propria spada e lasciò scorrere il dito indice lungo gli ideogrammi dorati in rilievo, indugiando su quello del proprio clan.
 
“I Mongoli?” domandò l’uomo al messaggero, interrompendo gli esercizi di calligrafia. L’altro annuì inchinandosi profondamente: “Hai, Ashitaka sama! E’ prevista un invasione per il prossimo mese ed è stato ordinato a tutti i generali di recarsi ad Ovest a combattere. Se riuscirete a sconfiggere gli invasori o a fermarli, il generale Hojo avrà il tempo di riordinare le truppe ed attaccarli!” spiegò velocemente, slacciandosi l’elmo. Ashitaka si passò una mano sul volto: “Sembra che i nostri clan abbiano un nemico comune” mormorò, alzandosi di scatto. Il messaggero gli rivolse un’occhiata perplessa: “Cosa devo riferire al mio signore, Ashitaka sama?”domandò, accarezzando nervosamente il muso del proprio cavallo. Il nobile chiamò un paio di servitori e diede loro degli ordini precisi a mezza voce, prima di rivolgersi nuovamente all’emissario: “Dì al nobile Hojo che sono sempre pronto a combattere i nemici di Nihon e aggiungi che non sono né un suo feudatario né un suo samurai! Il fatto di aver assoggettato gli altri damiyo ed avere il favore dell’imperatore non lo autorizza a darmi ordini. Dì questo al tuo padrone!” ripetè sbrigativo.
 
Un mugolio sommesso affianco a lui lo fece sorridere: “Sveglia?” domandò, posando una mano sul fianco nudo della ragazza che dormiva affianco a lui. Lei aprì gli occhi svogliatamente, cercando di coprirsi con il lenzuolo: “Generale, niente armi in camera mia, lo sapete” mormorò, indicando la spada con lieve gesto della mano. Ashitaka scoppiò a ridere, sovrastandola: “Una katana non abbandona mai il proprio padrone. Un bravo soldato non se ne separa mai”le sussurrò all’orecchio ed incominciò a baciarle l’incavo del collo, ignorando le proteste dell’altra. “Il mio padrone non vuole armi in camera delle sue ragazze. Per favore Ashitaka sama!” riprovò, cercando di allontanarlo spingendolo con le mani. Lui rimase impassibile a quella richiesta, continuando a riempire di baci quella pelle diafana che lo faceva impazzire: le sfiorava con le dita l’incavo dei gomiti, annusava quei capelli neri odoranti di mandorle, si impossessava di quella bocca che continuava a supplicarlo e, soprattutto, cercava di allontanare quella sensazione viscida e disgustosa che provava prima di una battaglia imminente. “Yukio ingozzo il tuo padrone di soldi perché tu sia mia per un’intera notte! Ora taci e fai il tuo lavoro!” esclamò scocciato, tenendola ferma per i polsi. Yukio evitò il suo sguardo: “Dite di amarmi e che un giorno mi porterete nel vostro palazzo, ma non vi degnate nemmeno di spostare quella katana! Non siete diverso da tutti gli altri che vengono qui ogni notte”.
Il colpo vibrante dello schiaffo fu sovrastato dall’ululare del vento e dall’infrangersi delle onde lungo la costa. L’uomo rimase immobile in quella posizione, con il braccio sinistro ancora a mezz’aria, mentre sotto di sé vedeva la guancia della ragazza diventare paonazza ed i suoi occhi riempirsi di lacrime. Yukio appoggiò la mano dove era stata colpita, mentre il suo amante si alzava di scatto allontanandosi da lei: “Perdonatemi, vi ho mancato di rispetto” disse semplicemente, prostrandosi fino a toccare il futon con la fronte. Il generale la ignorò e, dopo aver indossato la vestaglia da notte, uscì dalla stanza senza dire una parola.
Il rumore dei suoi passi lungo il corridoio si mescolava ai gemiti ed agli ansiti degli occupanti della casa di piacere, mentre raggiungeva la piccola stanza che fungeva da bagno. Si sedette sul pavimento in pietra e si prese il volto tra le mani, tentando di controllare il respiro affannoso: non era la prima volta che partecipava ad una battaglia, ma non riusciva a non pensare con disgusto a come doveva apparire in quel momento. Riusciva a figurarsi tremante come un bambino, la pelle matida di sudore, mentre il cuore pompava il sangue talmente forte da sentire il battito incessante nelle orecchie. Scostò leggermente le mani dal volto e vide con profondo disappunto che le dita erano scosse da un violento tremore: “Solo gli sciocchi hanno paura di morire!” esclamò, tentando di farsi coraggio.
Si alzò faticosamente, appoggiando una mano al muro per sostenersi: era inutile ingannarsi, tentare di ripetersi che anche in quella battaglia sarebbe uscito vittorioso. Gli invasori mongoli erano meglio equipaggiati e disponevano di un maggior numero di uomini, mentre i clan del suo Paese erano appena usciti da una sanguinosa lotta fratricida. Il pensiero della sconfitta lo attanagliava, mentre l’idea di dover morire era letteralmente insostenibile. Si avvicinò barcollando ad una bacinella piena di acqua gelata e vi immerse il volto in un disperato tentativo di riprendere il controllo di sé.
Doveva calmarsi, doveva controllarsi. Come poteva portare i suoi uomini sul campo di battaglia se egli stesso era in preda al terrore? Sentì la porta scorrevole della stanza aprirsi alle sue spalle. “Ashitaka sama…” mormorò una voce femminile, tendendogli un asciugamano bianco immacolato. Lui lo afferrò con violenza, asciugandosi con forza il viso ed i capelli: “Non dovresti essere qui. Dovevi aspettarmi in camera” la rimproverò. Yukio si inginocchiò affianco a lui: “Voi avete paura” replicò la ragazza. L’uomo si voltò di scatto, perdendosi in quegli occhi neri come la notte che lo guardavano colmi di disappunto, mentre sedeva composta affianco a lui.  All’inizio anche lui aveva fatto come tutti gli altri, trattandola come se non fosse stata altro che un mero oggetto nelle sue mani, con l’unico compito di compiacerlo e fargli dimenticare le brutture del mondo. Si era innamorato di quella ragazzina con il passare dei mesi, sentendo le sue acute osservazioni scalfirgli l’anima e notando come quegli occhi gli scrutassero lo spirito, rivelandogli la realtà per ciò che era. Le aveva concesso una libertà che nessun’altra nella sua condizione poteva vantare: era a lei che confidava i suoi timori, a lei che permetteva di trattarlo come un suo pari, basando sulle opinioni di Yukio gran parte delle sue azioni. Il loro era un rapporto che andava ben oltre gli incontri carnali, sempre più radi, che con il passare del tempo avevano lasciato il posto  ad un sentimento di reciproca fiducia. Eppure, nonostante lei l’avesse visto più volte in difficoltà, quella era la prima volta che si mostrava ai suoi occhi in preda al terrore.
Provava vergogna sentendo crescere nel petto un disprezzo sempre maggiore per se stesso, ma non potendo far nulla per evitarlo. Strinse con forza l’asciugamano, appoggiando la schiena alla parete legnosa del bagno: “Devi aspettarmi in camera” ripetè, indicandole la porta con un gesto stanco della mano. La ragazza sospirò lievemente, accoccolandosi al suo fianco: “Non sarei degna dei vostri sentimenti se vi abbandonassi ora che avete bisogno di me” mormorò, appoggiandogli una mano sul petto. L’altro la lasciò fare, abbozzando un sorriso ironico: “Non posso vincere una guerra dopo essermi fatto consolare da una come te” replicò duramente, tentando di ferirla per farla andare via. Yukio non si scompose, ma si scostò leggermente dal corpo sudato del suo amante: “Voi vincerete, Ashitaka sama. Vincerete perché per voi proteggere questa terra ed i suoi abitanti è sacro. Mi avete ripetuto per mesi di come vi sareste sacrificato per Nihon, per salvare le persone che ripongono fiducia in voi! Voi respingerete gli invasori, Ashitaka sama, li respingerete grazie al vostro coraggio e alla vostra devozione. Voi vincerete e tornerete qui, da me, raccontandomi di come avete condotto il vostro esercito alla gloria!” esclamò, un attimo prima che la voce le morisse in gola.  Si portò una mano alla guancia, stupendosi di trovare una lunga scia salata. Rimase a contemplare le proprie dita bagnate di lacrime per qualche secondo, prima di alzarsi velocemente per scappare da quella stanza: voleva che il suo uomo la ricordasse come una persona forte e capace di reagire alle avversità, non come quelle donne piagnucolose che spesso incontrava a corte.
 
Una parte di lui voleva che Yukio uscisse da quella maledetta stanza e lo lasciasse, facendolo affogare nella marea di pensieri che gli affollavano la mente. Eppure non poteva rimanere insensibile a quelle parole così accorate che sembravano dipingerlo come un soldato impavido, né poteva ignorare le lacrime che stavano rigando il volto dell’unica persona a cui avesse mai mostrato tutte le sue debolezze. Si alzò meccanicamente, sentendo dentro di sé l’impulso irrefrenabile di stringerla tra le braccia, di sentire il cuore della ragazza tranquillizzare il suo, in un tacito dialogo tra due anime entrambe spaventate. L’attirò disperatamente a sé, passando una mano tra i profumati capelli neri, mormorando promesse che sapeva di non poter mantenere. Percepì il corpo di Yukio scosso tra i singulti tremare tra le sue braccia, percepì le lacrime che gli bagnavano il petto nudo, mentre la ragazza tentava inutilmente di darsi un contegno: “Ashitaka sama, torniamo in camera” mormorò, affondando sempre di più il volto nel petto di lui. Il generale annuì lentamente, aspirando quel profumo di mandorle che gli avevano donato la gioia nei lunghi messi trascorsi a combattere contro gli altri clan: ora sapeva cosa doveva fare, conosceva qual era il suo destino. Non avrebbe combattuto per il suo Paese, ormai popolato soltanto da damyo talmente avidi da distruggere ogni cosa su cui posavano il loro sguardo di cupidigia: avrebbe lottato per la persona che amava, per quella ragazza fragile, ma allo stesso tempo dotata di una volontà straordinaria.  Le sollevò leggermente il volto con la mano, guardando ancora una volta gli occhi di Yukio: “Arigatou, Yucchan!”
 
 
Il giorno dopo, costa occidentale del Giappone
Le nubi grigi sovrastavano il campo di battaglia, mentre gli altri generali e Ashitaka, riscosso dai suoi ricordi, contemplavano in silenzio l’avanzata delle navi mongole. Avevano schierato una linea difensiva lungo tutta la costa, sperando di trattenere gli invasori il tempo sufficiente per permettere al clan degli Hojo di raggiungerli con i rinforzi. Migliaia di navi solcavano il mare, mentre i pesanti remi sembravano voler punirlo per quelle enorme onde che rendevano difficoltose le manovre. Gli ufficiali gridavano ordini nella loro lingua incomprensibile, esortando i marinai ad essere sempre più veloci ed impartendo gli ultimi ordini alle truppe.
Un generale si avvicinò ad Ashitaka: “Se i Kami ci proteggono dovremmo vincere” riflettè ad alta voce, lanciandogli una profonda occhiata. L’altro strinse con forza l’elsa della katana:  “Vinceremo perché i nostri uomini sono i miglior soldati di tutta l’Asia. Hanno coraggio, onore, amor di patria. Nessuno di loro permetterà a questi sporchi barbari di invadere il nostro Paese”replicò. L’altro annuì nervosamente: “Rispondete a questa domanda. Voi credete a quello che avete appena detto?” domandò. Ashitaka rimase in silenzio per qualche secondo, mentre il vento ululava sopra le loro teste: “No, ma conosco una persona che crede io sia così” rispose sinceramente. Il suo interlocutore diede un’occhiata fugace all’orizzonte: “Spero possiate rivederla, nobile Ashitaka. E spero di poter brindare con voi alla nostra vittoria!” aggiunge, raggiungendo la propria divisione.
Il generale rimase immobile dal suo punto di osservazione sopra la scogliera, osservando i movimenti precisi e controllati dei propri soldati: poteva percepire la loro paura, immaginando i pensieri che affioravano nelle menti di chi aveva dovuto abbandonare la propria famiglia senza alcuna garanzia di ritorno. Lanciò il suo sguardo oltre l’accampamento, aldilà della bassa costa sabbiosa che presto si sarebbe impregnata di sangue, in direzione della flotta mongola che avanzava minacciosamente: chiuse gli occhi, tentando di raggiungere il nulla dentro di sé, nel disperato tentativo di annullare la propria coscienza e poter attingere all’energia dell’universo.  Sentì il vento slegare le cime che erano state assicurate dai soldati, far sbattere l’una contro l’altra le piastre delle armature, scuotere con forza gli alberi dietro di sé e la criniera del suo cavallo. Strinse con forza le redini, mormorando una preghiera alla dea Kannon che credeva di aver dimenticato da lungo tempo. Aprì lentamente gli occhi, estraendo la spada dal fodero: sapeva qual era la sua strada, non avrebbe dovuto far altro che seguirla.
 
Fu un attimo, il momento prima di incitare i propri soldati a combattere e morire per la patria.
Il vento, che fino ad allora aveva soffiato impetuoso ed insistente, sembrò voler sradicare le tende dell’accampamento dal terreno, sollevando gli oggetti che incontrava sul suo cammino. Una pioggia violenta cominciò a scendere dal cielo, mentre i pini secolari lungo la costa si inarcavano pericolosamente verso l’esercito schierato. Il generale guardò le navi della flotta mongola lottare contro le minacciose onde del cielo, talmente alte e violente da abbattere gli alberi maestri e squarciare le vele. I comandanti nemici urlavano ed imprecavano nella loro lingua gracchiante, mentre osservavano impotenti le titaniche forze della natura abbattersi su di loro: Ashitaka osservò alcune imbarcazioni schiantarsi l’una contro l’altra, mentre i rematori perdevano progressivamente il controllo, alcune sembravano sfasciarsi dall’interno a causa della notevole quantità di acqua imbarcata ed altre ancora rimanevano invischiate nelle forti correnti marine per poi inabissarsi nell’oscurità del mare dopo aver ruotato più volte su se stesse.
L’uomo, i soldati, i generali, nessuno di loro riusciva a distogliere lo sguardo da quella visione straordinaria, seppur terribile: in pochi minuti non stavano soltanto assistendo al totale annientamento della flotta nemica,  ma era una vera e propria punizione divina contro di loro per aver tentato di invadere Nihon. Nessuno di loro si sarebbe salvato da quel massacro, ma ad uno ad uno, una nave dopo l’altra, sarebbe periti in quel mare che, lentamente ed inesorabilmente, si stava trasformando nella loro tomba.
Ashitaka si riscosse dai propri pensieri, quando un grido cominciò a serpeggiare tra gli uomini: “Kamikaze! Kamikaze!! Il vento divino, il vento divino!” urlavano, mentre alcuni di loro si inginocchiavano a terra a pregare. Lui scese lentamente da cavallo, senza smettere di osservare la tragedia che si stava consumando davanti ai suoi occhi.
Aprì e chiuse la bocca un paio di volte nel tentativo di dire qualcosa, ma gli uscì soltanto un suono inarticolato, sovrastato dalle urla di tutti gli altri, che si accalcavano lungo la costa indicando le navi mongole. Il generale accarezzò il collo del cavallo in un gesto meccanico, mentre l’immagine di Yukio gli pervadeva la mente, annullando ogni altro pensiero: sarebbe tornato da lei, ancora una volta. Lei gli avrebbe gettato le braccia al collo, l’avrebbe baciato e gli avrebbe versato un bicchiere di sakè aspettando che lui si svestisse. Fece qualche passo in avanti, prima di cadere a terra in ginocchio, prendendosi il volto tra le mani.  Sentiva le proprie lacrime bagnargli le guance e le immaginò bagnargli le piastre dell’armatura. Scorrevano calde ed inarrestabili, nonostante tentasse in ogni modo di ricacciale indietro quella prova così tangibile della propria paura.
Sarebbe tornato dalla sua amante raccontandole di come gli dei avevano deciso di salvare Nihon, di come lui avesse pianto come una cortigiana vedendo i propri nemici uccisi da un’entità superiore e di quanto gli avesse tremato la voce nell’incitare i suoi uomini alla battaglia. Non era merito su quella vittoria, non era grazie a lui se, una volta tornati nei loro villaggi, ogni madre avrebbe potuto riabbracciare il proprio figlio.

Quel giorno aveva vinto qualsiasi cosa, ma aveva perso il suo orgoglio.




storia scritta per il contest EFP "Medioevo, ma quale epoca buia?"
   
 
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