Buona lettura!
Bianco sporco e freddo
Non era pazza.
Glielo aveva detto, ripetuto, urlato, lo faceva di continuo, ma loro non l’ascoltavano.
Lei non era pazza e non aveva motivo di stare lì, in quel covo di folli e assassini. Perché nessuno voleva crederle?
Era così stanca, non poteva più continuare a quel modo, avrebbe sul serio perso il senno se l’avessero lasciata lì dentro ancora a lungo.
Perché nessuno della sua famiglia era venuto a cercarla?
Che Richard li avesse minacciati? Che li avesse costretti a dimenticarsi di lei? Se così era, allora non aveva davvero più speranze di uscire; se c’era una cosa in cui suo marito era degno di fede era nel mettere in pratica le minacce. Dopotutto, era stato lui a farla rinchiudere in manicomio.
Ancora faticava a credere che gli fosse risultato così semplice. Possibile che persino la polizia fosse tanto manipolabile?
E quella povera ragazza…
Dio, non avrebbe mai più dimenticato l’orribile scena che le si era parata davanti nel momento in cui aveva aperto la porta della camera da letto. Tutto quel sangue… e quegli occhi, Dio, il terrore che la morte aveva cristallizzato nelle sue iridi spente!
Come aveva potuto Richard arrivare a tanto?
«Gelosia, signore. L’assassina credeva che la cameriera e il marito avessero una relazione, così ha ucciso la ragazza».
Era questo che aveva sentito dire ai poliziotti e con questa spiegazione essi avevano chiuso un caso che, ne era certa, grazie al denaro di suo marito non era stato realmente mai aperto.
Il processo era stato una farsa e la condanna emessa con una rapidità sorprendente. Adesso, lei si trovava rinchiusa in quell’inferno. Se l’avessero condannata alla prigione avrebbe almeno potuto confidare in un appello, ma non c’era ricorso per la follia.
Lei, però, doveva uscire, doveva tornare da Eva; così piccola, così indifesa, non poteva permettere che restasse in balia di quel mostro.
«La prego, dica al Dr. Cook che ho bisogno di parlargli!», supplicava ogni giorno gli infermieri quando entravano nella sua stanza con il pranzo o la cena.
«Il dottore oggi è impegnato, signora. Forse domani», le rispondevano puntualmente.
«Voi non capite, io sono innocente! Devo uscire da qui, devo tornare da mia figlia!».
«Non deve preoccuparsi per Eva, signora Miller, ha il padre a prendersene cura».
Ogni giorno lo stesso scambio di battute.
Finché, una sera, qualcosa cambiò; non era più riuscita a tollerare il disinteresse con cui l’infermiere di turno si beffava di lei e lo aveva aggredito, gettandogli il brodo bollente addosso. Così l’avevano messa in isolamento.
Quella stanza dalle pareti imbottite, di un bianco sporco e freddo, priva di finestre, era persino peggio della precedente. E il silenzio, Dio, quasi rimpiangeva le urla degli altri internati; prima, almeno, aveva ancora la sensazione di far parte di un piccolo residuo di mondo.
Disperata, chiamava di continuo chiunque la udisse, ma nessuno l’ascoltava. La ignoravano come facevano col resto dei pazienti.
Esausta, ora era seduta sul pavimento freddo, le mani fra i capelli. L’aspetto sudicio di quella stanza vuota la logorava.
Sarebbe morta, lì dentro, lo sapeva.
No, sarebbe impazzita sul serio.
Poi, qualcosa catturò la sua attenzione e lei sollevò il capo. Era una melodia.
Non riusciva a immaginare che qualcuno, in quel luogo, fosse capace di una cosa simile, ma di chiunque si trattasse, gliene era grata. C’era qualcosa, in quelle note così disperate e struggenti, che la faceva sentire meglio; come se le leggessero dentro, esprimessero le sue emozione e, al contempo, le placassero. Alla fine, su quelle note si addormentò.
Da quel giorno, sembrava essersi calmata. Non urlava più, non chiedeva più del dottore. Trascorreva la maggior parte del tempo immersa in un sonno privo di sogni e quando era sveglia si sentiva talmente esausta da rasentare l’incoscienza. Eppure, era certa di aver scorto più volte qualcosa, agli angoli della stanza; dei movimenti, degli strani scintillii rossi, quasi… degli occhi.
«Potrebbe dirmi chi sta suonando questa splendida melodia?», sussurrò una mattina a un infermiere. «Vorrei ringraziarli».
«Lo farò io», le rispose quello e uscì prima che lei si riaddormentasse di nuovo.
«Chiede ancora del Dr. Cook?».
«No, ora dice di sentire della musica».
«Se li lasciassimo andare ogni volta che giurano di non essere pazzi!».
Ore dopo, rientrando nella cella di isolamento, l’infermiere lasciò cadere il vassoio e urlò terrorizzato, reprimendo a stento la nausea.
La paziente giaceva morta sul pavimento, il suo corpo di giovane donna avvizzito come quello di una mummia.
Angolo Autrice:
Rieccomi qui col secondo racconto.
Come già accennato la scorsa volta, ho cercato di aumentare gli elementi disturbanti e inquietanti in ognuno dei racconti, in modo che il successivo "spaventi" più dei precedenti. Ci sarò riuscita? xD non lo so, spero di sì.
Personalmente trovo l'ambientazione di questa storia la più terrificante; l'idea di finire chiusa in manicomio, per di più senza un disturbo che lo giustifichi, mi fa mancare l'aria. E lo stesso accade alla protagonista. Rispetto alla precedente, lei non si sente semplicemente ingabbiata in una vita che vorrebbe diversa, la sua libertà le è stata letteralmente strappata via e la sua, di prigione, è fisica, non solo psicologica o emotiva.
Ovviamente, anche qui a salvarla c'è una misteriosa melodia che, a quanto sembra, solo lei è in caso di sentire. Coincidenza? Be', io nelle coincidenze non credo - per di più sono l'autrice, quindi so perfettamente che ogni cosa è voluta e ha uno scopo! xD -, ma la cosa più importante da chiedersi è... la salvezza offerta è realmente tale?
Graine
Glielo aveva detto, ripetuto, urlato, lo faceva di continuo, ma loro non l’ascoltavano.
Lei non era pazza e non aveva motivo di stare lì, in quel covo di folli e assassini. Perché nessuno voleva crederle?
Era così stanca, non poteva più continuare a quel modo, avrebbe sul serio perso il senno se l’avessero lasciata lì dentro ancora a lungo.
Perché nessuno della sua famiglia era venuto a cercarla?
Che Richard li avesse minacciati? Che li avesse costretti a dimenticarsi di lei? Se così era, allora non aveva davvero più speranze di uscire; se c’era una cosa in cui suo marito era degno di fede era nel mettere in pratica le minacce. Dopotutto, era stato lui a farla rinchiudere in manicomio.
Ancora faticava a credere che gli fosse risultato così semplice. Possibile che persino la polizia fosse tanto manipolabile?
E quella povera ragazza…
Dio, non avrebbe mai più dimenticato l’orribile scena che le si era parata davanti nel momento in cui aveva aperto la porta della camera da letto. Tutto quel sangue… e quegli occhi, Dio, il terrore che la morte aveva cristallizzato nelle sue iridi spente!
Come aveva potuto Richard arrivare a tanto?
«Gelosia, signore. L’assassina credeva che la cameriera e il marito avessero una relazione, così ha ucciso la ragazza».
Era questo che aveva sentito dire ai poliziotti e con questa spiegazione essi avevano chiuso un caso che, ne era certa, grazie al denaro di suo marito non era stato realmente mai aperto.
Il processo era stato una farsa e la condanna emessa con una rapidità sorprendente. Adesso, lei si trovava rinchiusa in quell’inferno. Se l’avessero condannata alla prigione avrebbe almeno potuto confidare in un appello, ma non c’era ricorso per la follia.
Lei, però, doveva uscire, doveva tornare da Eva; così piccola, così indifesa, non poteva permettere che restasse in balia di quel mostro.
«La prego, dica al Dr. Cook che ho bisogno di parlargli!», supplicava ogni giorno gli infermieri quando entravano nella sua stanza con il pranzo o la cena.
«Il dottore oggi è impegnato, signora. Forse domani», le rispondevano puntualmente.
«Voi non capite, io sono innocente! Devo uscire da qui, devo tornare da mia figlia!».
«Non deve preoccuparsi per Eva, signora Miller, ha il padre a prendersene cura».
Ogni giorno lo stesso scambio di battute.
Finché, una sera, qualcosa cambiò; non era più riuscita a tollerare il disinteresse con cui l’infermiere di turno si beffava di lei e lo aveva aggredito, gettandogli il brodo bollente addosso. Così l’avevano messa in isolamento.
Quella stanza dalle pareti imbottite, di un bianco sporco e freddo, priva di finestre, era persino peggio della precedente. E il silenzio, Dio, quasi rimpiangeva le urla degli altri internati; prima, almeno, aveva ancora la sensazione di far parte di un piccolo residuo di mondo.
Disperata, chiamava di continuo chiunque la udisse, ma nessuno l’ascoltava. La ignoravano come facevano col resto dei pazienti.
Esausta, ora era seduta sul pavimento freddo, le mani fra i capelli. L’aspetto sudicio di quella stanza vuota la logorava.
Sarebbe morta, lì dentro, lo sapeva.
No, sarebbe impazzita sul serio.
Poi, qualcosa catturò la sua attenzione e lei sollevò il capo. Era una melodia.
Non riusciva a immaginare che qualcuno, in quel luogo, fosse capace di una cosa simile, ma di chiunque si trattasse, gliene era grata. C’era qualcosa, in quelle note così disperate e struggenti, che la faceva sentire meglio; come se le leggessero dentro, esprimessero le sue emozione e, al contempo, le placassero. Alla fine, su quelle note si addormentò.
Da quel giorno, sembrava essersi calmata. Non urlava più, non chiedeva più del dottore. Trascorreva la maggior parte del tempo immersa in un sonno privo di sogni e quando era sveglia si sentiva talmente esausta da rasentare l’incoscienza. Eppure, era certa di aver scorto più volte qualcosa, agli angoli della stanza; dei movimenti, degli strani scintillii rossi, quasi… degli occhi.
«Potrebbe dirmi chi sta suonando questa splendida melodia?», sussurrò una mattina a un infermiere. «Vorrei ringraziarli».
«Lo farò io», le rispose quello e uscì prima che lei si riaddormentasse di nuovo.
«Chiede ancora del Dr. Cook?».
«No, ora dice di sentire della musica».
«Se li lasciassimo andare ogni volta che giurano di non essere pazzi!».
Ore dopo, rientrando nella cella di isolamento, l’infermiere lasciò cadere il vassoio e urlò terrorizzato, reprimendo a stento la nausea.
La paziente giaceva morta sul pavimento, il suo corpo di giovane donna avvizzito come quello di una mummia.
Angolo Autrice:
Rieccomi qui col secondo racconto.
Come già accennato la scorsa volta, ho cercato di aumentare gli elementi disturbanti e inquietanti in ognuno dei racconti, in modo che il successivo "spaventi" più dei precedenti. Ci sarò riuscita? xD non lo so, spero di sì.
Personalmente trovo l'ambientazione di questa storia la più terrificante; l'idea di finire chiusa in manicomio, per di più senza un disturbo che lo giustifichi, mi fa mancare l'aria. E lo stesso accade alla protagonista. Rispetto alla precedente, lei non si sente semplicemente ingabbiata in una vita che vorrebbe diversa, la sua libertà le è stata letteralmente strappata via e la sua, di prigione, è fisica, non solo psicologica o emotiva.
Ovviamente, anche qui a salvarla c'è una misteriosa melodia che, a quanto sembra, solo lei è in caso di sentire. Coincidenza? Be', io nelle coincidenze non credo - per di più sono l'autrice, quindi so perfettamente che ogni cosa è voluta e ha uno scopo! xD -, ma la cosa più importante da chiedersi è... la salvezza offerta è realmente tale?
Graine